Nell’arco di due settimane sono scoppiate in Ecuador e in Cile due rivolte popolari che, sommate ai momenti di crisi registrati precedentemente in Brasile, in Colombia, in Argentina e nel Paraguay, rimettono in discussione il progetto liberista e il ruolo politico dell’attuale classe dirigente di questi paesi, meglio conosciuta con l’epiteto di “borghesia imperialista”.
I drammatici reportage sugli scontri avvenuti nelle capitali dell’Ecuador e del Cile, Quito e Santiago, ripropongono anche il tema della risposta violenta da parte dei settori popolari ed anche di una numerosa presenza di giovani figli di una classe media, ormai impoverita dai programmi dei differenti governi liberista. Per questo motivo molti scienziati politici e soprattutto gli economisti che hanno idolatrato Milton Friedman si chiedono se oggi, il paradiso liberista latinoamericano, è diventato un inferno e quindi una pericolosa bomba sociale pronta a esplodere in qualsiasi momento.
Le rivolte popolari e la risposta repressiva
In Ecuador, come in Cile e prima di queste in Colombia, in Argentina, in Paraguay ed in Brasile, le pacifiche manifestazioni, sono state sempre attaccate con estrema violenza dalla polizia con l’esplicito intento di provocare un altrettanto risposta violenta da parte dei manifestanti. Un’operazione che potrebbe essere identificata come una provocazione dei corpi di polizia.
Purtroppo, l’ordine di sparare e di massacrare a randellate o con i gas lacrimogeni i manifestanti è, ormai, diventato da parte dei corpi di polizia il modo abituale di procedere per garantire il cosiddetto ordine pubblico. Cioè, la violenza della repressione è diventata lo strumento prioritario per difendere il funzionamento e la continuazione “sine qua non” dello stato liberista.
Infatti, per i governi liberisti dell’America Latina, ogni tipo di manifestazione pacifica che mette in discussione il modello politico è considerato un “attacco allo stato”. Motivo per cui la repressione è sempre stata durissima non solo per smobilizzare i manifestanti, ma, anche per permettere ai media di giustificare la repressione e, nello stesso tempo pubblicizzare la capacità dello stato di combattere il terrorismo e i “delinquenti saccheggiatori”.
Infatti non è casuale che il presidente cileno, Sebastian Piñera, nel momento in cui richiedeva al generale Javier Iturriaga di coordinare l’intervento dell’Esercito in nove delle sedici regioni del paese, con 9.500 soldati, con cui far rispettare lo “Stato di Emergenza”, abbia poi contestualizzato questa decisione affermando: “…Oggi il Cile sta in guerra contro un poderoso nemico, pronto a usare la violenza senza alcun limite…”. Parole che erano illustrate esaustivamente dai media ed anche nei social con le immagini dei saccheggi ai supermercati.
Una manipolazione che risultava estremamente educativa per i settori della classe media, che considerandosi una vittima potenziale del “popolaccio suburbano saccheggiatore”, reiteravano l’appoggio politico ai partiti della destra, sottoscrivendo – nonostante gli effetti della crisi economica – la validità del programma liberista e le rispettive norme del mercato e della dipendenza.
Infatti, in Ecuador e in Cile, come pure negli altri quattro paesi menzionati, i media hanno riprodotto all’infinito le immagini dei saccheggi ai supermercati, riuscendo in questo modo a volgarizzare la rivolta popolare, facendo credere che in America Latina esisterebbe un piano occulto delle sinistre per derubare i governi liberisti.
Un concetto che è stato pubblicizzato dal presidente brasiliano Jair Bolsonaro, che durante la vista ufficiale in Giappone divulgava nei social un’accusa tremenda, secondo cui: “A Santiago, l’azione violenta dei manifestanti faceva parte di un programma idealizzato dal Forum de São Paulo, che è un’organizzazione creata nel 1991 dai partiti di sinistra dell’America Latina. Manifestazioni che hanno per obbiettivo la presa del potere. Purtroppo, non ci siamo del tutto liberati di questi dittatori che con atti di vandalismo e di terrorismo cercano di riconquistare quello che hanno perso nelle urne!...”
