La vittoria a fine giugno alle primarie del Partito Democratico nel 14° Distretto di New York da parte della 28enne Alexandra Ocasio-Cortez, e la sua conseguente candidatura per le elezioni mid-term di Novembre al Congresso, ha fatto fare un salto di qualità alla campagna nazionale Abolish ICE dal punto di vista della sua visibilità.
La Cortez ha fatto dell’abolizione dell’agenzia governativa uno dei punti cardine del suo programma, e qualche giorno prima della sua elezione invece che essere a New York si trovava ai confini con il Mexico a sostenere una azione all’interno della campagna contro la separazione dei figli dai propri genitori “residenti” illegalmente negli Stati Uniti.
In una doppia intervista che Amy Goodman ha realizzato il 16 luglio per il canale di informazione “Democracy Now!” contemporaneamente alla Cortez e alla sindaco di Barcellona Ada Colau, la candidata di origini portoricane al Congresso ha dichiarato:
“Bene, sono andata al confine perché la nostra nazione è in una crisi morale, e non c’è un momento particolare per far fronte alle violazioni dei diritti umani. E ogni giorno che permettiamo a questi 2.000 bambini, che sono stati strappati ai loro genitori, che è una violazione dei diritti umani internazionalmente riconosciuta – questo viene fatto nel nostro nome, questo viene fatto in rappresentanza di noi come cittadini degli Stati Uniti – ogni giorno che permettiamo la continua violazione dei diritti di quei bambini è il giorno in cui credo che sia in gioco il carattere morale degli Stati Uniti. Quindi, per me, non era una questione se dovessi andare laggiù. Dobbiamo avere una risposta rapida. E penso ogni giorno che andiamo avanti, specialmente un giorno in cui succede qualcosa di odioso, dobbiamo occuparlo tutto. Dobbiamo occupare tutti gli aeroporti, dobbiamo occupare ogni confine, dobbiamo occupare tutti gli uffici dell’ICE, finché quei bambini non torneranno con i loro genitori. Punto.”
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Questa mobilitazione era già entrata prepotentemente nell’agenda politica statunitense grazie all’attivismo dei suoi promotori e alla positiva opera di lobbying che si sta estendendo, oltre i vari candidati, a differenti cariche provenienti dall’ala dichiaratamente “socialista” del partito, mettendo in discussione la politica conciliante e subordinata intrapresa dagli stessi Democratici nel corso degli anni riguardo alle istanze dei repubblicani, senza che venisse elaborata una proposta alternativa.
L’ala del “partito” democratica presa di mira – che ha pesanti responsabilità in materia – è quella che Noam Chomsky definisce dei “repubblicani moderati”, una delle due polarità del Partito Democratico che si contrappongono in una “scissione” che oppone sempre la sua base e l’establishment, come ha dichiarato in una recente intervista a “Democracy Now!”
Non è un caso che nella lista degli endorsement di Obama, non compaia affatto la candidata per il partito democratico del Bronx.
Così nel giro di alcuni mesi, precedenti alla vittoria della Cortez, ciò che era appannaggio solo delle reti di attivisti e limitata alla loro cerchia è diventata una campagna mainstream, costringendo gli stessi corporate media a trattarne e farla diventare un argomento di discussione che mette in serie difficoltà i managers del Partito, come i loro supposti competitor repubblicani.
Una sfida che marca una netta linea di demarcazione.
