S’apre fra una settimana la registrazione delle candidature alla prossima tornata elettorale volta a scegliere il nuovo presidente iraniano. La procedura di registrazione durerà sei giorni e verrà controllata dai 12 membri del Consiglio dei Guardiani, l’organismo che supervisiona le elezioni e approva le candidature. La selezione dura di norma cinque giorni, ma può essere procrastinata di altri cinque. Comunque il 20 o 25 aprile la struttura avrà valutato i candidati e gli eventuali ricorsi. Nelle quarantott’ore seguenti il ministro dell’Interno, che ha competenza anche su tutta la materia elettorale, presenterà la lista finale.
Quindi dal 28 aprile s’avvierà la campagna elettorale che avrà termine il giorno precedente il voto del 19 maggio. Chi saranno i volti elettorali non è ancora noto, in genere la tradizione iraniana non introduce sorprese clamorose, per cui riemergeranno candidati, sempre maschili, già apparsi nelle ultime consultazioni. Rientrano negli schieramenti che si confrontano da decenni: tradizionalisti, più o meno conservatori, e riformisti, con l’aggiunta di qualche novità, perché il tempo scorre anche nella millenaria Persia.
I riformisti, dopo l’uscita di scena di figure storiche come l’ex presidente Khatami, e le repressioni subìte da elementi di primo piano (Mousavi e Karoubi), nel 2013 avevano orientato il voto verso il nuovo soggetto politico: Hassan Rohani. Il pragmatico tranquillo che ha realizzato la quadratura del cerchio, ha convinto il fronte contestatore della passata ‘Onda verde’ a rinunciare a un’astensione che avrebbe molto sminuito il valore delle elezioni stesse.
Ha incamerato il voto giovanile, che gli ha consentito un’elezione al primo turno, evitando le insidie e i veti incrociati del ballottaggio. In tal modo ha superato di getto i candidati conservatori, dal sindaco della capitale, l’ex poliziotto Qalibaf, sostenuto dal potente apparato dei Pasdaran, a Jalili un altro laico ma in odore di teocrazia, che presentava come tutor uno degli ayatollah più tradizionalisti del Paese: Yazdi, già estimatore di Ahmadinejad.
Eppure nella tornata del giugno 2013 il peso massimo che consentì l’elezione di Rohani, fu l’ex presidente Rafsanjani, un pezzo della storia iraniana recente che va dalla lotta alla dinastia Pahlevi alla rivoluzione khomeinista. Nella primavera di quattro anni fa a Rafsanjani fu impedita la partecipazione alla tenzone dell’urna. Lui si vendicò contro certi apparati statali cercando in tutti i modi di frenare le candidature tradizionaliste, quelle sostenute dal nucleo degli ayatollah ultra conservatori: il citato Yazdi, Meshab Yazdi, Jannati, Hadad-Adel).
La sua opzione, più la scelta giovanile di credere nella chiave del cambiamento (un’enorme chiave, seppure di foggia medievale, campeggiava nelle apparizioni pubbliche di Rohani) portarono l’ayatollah diplomatico, che s’era occupato di politica estera ed energia, a sbaragliare il fronte avversario. Ma nei primi giorni dello scorso gennaio, quello che appariva come il sempiterno della politica nazionale è stato stroncato da un infarto.
Ora nelle settimane che separano dal voto non si sa chi potrà convincere i bazari ad appoggiare il presidente uscente, com’era accaduto in occasione della sua prima elezione grazie ai buoni uffici del ‘grande vecchio’. Uno dei punti di forza del programma di Rohani è appunto la fine delle sanzioni, grazie all’accordo sul nucleare di fine 2015. Però, dopo più d’un anno, proprio i settori del commercio medio e minuto non riscontrano quei benefici che il ritorno alla normalità avrebbe dovuto apportare.
Certo, diverse cose si muovono sul fronte economico: lo scongelamento degli asset finanziari all’estero ha fatto rientrare in questi mesi ingenti capitali. E’ poi risalita l’estrazione d’idrocarburi (da cui dipendono una grossa fetta del Pil interno e oltre il 70% dell’esportazione), l’intento è ripristinare entro l’anno la produzione di greggio che nella fase pre-sanzioni ammontava a 3.6 milioni di barili al giorno. Oltre ad ammodernare la tecnologia estrattiva, fattore che crea tuttora una necessità di collaborazione con l’Occidente, sono stati stipulati impegni in ambito strutturale, coinvolti i trasporti (con hub aeroportuali e treni superveloci, in ballo aziende italiane, francesi, tedesche). Altri progetti riguardano edilizia, metallurgia, mineraria.
Però simili impulsi coinvolgono i grandi gruppi statali, legati alle bonyad interne, che poco hanno a che vedere con certi ambiti in cui operano i mercanti di tradizionali settori (agricoltura e artigianato, seppure di generi particolari o pregiati). Insomma la carta dello sblocco ha sue incognite, anche perché gli ultraconservatori remano contro il Jcpoa (il piano di rimozione delle sanzioni). A loro avviso, esso rappresenta una concessione alle pressioni straniere e limita quel che può essere un posizionamento della nazione sulla scena internazionale e nello scacchiere regionale, tramite partnership che coinvolgono altri colossi: Russia, Cina, India. Più la stessa Turchia, competitrice nell’area attualmente in riflessione sui versanti geopolitico ed economico. Insomma i cinquanta giorni che separano l’Iran dal voto saranno vissuti intensamente dentro e fuori casa. I presupposti di confronto-scontro continuano a essere molteplici e sentiti.
articolo pubblicato su http://enricocampofreda.blogspot.it
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