Per il giubilo dei media di regime italici, venerdì scorso il Consiglio di sicurezza dell’ONU ha adottato all’unanimità la risoluzione presentata dagli USA per l’allargamento delle sanzioni contro la Corea del Nord: ne fanno le spese altre 14 persone fisiche (funzionari di Stato e di imprese commerciali) e 4 enti militari, industriali e creditizi. Il giorno prima, Washington aveva adottato per proprio conto sanzioni nei confronti di imprese e cittadini russi, cinesi e nordcoreani, sempre collegandole agli esperimenti nucleari di Pyongyang. “La RDPC deve capire che la comunità internazionale non accetterà mai la messa a punto e i test di armi nucleari da parte del regime nordcoreano”, ha tuonato la rappresentante yankee all’ONU Nikki Haley.
Il rappresentante russo, Vladimir Safronov, riferendosi alle sanzioni americane, ha detto che Mosca considera “illegale il meccanismo delle restrizioni unilaterali. Si tratta di un approccio distruttivo, allorché invece degli strumenti diplomatici di soluzione delle controversie, si ricorre al manganello delle sanzioni, che per inerzia sono rimaste anche con la nuova amministrazione americana”. Pur qualificando come “avventuristici” i passi di Pyongyang, Safronov ha però detto che questi “non devono costituire il pretesto per l’allargamento delle attività militari nella regione e la realizzazione di piani di forza. La logica del confronto è foriera di logiche catastrofiche”.
Il riferimento pare diretto abbastanza esplicitamente all’invio nella regione del Pacifico di un terzo gruppo d’attacco USA, guidato dalla portaerei “Nimitz”, che andrà ad affiancare le altre due squadre navali che da qualche mese incrociano nel bacino, costituite dalle portaerei “Carl Vinson” e “Ronald Reagan”, con i relativi vascelli di scorta.
Lo scorso 29 maggio, il Ministero degli esteri della RDPC aveva emesso un nota in cui era detto che “Le nostre misure per rafforzare l’armamento nucleare non sono che la legittima attuazione di autodifesa dei diritti di uno Stato sovrano, per fermare gli intrighi provocatori USA volti a scatenare una guerra nucleare. Ma il Giappone cerca di presentare le nostre misure di autodifesa come “minaccia” e “provocazione”. Durante il G7 in Italia, il leader giapponese ha dichiarato che è il momento non di negoziare, bensì di aumentare la pressione sulla nostra Repubblica. I Ministri giapponesi hanno insistito per ulteriori “sanzioni individuali” contro la nostra Repubblica”. L’obiettivo di Tokyo, continua la nota nordcoreana riportata dalla KCNA, è quello, “con il pretesto di una presunta nostra “minaccia”, di adottare draconiane misure fasciste e creare una base legale per una militarizzazione accelerata. In Giappone” continua la nota, “risuonano voci di protesta contro le macchinazioni della destra, che cerca di mutare la “Costituzione pacifica” in una Costituzione militare e trasformare il Giappone in uno stato bellico”. Pyongyang conferma che continuerà a “produrre tipi sempre più sofisticati e diversificati di armi nucleari fino a che gli Stati Uniti e i loro satelliti non faranno la scelta giusta. Fino ad oggi, solo le strutture militari USA in Giappone sono nel mirino delle nostre armi strategiche, ma se il Giappone continuerà a trattarci con ostilità, sottomettendosi agli Stati Uniti, i bersagli verranno cambiati”.
Sempre il 29 maggio, in coincidenza con l’avvio di manovre congiunte in Corea del Sud (prolungate per tutto giugno) le forze USA, oltre ai caccia della “Carl Vinson” e della “Ronald Reagan”, avevano schierato anche bombardieri B-1B, basati sull’isola di Guam, per esercitazioni di sgancio di ordigni atomici, a meno di 80 km dalle coste della penisola coreana, in prossimità della linea di demarcazione militare tra Nord e Sud. “Tali azioni provocatorie degli Stati Uniti” aveva detto Pyongyang, costituiscono “pericolosi eccessi, che portano la già grave situazione nella penisola coreana sull’orlo dell’esplosione”. Le azioni militari “provocatorie nucleari degli Stati Uniti ci rafforzano ancora più saldamente nella volontà di colpire ed eliminare i soggetti afflitti dall’isteria bellica di aggressione contro il Nord”. Per due mesi interi, cominciando dallo scorso 1 marzo, notava alcuni giorni fa la KCNA, Washington e Seoul hanno condotto le manovre militari “Key Resolve” e “Foal Eagle 17” sull’intero territorio della Corea del Sud.
In tale contesto, di fronte alla claque mediatica sulle “provocazioni del dittatore di Pyongyang” e in presenza della vulgata di un’America “costretta a difendersi” da “attacchi nucleari nordcoreani”, pare legittimo, riguardo anche al nuovo test missilistico condotto dalla Corea del Nord lo scorso 30 maggio, con il lancio di un razzo balistico a medio raggio da un lanciatore semovente, parafrasare le osservazioni di Lenin, secondo cui, nell’analisi dei rapporti tra piccole nazioni indipendenti e potenze imperialiste aggressive, essenziale non è “chi attacca per primo”, bensì “quali siano le cause del conflitto, gli obiettivi che questo si pone, le classi che lo conducono”; oppure ricordare che non è “possibile guardare alla guerra come semplicemente a un attacco, che viola la pace; come se fosse possibile separare la guerra dalla politica dei relativi governi”. Come se fosse possibile scordarsi quale sia la potenza che, da settant’anni, accumula uomini, aerei, missili tutt’intorno alla piccola “dittatura comunista”.
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