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Processo agli indipendentisti: gli antichi vizi alla ribalta

Arrivato ormai al termine della fase dibattimentale, il processo agli indipendentisti catalani accusati di ribellione e sedizione si è rivelato una vera e propria passerella per una serie di funzionari che incarnano in maniera esemplare la persistenza di alcuni vizi politici ereditati direttamente dal franchismo, tuttora ben vivi all’interno degli apparati dello stato spagnolo, a testimonianza delle maglie larghe della transizione alla democrazia.

Chiamato a testimoniare davanti al Tribunale Supremo dalla pubblica accusa, il tenente colonnello della Guardia Civil Diego Pérez de los Cobos è il principale responsabile dell’operativo diretto a impedire il referendum d’autodeterminazione del 2017. Secondo il suo racconto, la Guardia Civil e la Policia Nacional avrebbero svolto un’azione “squisitamente proporzionale” davanti ai seggi del primo ottobre, senza peraltro ricorrere a ciò che tecnicamente s’intenderebbe per carica.

La testimonianza però merita di essere contestualizzata. L’alto ufficiale proviene da una famiglia ultraconservatrice, vicina al partito nostalgico Fuerza Nueva (nel quale hanno militato il padre e il fratello) e sale alle cronache in occasione del colpo di stato di Tejero, quando si presenta alla caserma della guardia Civil con la camicia da falangista per offrire i propri servigi ai militari. L’episodio non gli impedisce di fare carriera nella nuova Spagna democratica: arruolatosi nella Guardia Civil, sceglie volontariamente di esercitare la propria “missione” a Euskal Herria, dove si distingue nella repressione della sinistra abertzale.

Nel 1997 viene processato con l’accusa di aver torturato un militante basco, Kepa Urra. Anche se il caso si chiude con l’assoluzione di Pérez de los Cobos, viene invece dimostrata la tortura subita da Kepa Urra: secondo la sentenza del Tribunale di Bilbao, all’alba del 29 gennaio 1992 Urra fu “portato fino a un luogo sconosciuto, all’aperto, dove fu spogliato, picchiato con un oggetto non identificato e trascinato per terra“. Alcune ore più tardi fu ricoverato all’ospedale di Basurto con numerose contusioni, rottura di fibre muscolari, emorragie, inibizione psicomotoria e amnesia.

Lo stesso tribunale stabilì anche che la successiva visita di due Guardia Civil (uno dei quali proprio Pérez de los Cobos) al capezzale di Urra all’ospedale era stata “inappropriata”, pur non accreditando il racconto del militante, secondo il quale l’episodio era sfociato in una ulteriore aggressione. Per questi fatti, il tribunale di Bilbao ha condannato tre Guardia Civil a quattro anni di carcere, una delle sentenze più dure sulla tortura a Euskal Herria.

Mentre il Presidente del Supremo ha chiesto puntigliosamente ai testimoni della difesa se fossero mai stati processati, e in caso affermativo ha voluto sapere per quali motivi, non ha mostrato lo stesso interesse per i precedenti del colonnello, passati completamente sotto silenzio in aula.

Il discutible passato di Pérez de los Cobos potrebbe sembrare una beffarda circostanza, se  non che un altro importante teste d’accusa nel processo contro gli indipendentisti, il comandante della Guardia Civil César López Hernández, è stato anch’egli accusato di tortura, in relazione alla detenzione di Igor Portu e Martin Sarasola e poi assolto dal Tribunale Supremo.

La Guardia Civil arresta Portu e Sarasola, accusati dell’attentato di Barajas, il 6 gennaio 2008. Alcune ore dopo la detenzione, Portu viene ricoverato all’ospedale di Donostia con un polmone perforato, una costola rotta, un’emorragia e ematomi su tutto il corpo. Sarasola viene tenuto in isolamento per cinque giorni e denuncia anch’egli di aver subito vari maltrattamenti. Dopo la sentenza assolutoria, il caso è stato esaminato dal Tribunale Europeo dei Diritti Umani, che l’anno scorso ha condannato la Spagna per il trattamento inumano e degradante inflitto ai detenuti in questione.

Ma la giustizia spagnola sembra poco incline all’ammenda, dato che proprio due dei magistrati responsabili dell’assoluzione di César López Hernández oggi fanno parte della corte incaricata di giudicare i leader indipendentisti.

Capo della Guardia Civil a Catalunya il primo ottobre, Ángel Gonzalo è un altro dei testimoni dell’accusa nel processo davanti al Tribunale Supremo. L’11 maggio del 2013 Gonzalo ha decorato la Hermandad de Combatientes de la División Azul, l’unità spagnola che combatté a fianco dell’esercito nazista nel corso della seconda guerra mondiale. I membri della Hermandad hanno ricevuto la decorazione vestiti per l’occasione con la divisa da falangista, al fianco del delegato del governo spagnolo dell’epoca, María de Los Llanos de Luna, a testimonianza della storica e consolidata vicinanza tra il PP e gli ambienti nostalgici del franchismo.

