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Guai a criticare i “manifestanti” di Hong Kong

Come prevedibile l’armata delle multinazionali del big data si già è arruolata nella campagna contro la Cina per quanto sta accadendo nella ex colonia britannica di Hong Kong.  Facebook ha fatto sapere di aver bloccato centinaia di account perché, a suo avviso,  diffondevano disinformazione cinese sulle proteste a Hong Kong.

“Noi stiamo costantemente lavorando per rilevare e fermare questo tipo di attività, perché non vogliamo che i nostri servizi vengano usati per manipolare le persone”, ha detto un portavoce del social network. “Abbiamo cancellato queste pagine, gruppi e account sulla base del loro comportamento, non del contenuto che postavano”.  Secondo il portavoce della multinazionali (recentemente multata per cinque miliardi per violazione della privacy e della riservatezza dei cittadini statunitensi, ndr), l’indagine effettuata da Facebook sarebbe giunta alla conclusione  che gli account fossero associati o associabili al governo cinese.

Appare curioso che in un mondo e in una epoca storica in cui campagne internazionali usano ampiamente i social network per divulgare i propri contenuti e che traggono la loro forza proprio dalle possibilità di coordinamento sull’uso della rete, il portavoce di Facebook giustifica la chiusura degli account con il fatto che “le persone dietro questa attività erano coordinati tra loro e usavano falsi account per rappresentarsi in maniera diversa dalla realtà e questa era la base della loro azione”.

Il South China Morning Post riporta che Facebook ha cancellato sette pagine, tre gruppi e cinque account coinvolti in “comportamenti coordinati non autentici” per ridicolizzare, infangare manifestanti e giornalisti.

Anche Twitter si è allineata alla normalizzazione della comunicazione social su Hong Kong comunicando la sospensione di 936 account originati dalla Cina per “politiche di manipolazione della piattaforma”, tra le quali spam, attività coordinata, account falsi.

Sul fronte della guerra nei media, diversi canali cinesi stanno diffondendo un rap dal titolo “Hong Kong Fall” contro i dimostranti che manifestano nella ex colonia britannica tornata alla Cina negli anni Novanta. Il brano, in inglese e cinese mandarino, è stato postato sui siti del Quotidiano del Popolo, di CGTN e sul China Daily.  I rapper del gruppo Chengdu Revolution hanno utilizzato un remix delle parole del presidente Usa Donald Trump. Nel brano si chiede la fine delle manifestazioni e si ipotizza che gli Usa vogliano “dividere Hong Kong da noi”, cioè dalla Cina e che vogliano produrre una “rivoluzione colorata”.

La tensione sempre più alta a Hong Kong riverbera anche sulle trattative commerciali tra Stati Uniti e Cina. Il consigliere economico della Casa Bianca, Larry Kudlow ha affermato che: “Siamo in un sorta di guerra tecnologica con la Cina”, mostrandosi però cautamente ottimista. Lo stesso Trump ha fatto sapere che secondo lui “La Cina vuole un accordo. Vedremo cosa succederà” ribadendo però di non essere ancora pronto a un’intesa con Pechino. Un accordo sul quale potrebbe pesare cosa la Cina deciderà di fare a Hong Kong. “Sono per la libertà e la democrazia. Per me sarebbe più difficile raggiungere un accordo” nel caso un cui il presidente Xi Jinping adottasse una soluzione violenta simile a Piazza Tienammen.

Quella di Trump è l’evocazione di uno scenario nel quale non è difficile intravedere lo zampino statunitense. Dopo le proteste cinesi per la presenza di alti funzionari dell’ambasciata Usa tra i manifestanti ad Hong Kong, il governo cinese ha confermato oggi la detenzione di un “dipendente” del consolato britannico a Hong Kong, fermato dalla polizia cinese l’8 agosto scorso.

Non appare affatto impensabile che di fronte al fallimento della guerra commerciale contro la Cina attraverso i dazi, l’amministrazione Usa agisca per una precipitazione delle tensioni ad Hong Kong che spingano ad una repressione delle proteste fin qui mantenutasi al di sotto di quanto fatto da Macròn contro i Gilet Gialli. Per la Casa Bianca serve una occasione per spostare la guerra commerciale dal piano dei dazi a quello delle sanzioni contro “il regime repressivo”. Le sanzioni, come avvenuto su altri fronti, costringerebbero anche gli alleati (vedi l’Unione Europea) ad allinearsi e dunque a far saltare tutti gli accordi raggiunti fino ad ora, a cominciare dalla “Via della Seta”. Il passaggio dalla guerra commerciale a quella politica (sanzioni) è uno scenario abbastanza prevedibile, ma occorre l’occasione e se non c’è magari occorre costruirla, con una consueta e massiccia campagna mediatica anticinese nella quale Facebook e Twitter sembrano già essersi arruolati.

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3 Commenti


  • Aldo S.

    Vorrei sapere una cosa. Posto che l’imperialismo americano è fuori discussione, ma non è che per voi la Cina sia “comunista”? Qualcosa che vi ispira? Grazie.


    • Redazione Contropiano

      Un articolo non contiene mai tutto il mondo, e tantomeno tutto un modo di pensare… Qui si colgono almeno due “fatti” evidenti: a) il differente trattamento informativo, in Occidente, verso le mobilitazioni popolari; le si criminalizza se avvengono qui, le si benedice se avvengono in paesi “nemici”; b) i social network non sono uno affatto “spazio libero” (anche se vi si può scrivere ogni corbelleria venga in mente), ma piattafforme controllate dai rispettivi proprietari, che selezionano quanto è “conveniente” che resti e quanto dà fastidio ai proprietari stessi. Guinzaglio lungo, visto che devono farci profitto, ma guinzaglio ferreo.


  • marco

    possibile organizzarsi con le comunità cinesi per organizzare anche a roma o italia manifestazioni contro l’ingerenza imperialista ad hong kong?

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