Parole che poi dai social sono rimbalzate nelle televisioni e nei giornali creando una continua manipolazione, in cui le immagini di sottofondo sono sempre quelle dei saccheggi, senza dare spazio ai manifestanti. Per questo nella capitale ecuadoriana, il dirigente del movimento indigeno CONAI, Jorge Vargas dichiarava: “… L’esplosione della violenza popolare è stata una risposta spontanea alla violenza della polizia. Le manifestazioni che si sono succedute non non mettevano in discussione il modello politico del governo, ma, soltanto, alcune specifiche decisioni…”. Infatti, in Ecuador la rivolta è deflagrata quando il governo Moreno decise di cancellare il sussidio al diesel, nonostante 100% dei trasporti di merci e delle persone nelle province andine e amazzoniche fosse su gomma!
Anche in Cile gli scontri con la polizia sarebbero scoppiati quando il governo Piñera, dopo aver aumentato il prezzo del biglietto della Metropolitana, ha voluto silenziare e disperdere i manifestanti.
Esiste un clima insurrezionale?
Obbiettivamente non si può dire che in Cile, in Ecuador, in Colombia, in Paraguay, in Argentina e in Brasile esista un clima insurrezionale e che il Forum de São Paulo lo avrebbe alimentato per far cadere i governi liberisti, come affermano il presidente brasiliano Bolsonaro e quello ecuadoriano, Moreno.
Esistono, invece una serie di situazione critiche che, a causa degli sviluppi della crisi economica in tutto il continente sudamericano e come conseguenza diretta dell’incapacità, intellettuale e politica, degli attuali governanti, ormai sono diventati autentiche bombe-sociali fluttuanti, pronte ad esplodere a qualsiasi momento.
Purtroppo, molti commentatori internazionali, riferendosi alla rivolta di Quito e poi a quella di Santiago hanno accennato a un possibile clima insurrezionale, artificiosamente messo a punto dalla sinistra. Per questo motivo, il presidente ecuadoriano, Moreno, subito dopo i primi scontri davanti al palazzo del Parlamento, subito accusò l’ex presidente, Rafael Correa, e quello venezuelano, Nicolás Maduro, dicendo: “… Correa e Maduro hanno tramato con il movimento indigeno CONAI per realizzare la mia destituzione…”.
Anche in Cile, il ministro degli Interni e della Sicurezza, Andrés Chadwick e il responsabile dello “Stato di Emergenza”, generale Iturriaga del Campo, hanno accusato la sinistra rievocando, addirittura, “…il MIR e i comunisti del PCC, come i principali promotori della rivolta e quindi degli scontri con la polizia….”
In risposta il presidente della Federazione dei Sindacati della Metropolitana, Paula Rivas, con rapido contatto telefonico spiega che: “…In realtà la gente è scesa in piazza perché l’aumento del prezzo del biglietto della metropolitana è stata la goccia che ha fatto tracimare il bicchiere. Oggi i cileni soffrono con le cosiddette ‘riforme’ del governo. Prime fra tutte le pensioni che rendono i pensionati sempre più poveri. Senza dimenticare l’aumento indiscriminato delle tariffe dell’energia elettrica, gli aumenti delle altre tariffe avvenute con la privatizzazione delle imprese pubbliche dell’acqua, delle scuole, delle università, degli ospedali e degli ambulatori. Noi siamo contro la violenza, ma siamo d’accordo sulle rivendicazioni sociali, perché i lavoratori non ne possono più e le condizioni di vita in Cile, oggi, sono veramente critiche. Quello che un tempo chiamavano di paradiso è diventato un inferno!!!”.
A questo punto è necessario ricordare che in Ecuador e in Cile le manifestazioni sono state promosse da organismi popolari e dalle comunità di base per protestare contro le recenti decisioni economiche dei rispettivi governi liberiste. Manifestazioni che però non avevano una direzione legata o compromessa con i partiti della sinistra istituzionale. Soprattutto nel caso cileno si può dire che c’è stato un certo ritardo, da parte dei partiti della sinistra, nel dichiarare il suo appoggio alle manifestazioni.
