Il ministro degli Esteri turco Cavusoğlu è volato in Kuwait per tessere una tela relazionale fra i Paesi del Golfo dopo la tensione che da due settimane ne contrappone alcuni al Qatar. A Kuwait City ha incontrato l’omologo locale Sabah Khaled al-Sabah con l’intento di creare una mediazione fra le case regnanti attualmente ai ferri corti. Ai funzionari qatarioti presenti all’incontro Cavusoğlu ha chiesto di cercare prove sulle accuse rivolte al governo di Doha, altrimenti tutto resta supposizione che avvelena la politica reale. Al tempo stesso dichiarava che l’imparzialità di Ankara mira a sostenere una profonda fiducia su un percorso di collaborazione fra le parti. Il fine di quest’apertura a 360 gradi rappresenta un assist per la dinastia al-Thani, di cui il ministro turco ha comunque ricordato la vicinanza al Consiglio della Confederazione del Golfo nella crisi yemenita e alla stessa Arabia Saudita quando ha subìto l’assalto alla propria ambasciata a Teheran a opera di manifestanti e basij che accusavano i sauditi della repressione contro l’etnìa Houti in Yemen. Insomma Cavusoğlu ha calcato la mano sull’appartenenza qatariota a certi accordi fra petromonarchie, sorvolando sia sul proprio asse con Doha, sia sulla politica autonoma che essa pratica rispetto della dinastia Saud, amante della subordinazione dei fratelli arabi alle sue decisioni.
Nel passo diplomatico non si è trattato un elemento centrale e spinoso: lo sbilanciamento di al-Thani verso il ruolo egemonico giocato dall’Iran sulle componenti sciite presenti in talune aree (Iraq, Libano, Yemen) e le sue alleanze geostrategiche con altri governi (Asad in Siria). Il Qatar, oltre a rompere la linea unitaria dei Paesi del Golfo favorevole a un’egemonia saudita, è accusato di avvantaggiare due stati non arabi nella regione (Iran e Turchia) peraltro colossi economici, politici e militari con velleità di supremazia. Il politico locale che risulta brillare dall’accelerazione della crisi voluta da re Salman è il figlio Mohammed bin Salman, figura rampante della dinastia saudita, che ha già molto potere come ministro della Difesa. E’ però considerato un ondivago, viene tacciato di temperamento umorale, oltre che di scarsa esperienza per il delicato compito ricoperto. Attualmente l’erede al trono è il cugino Mohammad bin Nayef, ma gli osservatori regionali sostengono che dietro le scelte drastiche e di rottura ci sia il giovane rampollo. Secondo più voci sarà lui ad animare il futuro della dinastia Saud, proseguendo la linea delle pretese emoniche, del tradizionalismo reazionario amministrativo e religioso, della doppiezza geopolitica.
In effetti tutto ciò rappresenta una continuazione della linea del capostipite Adb al-Aziz, che prese le redini negli anni Venti per poi trasferirla a successivi parenti, una politica incentrata sul chiuso clan familiare votato alla collaborazione col credo wahhabita più fondamentalista. Anche grazie a questo nell’ultimo trentennio Riyad ha svolto quel ruolo di sostegno e finanziamento sistematico del terrorismo jihadista, prima col marchio Qaeda ora Isis, di cui accusa gli al-Thani. Fra gli alleati più stretti dei Saud ci sono i sovrani degli Emirati Arabi Uniti, che ultimamente hanno come leader il principe di Abu Dhabi Mohammad bin Zayed, considerato un moderato. Nonostante quest’emiro mostri una gestione della politica mediorientale diversa dall’irruento bin Salman, anch’egli, sempre consultato dai sauditi, considera come loro e con loro ogni spirito innovativo nella vita socio-politica interna e regionale come un atto rivoluzionario. Qualsiasi richiesta, non solo protesta, rappresenta una minaccia allo status quo e una sfida al potere personale e clanista delle famiglie reali. E’ il motivo per cui quest’ultime giudicano fuori luogo, folle e spregiudicata l’azione di al-Thani, accusato di giochi di potere e intrighi per superare e scalzare i Saud dalla funzione guida dei ricchissimi arabi del petrolio, sul doppio fronte politico e affaristico. Lenire tali concetti e preconcetti non sarà facile né per Cavusoğlu né per Erdoğan, la cui smania di protagonismo è considerata pericolosa dai regnanti petrolieri che ne apprezzano solo le maniere forti, ma in politica estera le temono.
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