In un articolo dal titolo significativo: “it’s time to abolish ICE”, pubblicato l’8 marzo sulla storica rivista progressista americana “The “Nation”, l’attivista e ricercatore Sean MecElwee – tra i promotori della campagna – già faceva una panoramica di come questa stesse prendendo piede e chiude il suo pezzo con parole molto nette:
“La richiesta di abolire l’ICE è, soprattutto, una richiesta al Partito Democratico di iniziare seriamente a resistere a uno stato di sorveglianza suprematista senza freni che ha aiutato a creare. Sebbene il partito si sia spostato a sinistra su questioni fondamentali, dai diritti riproduttivi all’assistenza sanitaria, è il momento che i progressisti avanzino la richiesta che la deportazione non venga considerata come “la norma”, ma piuttosto come un preoccupante indicatore di autoritarismo. La supremazia bianca non può più essere al centro del dibattito sull’immigrazione. I democratici hanno votato per finanziare interamente l’ICE, dando veramente poco risalto alla questione, perché nella discussione sull’immigrazione americana, la posizione di destra è il centro e la sinistra non ha voce. È stato veramente impegnativo chiamare le cose con il loro nome, e utilizzare l’espressione “deportazione di massa” e la minaccia della deportazione viene spesso presa alla leggera tanto che molti hanno perso la capacità di concettualizzare cosa significhi. Insieme alla morte, essere strappati da casa, famiglia e comunità è il peggior destino che può essere inflitto a un essere umano, come hanno riconosciuto molte società costrette all’esilio. È tempo di contenere la più grande minaccia che dobbiamo affrontare: una forza d’assalto irresponsabile che esegue una campagna di pulizia etnica”
ICE, acronimo di Immigration and Customs Enforcement, è una agenzia governativa alle dipendenze del dipartimento della Homeland Security, creata nel 2003 all’interno della riorganizzazione complessiva delle agenzie “di sicurezza” successiva all’11 settembre 2001, ed è diventata con Donald Trump un vero vettore della caccia indiscriminata ai “migranti” (con relativa detenzione e deportazione), mentre nell’ultima parte dell’era Obama i soggetti che erano presi di mira erano generalmente “residenti illegali” che avevo commesso un qualsiasi reato.
Inoltre, mentre con Obama l’attività dell’ICE era limitata sostanzialmente ai territori di confine, con Trump si è estesa a tutto il territorio nazionale, con incursioni continue nei quartieri popolari e nei loro luoghi di aggregazione.
Qualcuno ricorda le prime sequenze del film Sacco e Vanzetti, in cui vengono rappresentati i raids nelle comunità di immigrati italiani negli States?
Come sintetizza molto bene Dara Lind, in un articolo del 28 giugno per “The Vox”, “Abolish ICE. Explained”:
“Così negli anni 2000, gli Stati Uniti hanno iniziato a deportare più immigrati di quanto non avessero mai fatto prima. E per la prima volta, un gran numero di quelli deportati erano immigrati non autorizzati, senza precedenti penali, che erano stati espulsi solo perché non autorizzati. Per la prima volta, in altre parole, essere semplicemente immigrati senza documenti negli Stati Uniti comportava un rischio reale di espulsione. […] In pratica, ciò significa spesso inviare per anni persone che hanno vissuto negli Stati Uniti in paesi che non hanno visto da lungo tempo. A volte significa separare le famiglie o costringere i bambini nati negli Stati Uniti a trasferirsi in un paese sconosciuto per tenere unita la famiglia. A volte, significa mettere le persone in pericolo letale.”
Come riporta il “New York Times”, in un articolo del 3 Luglio: “L’ICE è composto da tre uffici principali, uno dei quali ha oscurato gli altri. Enforcement and Removal Operations (Operazioni di controllo e rimozione, ndt,) la divisione più nota dell’ICE, arresta, detiene e espelle immigrati non autorizzati già negli Stati Uniti. L’ufficio contava circa 7.900 dipendenti a tempo pieno e un budget di 3,8 miliardi di dollari nell’anno fiscale 2017”.
L’ICE alimenta il business delle prigioni private e gli attori principali del complesso carcerario-industriale, come la GEO Group e la CoreCivic che hanno generosamente sostenuto la campagna presidenziale di Orange Man.
L’ICE paga più di 2 miliardi di dollari a soggetti privati per la detenzione dei “migranti”, che spesso lavorano “volontariamente” dentro le prigioni per 1 dollaro al giorno!
Varie associazioni hanno denunciato casi di mancata assistenza medica e morti durante la detenzione.