Nonostante non sia stato chiamato a deporre al Supremo, tra i protagonisti del primo ottobre va ricordato anche l’ex capo dell’Unitat Central Operativa della Guardia Civil, Manuel Sanchez Corbí, uno dei tre ufficiali condannati per le torture a Kepa Urra. Già responsabile del coordinamento con le autorità francesi nella guerra sporca contro ETA, Corbí viene indultato nel 1999 dal governo Aznar (misura grazie alla quale evita l’ingresso in carcere) e inizia un’ascesa che lo porta a rivestire i gradi di colonnello, fino a ricoprire paradossalmente la carica di rappresentante dello stato spagnolo al Comitato europeo per la prevenzione della tortura.

Il ruolo svolto da Corbí il primo ottobre è certamente più modesto: si sarebbe incaricato dell’attacco informatico contro il cosiddetto “censo universale” del referendum (il sistema approntato dalla Generalitat in previsione della chiusura da parte della polizia dei seggi elettorali grazie al quale i cittadini potevano votare in uno qualsiasi dei tavoli della consulta). Corbí, destituito nell’agosto scorso dopo aver perso la fiducia del Ministro dell’Interno dell’epoca, rappresenta tuttavia un altro esempio della pasta di cui sono fatte le èlite dei corpi repressivi dello stato spagnolo.

Nel corso del processo ha assunto un grande protagonismo il giudice che presiede il Supremo, Manuel Marchena, figlio di un membro della Legione di stanza in Marocco, dove il futuro magistrato nasce e passa l’infanzia. Terminati gli studi nella madrepatria, Marchena comincia la propria carriera a Euskal Herria, dove mette fuori legge Azione Nazionalista Basca e il Partito Comunista delle Terre Basche, condanna per disobbedienza il Presidente del Parlamento basco Juan María Atutxa e gli ex membri della segreteria Kontxi Bilbao e Gorka Knorr; a Catalunya si rifiuta di indagare l’operato dell’ex ministro dell’interno Jorge Fernández Díez, archiviando la denuncie di prevaricazione e malversazione che erano state mosse contro il notabile del PP.

Alla vigilia del processo agli indipendentisti, il giudice Marchena è inoltre indicato da Ignasi Cosidó, portavoce del PP al Senato nella scorsa legislatura, come la pedina centrale di un patto con il PSOE che consente ai popolari di “controllare dal retro” la sala numero due del Supremo, cioè quella che giudica i leader catalani. Un’affermazione che suscita non pochi dubbi sulla reale indipendenza delle toghe dell’alto tribunale. E nella causa contro gli indipendentisti lascia quantomeno perplessi anche il ruolo, assimilabile a quello della parte civile, svolto da Vox, il partito di estrema destra paladino dell’unità dello stato (che paragona il femminismo al terrorismo, addita l’islam come il nemico e si propone la difesa di una UE chiusa all’immigrazione).

Ma è la sospensione dell’esumazione di Franco, disposta dal Tribunale Supremo il 6 giugno, a rivelare ancora più chiaramente la cultura politica dell’alto tribunale: nella relativa sentenza il Supremo parla di Franco semplicemente come del capo dello stato spagnolo, dal 1936 quando ancora vige la legalità repubblicana e il generalissimo guida la sollevazione militare, fino al 1975, anno della morte del caudillo. Per il Tribunale Supremo, Franco non è un militare insorto contro il governo repubblicano eletto democraticamente, bensì “il capo dello stato spagnolo”.

La Fondazione Francisco Franco, che ha presentato ricorso contro l’esumazione, la famiglia del dittatore e la galassia dei partiti nostalgici del regime, esultano.

Un’ulteriore conferma che il pesce puzza dalla testa viene dalla Fiscal General dello stato, Maria José Segarra, recentemente nominata dal socialista Pedro Sanchez e presentata come fiscal progressista. La Fiscalia è un organo gerarchico che gestisce l’accusa per conto dello stato e risponde direttamente al governo.

Tra le prime iniziative intraprese, Segarra ha inviato una circolare interna, indirizzata ai fiscal dello stato, nella quale invita ad accusare del delitto d’odio chi spinga all’odio contro i nazisti. In base a questa interpretazione il delitto d’odio, creato per rappresentare un’aggravante ai reati contro soggetti discriminati o privi di una adeguata protezione (i collettivi gay e LGTBI tra gli altri…) può essere contestato a chi inciti all’odio contro i nazisti o altri collettivi già ampiamente tutelati dall’ordinamento (quali le forze dell’ordine).

Una stretta repressiva targata PSOE volta a investigare oggi i militanti catalani, che hanno in vario modo resistito o anche solo contestato la Guardia Civil e la Policia Nacional, domani utilizzabile contro qualsiasi oppositore.

Questa è l’aria che si respira nei corridoi degli apparati statali della Spagna reale che, al di là delle illusioni sulla formazione del nuovo governo di sinistra del PSOE, mette sul banco d’accusa il capillare processo d’autorganizzazione popolare del referendum del primo ottobre.

È stato detto che la lotta per la libertà dei leader catalani sotto accusa non è una questione d’indipendenza, bensì di democrazia. Numerose voci della sinistra basca, tra cui quella del rappresentante di EH Bildu, Jon Iñarritu, hanno ribaltato la questione, sostenendo ancora più efficacemente che senza l’indipendenza di Catalunya sarà assai difficile l’affermazione della democrazia in Spagna.

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