Vladimir Putin è stato confermato al quarto mandato presidenziale con il 76,65% dei consensi: largamente superata la soglia attesa del 70%, mentre è mancata (anche questa di poco, però) quella dell’affluenza: secondo i dati delle prime ore di stamani si sarebbe attestata al 67,4%. L’unico concorrente a superare il 10% (11,82%) è stato il candidato per il PCFR Pavel Grudinin. Anche Vladimir Žirinovskij si è fermato al 5,68%. Gli altri hanno ottenuto il premio di consolazione: i beniamini dell’Occidente, Ksenija Sobčak e Grigorij Javlinskij, si fermano rispettivamente al 1,66 e 1,04%; l’imprenditore Boris Titov, il “comunista del Cremlino” Msksim Surajkin e il redivivo patriota Sergej Baburin si accontentano del 0,75, 0,68 e 0,65%. Tutto questo, a dispetto della insolenza dei golpisti ucraini, che hanno impedito ai cittadini russi residenti nel paese, di accedere ai consolati di varie città (Odessa, L’vov, Kiev) dove erano allestiti i seggi elettorali.
Non c’era bisogno di possedere particolari facoltà di veggenza o di esclusivo acume intellettivo, per risolvere un’equazione di primo grado, per di più senza incognita, quale quella sull’andamento delle presidenziali in Russia – per le quali il Cremlino tendeva alla riconferma di Vladimir Vladimirovič con oltre il 70% dei voti e un’affluenza anch’essa superiore al 70% – in una situazione di accerchiamento militare e di attacco politico, ma soprattutto mediatico, occidentale. https://contropiano.org/news/politica-news/2018/03/16/il-caso-skripal-e-le-presidenziali-russe-0101911
Supporre che Foreign Office, Scotland Yard e Dipartimento di Stato non sappiano che qualsiasi tentativo di attacco, pur se ufficialmente condotto contro il Cremlino, è sempre interpretato come un’aggressione all’intero paese, significherebbe supporre una goffaggine che gli analisti occidentali possono sì pubblicamente manifestare, ma che in effetti son ben lungi dall’avere.
Già pochi anni fa, allorché aveva cominciato a farsi più acuto l’attacco yankee contro Putin, specificamente anche sul piano personale, qualche osservatore “liberal” russo aveva scritto che l’unico mezzo, per Washington, di liberarsi di un avversario così ostico, non sarebbero state le ritorsioni economiche generali, ma solo una pallottola sparata a tradimento, per di più da qualcuno degli oligarchi della più stretta cerchia presidenziale. Era così che si era avviata la spirale delle sanzioni mirate, indirizzate specialmente contro singole figure della grossa industria privata o semipubblica russa, con l’obiettivo di spingere uno o più “biznesmeny”, sentitisi particolarmente colpiti dalle misure occidentali avviate “per colpa” del Presidente, a volere la fine di VVP.
Da allora, le scelte del Cremlino si sono sempre più indirizzate, ancora più del passato, a rafforzare il potere finanziario dell’oligarchia economica; tanto per dirne una, è proprio di stamani la notizia, diffusa dalla Tass, secondo cui l’utile netto di Rosneft a fine 2017, in base agli standard finanziari mondiali, è cresciuto del 27,6%, raggiungendo i 222 miliardi di rubli e i proventi complessivi sono aumentati del 20,6%: 6 trilioni di rubli. Di converso, le scelte governative hanno continuato ad andare particolarmente a scapito della politica sociale verso la stragrande maggioranza della popolazione, non solo dei lavoratori dell’industria, ma anche dei settori della sfera dei servizi, dell’istruzione, della sanità.
Ed è stato su questi settori che si è concentrata la campagna elettorale, da un lato dei “comunisti patriottici”, che facevano appello soprattutto alla popolazione lavoratrice e alle generazioni più anziane e, dall’altro, dei cosiddetti “liberali” – Sobčak, Javlinskij, Titov – rivolti ai ceti medi e piccolo-borghesi delle città. Quasi tutti i piccoli partiti comunisti a sinistra del PCFR avevano invitato al boicottaggio attivo e all’annullamento delle schede elettorali.
Il Cremlino sembrava in effetti temere proprio una caduta di consensi su questi fronti, particolarmente colpiti dalla crisi economica e dalle sanzioni, ma, in particolar modo, temeva una scarsa affluenza, che avrebbe comunque inficiato l’annunciato “plebiscito”. C’era dunque bisogno di serrare le file e un attacco così sfacciato come quello portato proprio nelle ultimissime settimane da Londra, Washington, NATO e le capitali del “mondo libero”, non poteva cadere più a fagiolo.
Soprattutto Londra, che da secoli vede ogni attacco portato alla Russia risolversi in una coesione di popolo attorno alle figure più rappresentative del paese, non poteva non saperlo. E così è stato.
Se qualcuno avesse avuto dei dubbi, lo ha ribadito stamani in due parole il presidente della Commissione mass-media del Senato russo, Aleksej Puškov, a schede praticamente scrutinate al 99,9%: “La demonizzazione di Putin in Occidente ha prodotto l’effetto contrario in Russia: una compattezza senza precedenti attorno alla sua figura”. Ancora una volta, adattando le parole dette dal boia a Don Carlo “Ti taglio la testa, ma è per il tuo bene”.
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