La crisi della politica tedesca è una crisi di egemonia, sia politica che economica. Abituati a pensare Berlino come una roccaforte antipatica ma solida, questa realtà viene sbrigativamente messa nel dimenticatoio quando si ragiona di possibili scenari dei prossimi mesi.
In realtà, a parte singole informazioni su eventi particolari, manca quasi del tutto una visione d’insieme della situazione che sta facendo precipitare questa crisi e, con essa, la tenuta della linea fin qui tenuta dall’Unione Europea negli ultimi 30 anni. Attenzione: stiamo parlando dell’austerità ordoliberista, non della “tenuta” della Ue come sistema di trattati vincolanti.
Quella linea aveva il suo baricentro nel modello neomercantilista tedesco, orientato alle esportazioni e duqnue fondato sulla compressione dei salari interni, lo smantellamento del welfare e dell’intervento pubblico nell’economia (la famosa “economia mista” che, in Italia come altrove aveva reso possibile il boom economico in Europa fino alla fine degli anni ‘60).
Accecati dai successi dell’economia tedesca in termini di profitti aziendali non ci si è accorti dell’impoverimento crescente dei salariati tedeschi. Se ben 32 milioni di lavoratori, lo scorso anno, hanno dovuto far ricorso all’assistenza sociale, ciò vuol dire che il salario medio di Berlino – comunque superiore, e di molto, a quello italiano! – è sceso sotto il livello della sopravvivenza. Sembrerebbe un paradosso, per il paese più ricco d’Europa; ma è solo la normalità del neoliberismo contemporaneo.
Questo fenomeno è più accentuato dei land dell’ex Germania Est e proprio lì il nazionalismo xenofobo, a tratti apertamente neonazista, cresce senza trovare ostacoli. Il malessere sociale ha giustamente individuato nella grosse koalition tra democristiani e socialdemocratici i responsabili politici dell’impoverimento generale (le “leggi Hartz” sono state varate dal governo Spd di Gerhard Schroeder, all’inizio del millennio), ma l’assenza di una sinistra conflittuale, radicata nel blocco sociale sottoposto alla lenta tortura del working poor, ha lasciato campo libero al revanscismo di destra. Come in Italia, seppure con un po’ di ritardo…
Ma la Germania è anche il pilastro centrale dell’Unione Europea, ossia del tentativo di costruire un polo imperialista competitivo a livello globale. La sua crisi, dunque, non riguarda solo le vicende interne a quel paese, ma investono la costruzione continentale e gli equilibri geopolitici. Tutti argomenti su cui la sempre meno intelligente intellighenzia italiana ha smesso, da tempo, di interrogarsi ed indagare.
Qui di seguito l’utilissima analisi di Guido Salerno Aletta, editorialista di Milano Finanza (no strabuzzate gli occhi… ci sono analisti che sanno fare il loro mestiere senza chiudere gli occhi davanti alla realtà dei fatti).
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Nell’approssimarsi del trentesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino, la Germania è attonita di fronte all’improvviso voltafaccia del destino.
Per la prima volta, si trova accerchiata sul piano geopolitico: dalla presidenza di Donald Trump alle ambizioni internazionali di Emmanuel Macron, dalla prospettiva di una Brexit senza accordo alcuno alla risorgente Polonia. Teme per la tenuta del modello mercantilista, che riteneva invulnerabile, e chiude gli occhi di fronte all’affanno delle sue due più grandi banche. Non è solo il futuro della Unione europea e dell’euro ad essere minacciato dai sovranismi: covano anche al suo interno, mentre si riacutizzano le mai sopite pulsioni xenofobe.
Troppi fronti aperti, tutti fuori controllo, la costringono ad un ripiegamento improvvisato, ad erigere una cortina fatta di incertezze, rabbia, e silenzio. La gravità delle prospettive viene taciuta agli stessi cittadini tedeschi, che si mostrano stanchi della narrazione di questi anni, fondata sulla competitiva vincente e sulla retorica dei Paesi del Meridione europeo da mettere in riga. Del lungo Cancellierato di Angela Merkel, e della politica di sacrifici salariali e sociali che risale al suo predecessore socialdemocratico Gerhard Schröder, rimane un immenso accumulo di ricchezza di cui però i cittadini hanno visto ben poco.
