La sproporzione di forze numeriche e tecnologia avanzata era tale da non lasciare spazio neppure all’idea che la guerra potesse durare 18 giorni, ma quando si scende dal cielo e si mettono i piedi a terra, diventano decisivi radicamento nella popolazione, determinazione feroce e conoscenza delle infinite possibilità del territorio.
I talebani sono il peggio che l’Afghanistan avesse conosciuto prima dell’arrivo degli statunitensi. Armati e addestrati dalla Cia per combattere i sovietici negli anni ‘70 – i governi afgani di allora erano guidati dal Partito Comunista, che ebbe la sciagurata idea di scindersi in fazioni, favorendo dunque l’opposizione islamista più integralista e il “malevolo interessamento” dell’imperialismo yankee – ospiti di tutte le organizzazioni terroristiche di matrice sunnita (Osama Bin Laden, saudita, ne fece la base per Al Qaeda, dopo aver servito gli Usa), ma padroni del territorio nonostante le antichissime divisioni tribali e le milizie dei “signori della guerra”.
Ora Trump ha deciso di accelerare il ritiro delle truppe della “coalizione di volenterosi” messa insieme da Bush junior nel 2001, subito dopo l’attentato alle Twin Towers di New York. E, com’è ovvio, se ne fotte allegramente delle “motivazioni ufficiali” che giustificavano l’intervento militare nel paese asiatico.
Scrive infatti il New York Times, citando diverse fonti “a conoscenza dell’accordo” tra Usa e Talebani, che non ci sarà alcun posto per la tutela dei diritti delle donne e altri diritti civili (del resto mai fatti valere durante l’occupazione neppure nelle poche zone sotto controllo Usa).
Lo stesso New York Times dimostra peraltro scarsissima memoria storica, sull’argomento, visto che parla di “diritti conquistati da venti anni” (dalla conquista statunitense di Kabul, insomma). Mentre un’occhiata veloce agli archivi fotografici degli anni precedenti avrebbe permesso di venire a sapere che le donne, nell’Afghanistan socialista degli anni ’70, giravano tranquillamente in minigonna, non certo col burka poi imposto dai “resistenti islamisti” foraggiati dagli Usa.
Dettagli “civili” a parte, l’accordo prevederebbe una serie di step successivi. Prima il ritiro di 5.000 dei 14.000 soldati Usa ancora sul terreno, in cambio dell’impegno talebano a non ospitare più “organizzazioni terroristiche” islamiste (da segnalare che anche gli stessi talebani figurano ancora in quella “lista nera”, ma non fa niente; sappiamo da sempre che l’aggettivo “terrorista” viene applicato al nemico del momento e non significa nulla di “oggettivo”…).
Il ritiro totale delle truppe a stelle e strisce dovrebbe avvenire nell’arco di due anni o poco meno. Ma non mancano i “se”.
Per esempio, il ritiro totale dei soldati è la condizione tassativa posta dai Talebani per “aprire un dialogo” con il governo fantoccio di Kabul (che controlla la capitale e poco più), per definire la mappa del potere nel futuro Afghanistan. Dunque, a seconda di tempi e modi del ritiro o dell’avvio di questo “dialogo” ci potranno essere delle marce indietro o degli stop improvvisi. E nulla è certo, da quelle parti, quanto l’incertezza…
Si vedrà comunque presto, visto che il negoziato “nazionale” dovrebbe iniziare in contemporanea con l’annuncio ufficiale dell’accordo Usa-Talebani (viene in mente quel vecchio slogan ipocrita “con i terroristi non si tratta”…).
Per il momento, però, nulla si sa dei dettagli geopoliticamente più importanti, come la permanenza o meno di basi Usa in territorio afgano, ossia ai confini di Russia e Cina. A cominciare ovviamente dalla maxi-base aerea di Bagram.
Se restassero in uso, infatti, si dovrebbe parlare apertamente di alleanza Usa-Talebani, e non di pace.
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