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Lo sciopero della fame dei prigionieri palestinesi è un grido di libertà e dignità

Sono già passati trentadue giorni. Quattro settimane, 768 ore, nutrendosi di acqua e sale per sopravvivere, 1700 prigionieri politici palestinesi stanno portando avanti a oltranza un sciopero della fame, lo sciopero della dignità e della libertà.

1700 anime, da più di un mese a stomaco vuoto, chiedono semplicemente che siano rispettati i diritti fondamentali di una vita in carcere, previsti in tutte le convenzioni di Ginevra, nel diritto internazionale e nel diritto umanitario. Ma il governo coloniale di Israele continua a ignorare queste richieste, e la maggior parte dei mezzi di informazione tacciono, pur conoscendo bene il rischio che corrono questi prigionieri.

Un grido di giustizia che attraversa i muri, i continenti, gli oceani, i monti, ma la sua eco non ritorna in quelle maledette carceri. Le piazze si muovono, ma le istituzioni, nazionali e internazionali, non danno segni di vita davanti a quei corpi umani che si trasformano in scheletri viventi, nelle carceri dello “Stato più democratico” chiamato Israele. Quel grido di libertà e giustizia è il grido di un popolo intero che resiste e lotta per la sua libertà, insieme a tutti gli uomini e le donne amanti della pace e della libertà nel mondo.

A stomaco vuoto, lottano per la vita e per la dignità, contro un governo occupante, responsabile di una atroce occupazione che perdura da più di mezzo secolo. Essa ha trasformato la vita del popolo palestinese in un inferno, dai posti di blocco alle esecuzioni a sangue freddo di ragazzi solo per un sospetto, per non parlare di un muro illegale lungo 650 km, che ha chiuso i palestinesi in ghetti. E ancora, parlano i numeri: su una popolazione di tre milioni, almeno in 800 mila hanno subito l’arresto, il che significa che tutte le famiglie palestinesi hanno avuto un prigioniero nelle carceri israeliane. E in queste carceri ci sono ancora più di 7000 mila prigionieri.

L’attuale battaglia dei prigionieri assume una grande importanza nella lotta per la libertà, di fronte alla fine di ogni speranza di una soluzione politica. E rischia, nel caso malaugurato di decesso di qualche prigioniero, di far scoppiare caos e violenza, con conseguenze imprevedibili, sia per i palestinesi sia per gli stessi israeliani.

Non ci stancheremo mai di rivolgerci alle organizzazioni internazionali ed ai singoli Stati, per un intervento deciso e forte nei confronti del governo occupante, e per trovare i modi adeguati per costringere Israele a rispettare i dettami delle convenzioni di Ginevra riguardanti i diritti dei prigionieri.

Da sottolineare la denuncia dei famigliari dei detenuti, che accusano di negligenza il comitato internazionale della croce rossa (ICRC), che non affronta con la dovuta responsabilità la questione dei 1700 prigionieri. ICRC ha sempre vantato di avere un ruolo neutrale rispetto alle condizioni dei prigionieri, tuttavia resta in silenzio mentre 1700 prigionieri sono arrivati al 32° giorno di sciopero della fame vivendo solo con acqua e sale, e alcuni di loro solo acqua, dopo che le amministrazioni penitenziarie hanno confiscato loro anche il sale. Non è la prima volta che ICRC rimane in silenzio di fronte ai prigionieri in sciopero della fame mentre l’amministrazione penitenziaria israeliana li punisce. Il silenzio della Croce Rossa Internazionale e il suo rifiuto di incontrarsi con i prigionieri all’interno delle loro sezioni e delle loro celle può essere interpretato soltanto come collaborazione e connivenza con l’occupazione israeliana; esso contribuisce all’aggravamento della crisi e mette a rischio la vita dei prigionieri.
Fadwa Al-Barghouthi, moglie del leader prigioniero Marwan Al-Barghouthi – in sciopero della fame da più di 30 giorni -, ha detto che la Croce Rossa ha rifiutato di informarla sulle sue condizioni di salute, e si è limitata a trasmetterle solo i saluti del marito.
Ahmed Sa’adat, leader del FPLP, in sciopero anche lui, in un incontro con Addameer ha dichiarato che i prigionieri non hanno voluto incontrare la Croce Rossa in visita al carcere di “Askalan”, essendosi essa rifiutata di incontrare i prigionieri nelle loro celle.
La leadership dello sciopero, in una lettera uscita dal carcere, ha espresso la determinazione di continuare fino al raggiungimento degli obiettivi fissati all’inizio dello sciopero.
La solita politica dei due pesi e due misure viene applicata ogni volta che si parla di Palestina e di Palestinesi; è assordante il silenzio dei mass media italiani davanti al pericolo di morte di 1700 esseri umani in sciopero della fame, l’unica arma che hanno contro uno Stato potente; uno Stato che pretende di essere chiamato democratico!
Quando l’indifferenza diventa complicità…ribellarsi è un diritto.

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