Neppure l’émpito della moralità assoluta l’ha premiata. La politica dell’accoglienza incondizionata ai profughi provenienti dalle aree di guerra in Medioriente, decisa inaspettatamente dalla Cancelliera Angela Merkel senza consultare nessuno nel 2015, e subito dopo da lei stessa rinnegata, ha creato contraccolpi colpevolmente sottovalutati, vista la eccezionale dimensione del fenomeno e la sua concentrazione temporale. Se, come ha ricordato di recente l’ex-ministro degli esteri Sigmar Gabriel, era impossibile fermare con la forza ai confini tedeschi questa marea umana che aveva attraversato con mezzi di fortuna tutti i Balcani, ancor di più questo evento dimostra la sorpresa con cui la Germania ha subìto i cambiamenti repentini del contesto geopolitico mondiale.
Gli equilibri politici interni si sono fatti sempre più precari. Gli incidenti del 27 agosto scorso nelle strade di Chemnitz, in Sassonia, dove si è scatenato un pogrom per vendicare l’uccisione di un giovane tedesco da parte di un iracheno e di un siriano, hanno portato ad un corto circuito istituzionale.
A Berlino, Il clima è convulso: il capo dei servizi segreti Hans-Georg Maassen, rimosso dal suo incarico per aver negato che ci fosse stata “una caccia allo straniero” arrivando a mettere in dubbio l’integrità dei video che erano stati diffusi, era stato contestualmente promosso all’incarico di “Segretario di Stato per la Sicurezza” presso il Ministero degli Interni diretto da Horst Seehofer, sacrificando il ruolo assegnato ai socialdemocratici. Questi si sono giustamente adirati, minacciando la crisi di governo.
La coalizione di governo è sfilacciata anche nell’ambito della stessa componente maggioritaria, rappresentata dalla storica aggregazione tra Cdu e Csu. Il ministro dell’Interno Horst Seehofer, leader bavarese della Csu, ha più volte minacciato di dimettersi sulla questione dell’espulsione dei migranti provenienti da altri Paesi di primo ingresso nell’Unione.
La crescita della formazione di destra AfD, che raccoglie le istanze sovraniste e le tendenze xenofobe e che è entrata per la prima volta nel Bundestag dopo le elezioni dello scorso settembre, ha messo sotto pressione l’intero sistema politico tedesco: secondo gli ultimi sondaggi circa le intenzioni di voto, nei Länder dell’ex Germania Est diventerebbe il primo partito con il 27% dei consensi, superando di 4 punti la Cdu-Csu che scenderebbe al 23%. Staccati di molto, la sinistra social-comunista (Die Linke) al 18% ed i socialdemocratici al 15%.
La ragione dello scontento nelle aree orientali è fornita dalla ultima Relazione annuale sullo stato della Unificazione: nel 2017, il tasso di disoccupazione è stato del 7,6% rispetto al 5,3% del resto della Germania. E sono gli uomini a passarsela peggio, con una disoccupazione all’8,1% rispetto al 5,5% del resto della Germania. Le rilevazioni sugli standard di vita effettuate nel 2016 indicavano come i Länder dell’ex Germania Est riportassero il punteggio migliore nei settori della istruzione, delle condizioni abitative e dell’ambiente, ma le peggiori in assoluto per quanto riguarda il lavoro e la salute.
C’è un altro dato che fa masticare ancor più amaro, e che riguarda l’intera Germania: nel 2017, ben 32 milioni e 165 mila lavoratori (in crescita rispetto ai 31 milioni e 441mila dell’anno precedente) hanno ricevuto un contributo a carico della assistenza sociale. Di costoro, ben 6 milioni risultavano residenti nelle regioni orientali, suddivisi tra 4,2 milioni di lavoratori a tempo pieno ed 1,8 milioni a tempo parziale. Il salario non basta, e la immigrazione crea ulteriore concorrenza al ribasso. E’ questa la realtà con cui la politica tedesca deve fare i conti.
Prima ancora delle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo, che si terranno nel prossimo maggio, ci sono le scadenze interne. La prima è il 14 ottobre, per il rinnovo del Landtag bavarese: in questo caso, le previsioni convergono nell’accreditare la Csu al 35%, rispetto al 47,7 % del 2013. La prevedibile perdita della maggioranza assoluta dei seggi da parte della Csu, che le ha consentito di governare da sola la Baviera sin dal 1962, non aprirebbe tanto la strada ad una imitazione della Grande coalizione che regge il governo federale, quanto ad uno smottamento dell’intero quadro politico tedesco. Un accordo in Baviera tra Csu e AfD, per evitare nuove perdite di consensi a destra alle europee, aprirebbe un vaso di Pandora.
La leadership della Cancelliera Merkel è logora, ed i contrasti non si limitano a quelli con la Csu di Seehofer. anche il suo gruppo parlamentare al Bundestag ha dato un segno di malessere profondo, non rieleggendo come Presidente, incarico che ricopriva ininterrottamente da 13 anni, Volker Kauder, fedele e stretto collaboratore.