La quota di posti che devono essere a disposizione è stata fissata la prima volta nel 2009, e proprio quest’anno è stata proposto dall’ICE stessa un aumento del budget per i posti “disponibili” dai poco meno dei 40 mila attualia più di 51.000, in una sorta di “circolo vizioso” in cui il prison-industrial complex costruisce o amplia le carceri influenzando la politica dell’amministrazione, “costretta” ad aumentare il raggio d’azione e l’intensità dell’agenzia.
Domenic Powell su “Jacobine Magazine”, in “How to Abolish Ice”, descrive tra l’altro una ipotetica articolazione delle possibilità concrete – anche da parte delle autorità dei singoli Stati e delle amministrazioni cittadine delle cosiddette “sanctuary cities” – per svuotare l’efficacia dell’amministrazione Trump rispetto all’immigrazione, promuovendo politiche di “non collaborazione” con le varie autorità federali.
Powell, già stratega dell’American Civil Liberties Union, configura il quadro di una differente politica in termini di gestione dell’immigrazione che non tratti questa componente della popolazione solo in termini di controllo poliziesco e di arbitrio delle forze adibite a tale compito.
Conclude giustamente affermando: “Gli attivisti non devono avere tutte le risposte prima di articolare una visione di come vogliamo che il mondo sia. È anche vero, tuttavia, che non dobbiamo ricominciare da capo. In effetti, alcune delle strategie di cui abbiamo bisogno per raggiungere i nostri obiettivi stanno già funzionando. Conosciamo gli abusi che l’ICE ha effettuato; sappiamo anche come smantellarlo. Quindi, facciamolo”.
Il giornalismo investigativo statunitense, insieme alle reti di scopo che si stanno occupando della vicenda, stanno dando un contributo fondamentale a monitorare la politica dell’attuale amministrazione e le sue ricadute sulla vita materiale delle persone.
Uno degli esempi più significativi di questa costante inchiesta, e una preziosa fonte di informazione a riguardo, è la sezione che “The Intercept” ha specificatamente dedicato alla questione, in cui è possibile reperire le puntuali denunce della brutalità dei corpi polizieschi, la vita delle singole persone e famiglie colpite dalle politiche repressive di questo tipo, la filiera di interessi economici e la rendita politica attorno all’ICE, nonché la lunga storia discriminatoria nelle politiche statunitensi: “Mentre l’amministrazione Trump ha accelerato la sua crudele repressione contro gli immigrati, The Intercept ha segnalato in prima linea e dai territori di frontiera – esponendo quelle che sono le bugie e la disumanità delle agenzie di controllo dell’immigrazione negli Stati Uniti.”
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Ciò che sta avvenendo negli Stati Uniti rappresenta un esempio di come uno strumento di creazione di consenso, attorno ad un progetto politico all’interno della narrazione politica della “destra populista” rappresentata da Donald Trump, possa trasformarsi nel suo contrario, con un inaspettato “effetto boomerang”, e allo stesso tempo dimostra come su parole d’ordine chiare ed una pratica conseguente si possa dar vita a campagne che escono fuori i perimetri consolidati dell’attivismo e, investendo la società, sottrarre il terreno ad una politica tesa ad una linea compromissoria e rinunciataria con il proprio avversari; una politica che ha abdicato dal dare indicazioni precise su temi ritenuti delicati e complessi.
Ad un osservatore minimamente attento alle dinamiche politiche statunitensi, dalla nascita del movimento Occupy ai giorni nostri, appare sempre meno sorprendente come in una crisi decennale il punto di implosione delle narrazioni politiche liberal “di sinistra” – che sembrano ancora in un qualche modo ancora attecchire sul ceto politico residuale, ed i relativi apparati culturali, della sinistra nostrana – sia oggi raggiunto grazie all’affermarsi di una chiara prospettiva politica che si collega ad una lunga storia popolare di tentativi d’emancipazione, che si chiama Socialismo anche negli USA e che tuttora sfida l’establishment repubblicano e democratico.
Come cantava Dylan: non c’è bisogno di un metereologo per sapere da che parte soffia il vento…
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