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Germania: il “paradiso capitalista” del lavoro atipico

E’ apparsa di recente su zen.yandex.ru una nota nostalgica, di rimpianto per un paese che “noi stessi abbiamo ucciso”, ingannati da chi prometteva “di preservare le conquiste del socialismo, arricchendole con le delizie del capitalismo”.

Ora, si dice, il “socialismo, come società più progressiva, tornerà sicuramente”; ma non è detto che questo “accada domani e non è detto che accada in Russia”. Infatti, poco prima dell’URSS, era “scomparso un altro paese socialista: ricordate in che modo la DDR fu annessa dalla RFT”, senza che nulla “fosse chiesto al popolo della DDR”? Ricordate come “gli Ossi, esattamente come noi nel 1991, si rallegrassero per aver conquistato la libertà”? Trent’anni dopo, “anche i tedeschi dell’Est non possono abituarsi al “paradiso capitalista”.

L’entusiasmo per “l’unificazione si era mutato presto in disillusione e sensazione di inganno” e, proprio “come in Russia, anche le autorità tedesche cercano di cancellare la memoria dei tempi più giusti; se in Russia parlano dei “terribili tempi stalinisti”, in Germania paragonano la DDR al Terzo Reich”. A volte “dicono che noi, “sovki”, siamo storpiati dal nostro passato. Che siamo diversi dalle persone “normali”. Forse c’è del vero. Siamo molto diversi da quei “normali”, che ci sembrano farabutti e truffatori”.

In realtà, quei farabutti hanno poco di “anormale” rispetto alle leggi che regolano l’ingordigia del profitto, a ovest come a est. Nel novembre scorso, la Neues Deutschland riprendeva un servizio della Rheinische Post, secondo cui gli operai tedeschi avevano accumulato, solo nella prima metà del 2018, 1,1 miliardi di ore di straordinari.

Nel 2017, le ore di straordinario avevano superato i due miliardi – la cifra più alta dal 2007 e 11% in più rispetto al 2016 – di cui però solo la metà erano state pagate regolarmente. In tal modo, notava Die Linke, “molti imprenditori si arricchiscono sulle spalle dei dipendenti, economizzando anche sui contributi. Solo nell’ultimo anno, hanno risparmiato oltre 36 miliardi di euro”.

Ma, truffe a parte, anche la “normalità” puzza molto di furfanteria; ovviamente non solo in Germania, paese in cui, scriveva tre giorni fa Alina Leimbach, ancora sull’ex organo della SED, la cosiddetta “occupazione atipica” è normale per un quinto dei lavoratori.

Secondo uno studio della Fondazione “Hans Böckler”, il numero di lavoratori a tempo parziale, con contratti temporanei, a tempo determinato, mini-job, rimane molto alto e nel 2017 il 20,8% dei lavoratori dipendenti aveva un contratto atipico, contro il 13,4% del 1992. “Non si dovrebbero raggruppare insieme tutte queste categorie” osservano i ricercatori della Fondazione, ma hanno comunque una caratteristica comune: quella di prevedere un “salario inferiore a quello del lavoro regolare” e “meno diritti per i dipendenti”. Inoltre, a causa dei “minori contributi pensionistici o, come nel caso dei mini-job, spesso non versati affatto, queste persone sono destinate anche in vecchiaia a essere più dipendenti delle altre da ulteriori prestazioni statali”.

Anche se negli ultimi anni c’è stato un “leggero movimento discendente dell’occupazione atipica – nel 2007 aveva raggiunto il “record” del 22,6% della forza lavoro totale – dopo il 2009 la tendenza ai contratti a tempo determinato o parziale è continuata”.

In generale, mentre con contratti atipici risulta occupato il 12,2% degli uomini, il 30,5% delle donne lavora con mini-job o part-time. Allo stesso tempo, è diminuito il numero di mini-job e part-time con meno di 20 ore settimanali, mentre è aumentato il lavoro a tempo parziale con oltre 20 ore.

La leggera riduzione di contratti atipici registrata negli ultimissimi anni avrebbe comunque interessato solo i lavoratori tedeschi, mentre questi sono aumentati significativamente tra gli stranieri: nel 2017, c’erano ufficialmente circa mezzo milione in più di persone senza passaporto tedesco occupate in lavori in affitto, a termine o mini-job.

Dunque, le quattro categorie per le quali si trovano più spesso contratti atipici sono: donne dei länder occidentali, giovani, lavoratori meno qualificati e persone senza passaporto tedesco.

In questo quadro, si inseriscono le peggiori condizioni sociali generali dei länder della ex DDR rispetto a quelli dell’ovest, per cui qualche mese fa Jana Frielinghaus scriveva su Neues Deutschland che a est un numero maggiore di persone che a ovest “è scettico nei confronti del capitalismo”.

Da qui, anche la sfiducia nei confronti dei partiti di centro e tradizionali, quali CDU/CSU, SPD, FDP e l’orientamento verso le organizzazioni di sinistra, da una parte, e estrema destra, dall’altra: a est, Afd può contare su percentuali quasi doppie rispetto all’ovest. Secondo Renate Köcher, l’orientamento elettorale mostra come molti tedeschi dell’est si sentano tuttora estranei a casa propria, sottorappresentati in politica e nel lavoro, o, secondo l’efficace espressione di una ex insegnante della DDR, in un documentario RAI di qualche anno fa, hanno “la sensazione di essere stati assunti come supplenti”.

Basti pensare che, se solo nei primi due anni dopo l’annessione, a est si erano persi (ufficialmente) oltre un milione di posti di lavoro, per la frenetica deindustrializzazione e il trasferimento a ovest non solo dei centri di direzione economica e amministrativa, ma delle stesse strutture materiali produttive, oggi, dopo trent’anni, le cifre dell’ufficiale Bundesagentur für Arbeit indicano una differenza media di circa due punti nelle percentuali di disoccupazione tra est e ovest.

Con un dato complessivo di circa 2.236.000 disoccupati (1.699.000, o 4,6% a ovest, e 538.000, o 6,3% a est), circa 3.200.000 sottoccupati (senza considerare contratti a tempo o mini-job) e 792.000 registrati ufficialmente ai centri per l’impiego, la differenza tra est e ovest vede estremi di disoccupazione del 2,7%, ad esempio, in Baviera e del 5,4% in Sassonia, 5,7% in Brandenburgo, 7,8% a Berlino, o 6,9% nel Mecklenburg-Vorpommern, nel quale ultimo ci sono distretti e circondari con medie del 8,4-8,5%, anche se è vero che pure nella “città-stato” di Brema, a ovest, si raggiunge il 10%, proprio come in Italia. Un inferno capitalista, da est a ovest, da sud a nord.

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