Il contesto internazionale è radicalmente cambiato. Ancora nell’inverno del 2016, l’Unione europea non discuteva altro che di nuovi Accordi di liberalizzazione del commercio e dei servizi, ivi compresi quelli bancari ed assicurativi, attraverso il Tisa a livello globale ed il Ttip con gli Usa. Oggi siamo al riequilibrio dei rapporti commerciali su base bilaterale, sostenuto da Donald Trump, ed alle proposte di limitare il più possibile l’accesso della Gran Bretagna al mercato finanziario europeo dopo la Brexit. Trump, per pareggiare i conti, vuole vendere il GNL americano all’Europa, sostituendo queste forniture a quelle che deriverebbero dalla costruzione fra Russia e Germania del North Stream 2. La richiesta americana è divenuta ancora più urgente dopo che la Cina, per ritorsione, ha alzato i dazi nei confronti del gas americano. Come è accaduto per la soia, l’Europa fa da mercato di recupero rispetto al conflitto sino-americano.
Il mercantilismo arricchisce, ma tutto dipende dalla pervietà dei mercati. Nel 2017, l’export tedesco di merci fob (“franco a bordo”, ndr) negli Usa è arrivato a 127 miliardi di dollari, mentre quello verso la Gran Bretagna a 95 miliardi: l’attivo nei confronti di questi due Paesi, rispettivamente pari a 75 e 49 miliardi, ha rappresentato il 43% del totale. Sono dunque mercati di sbocco assolutamente determinanti.
Oltre alla evidente ruvidità delle relazioni tra Trump e Merkel, c’è da considerare che le trattative sulla Brexit sembrano essere state gestite a livello europeo con l’obiettivo di danneggiare quanto più possibile l’economia britannica. Le difficoltà cui Londra andrebbe incontro nel caso di una uscita dal Mercato interno sono continuamente enfatizzate e la stessa stampa tedesca, anche di recente, ha illustrato i disagi che ci sarebbero, nel caso di un no-deal, nei porti di imbarco delle merci in partenza dall’Olanda e le file interminabili di autotreni alla dogana britannica. Mai, però, un accenno alle ricadute sulla Germania: la congiura del silenzio si deve al timore che la sterlina si svaluti di un buon 20%, rendendo automaticamente invendibili nel Regno Unito la gran parte delle merci tedesche ed aumentando automaticamente la competitività di quelle britanniche.
Si tace anche della insostenibile contraddizione tra l’impegno ad abbattere completamente le tariffe sul commercio di auto tra Unione europea ed Usa e la tentazione di alzarle nei confronti di quelle fabbricate in Gran Bretagna. Come se non bastassero i guai per il dieselgate negli Usa, è il posizionamento premium delle auto tedesche che comincia a vacillare: sono auto ormai troppo care.
C’è poi la Francia con cui fare i conti: cerca di farsi sotto, con la scusa di costituire un Esercito europeo, per bilanciare sul piano militare e dell’impegno all’estero la supremazia economica tedesca. Per Berlino è un onere crescente, sin da quando nel 1992 la Bundesbank sostenne solo il franco francese dall’agguato portato dalla speculazione valutaria allo Sme: la mancata svalutazione rispetto al marco, a differenza della lira italiana e della sterlina, costò non poco all’economia francese in termini di competitività. Il disavanzo strutturale nelle relazioni commerciali franco-tedesche, cifrato in 40 miliardi di euro annui, comporta un aumento continuo del finanziamento di portafoglio da parte tedesca: a dicembre scorso, gli impegni a favore di Parigi erano arrivati a 427 miliardi di dollari. E’ una cifra davvero assai ingente, soprattutto se paragonata ai 418 miliardi in titoli emessi negli Usa, ed ai 218 miliardi in titoli emessi in Gran Bretagna.
L’attivismo del Presidente Emmanuel Macron, che ora si intesterebbe la linea europeista di fronte ai partiti sovranisti, rischia di spaccare anche il Partito popolare europeo che invece cerca una mediazione. E’ questo un altro fronte scoperto per Berlino, che subisce l’iniziativa altrui.
Anche da Est si muovono minacce inattese: la Polonia è ormai pronta, per dimensioni territoriali, dinamica economica e competitività, a sostituire la Germania nel suo ruolo di antemurale rispetto alla Russia. La sintonia con Trump, dimostrata dalla disponibilità di pagare 2 miliardi di dollari per ospitare una base militare americana, la dice lunga sulla eclisse tedesca.
Più della prevedibile razionalità tedesca è l’incertezza radicale che torna, ancora una volta, a dominare i processi storici.
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