Per questo motivo, l’ex-presidente ecuadoriano, Rafael Correa, dopo aver visto le immagini di un saccheggio a un supermercato in Guayaquil ha subito dichiarato: “…Tutto quello che sta succedendo in parallelo alle manifestazioni contro la cancellazione del sussidio al diesel, non ha niente a che vedere con il movimento di protesta e soprattutto non ha nessun legame di nessun tipo con gli organizzatori delle manifestazioni, cioè i dirigenti del CONAI…”
E’ sempre Rafael Correa che, riferendosi alle immagini dei saccheggi, sottolinea: “…In un paese dove la disoccupazione e la sottoccupazione hanno avuto un incredibile aumento moltiplicando i parametri della povertà, dove tutti i programmi d’integrazione e di redistribuzione del reddito sono stati cancellati e dove la propria qualità della vita è diventata una priorità per i soli ceti sociali ricchi, è evidente che il governo e i suoi media cercano di confondere l’opinione pubblica mistificando gli eccessi dei cosiddetti delinquenti della piazza!…”
In realtà i saccheggi verificati in alcuni quartieri delle città cilene di Santiago, Valparaiso e Concepcion e quelle ecuadoriane di Quito e Guayaquil sono la diretta conseguenza del degrado sociale provocato dai governi liberisti ed anche il risultato di una grave situazione economica, dove la povertà è diventata sempre più assoluta e generalizzata, mentre l’emarginazione dilaga nei cosiddetti Barrios Metropolitanos.
Ragione per cui chi realizza i saccheggi sono i più poveri che approfittano del momento per riappropriarsi di quei prodotti che non riescono più a comperare. E non è una casualità che la quasi totalità dei saccheggi effettuati nelle suddette città cilene e ecuadoriane riguarda i supermercati. Questo perché, oggi in Cile, lo stipendio di 60% dei lavoratori dura appena 15 giorni. Dopo di che inizia la corsa ai prestiti per sopravvivere. Un dramma che, purtroppo, è diventato comune anche in Brasile, in Argentina, in Paraguay e in Colombia.
Il problema della povertà e della crescente disoccupazione nei suddetti paesi dell’America Latina è associato all’estrema violenza della polizia nei confronti delle popolazioni povere. In Brasile, per esempio, i battaglioni speciali della Polizia (UPP) e quelli dell’esercito, pattugliano tutte le entrate delle favelas, per evitare che eventuali manifestazioni realizzate dagli abitanti delle favelas attingano il centro delle città.
Un mese fa, i reparti speciali della polizia di Rio de Janeiro, cominciarono a sparare all’impazzata per smobilitare una manifestazione contro il carovita realizzata dagli abitanti della “favela Fazendinha”. Uno “show” di belligeranza gratuita – tanto caro al presidente Bolsonaro – che i media hanno subito minimizzato nonostante abbia provocato la morte di una bambina di 8 anni, Agata Félix.
Anche in Cile l’attuazione della Polizia, dei reparti dei Carabineros e dei 9.500 soldati mobilizzati per presidiare le principali strade come ai tempi del golpe del 1973, Manuel Delgado, antico militante del MIR cileno riassume l’evoluzione degli scontri: “… I primi a scendere in piazza sono stati gli studenti medi, con qualche cartello contro il governo che come tu sai ha praticamente distrutto l’istruzione pubblica trasformandola in merce. Di modo che se hai soldi vai nelle miglori scuole, altrimenti ci sono solo scuole per diventare mano d’opera specializzata. La repressione è stata immediata, violenta e direi programmata per produrre un qualcosa di più ampio con cui poter sviluppare un’azione repressiva sempre più violenta e allargata nel territorio urbano. Cioè, gli scontri nati nel centro della città si sono protratti fino ai limiti dei Barrios Metropolitanos. Il resto stà nelle cronache dei giornali. Gli abitanti dei Barrios sono scesi in piazza e per questo la polizia e poi anche l’esercito hanno cominciato a sparare. Le sparatorie della poizia hanno alimentato ancor più larabbia e per questo c’è stata la risposta violenta dei manifestanti, facendo barricate in fiammate con autobus per impedire ai soldati di avanzare. Comunque, escludo, al 100%, l’esistenza della cosiddetta direzione incognita della sinistra che guidava lo sviluppo delle manifestazioni, come ha detto il generale Iturriaga! …. La verità è che il popolo che lavora con salari divenuti bassissimi e in condizioni di vita terribili è stanco di promesse e di fregature. Per cui, alla prima occasione esplode e in quei frangenti può succedere di tutto, proprio perché queste manifestazioni che si trasformano in rivolte non hanno né una direzione e tanto meno un controllo!….. ”
E la sinistra dove si colloca?
Come, recentemente Angela Davis ha dichiarato: “…Il Brasile è il paese che in America Latina mi da più speranze perché il movimento popolare è in netta ripresa. Il movimento femminista e quello afroamericano sono molto forti e non si sono fatti intimidire. Inoltre le contraddizioni sociali e economiche sono più accentuate…”
Un contesto complesso in cui, la sinistra brasiliana, vale a dire, il PT, il PSOL, il PcdoB, il PCB e tutte le altre piccole sigle, associate ai grandi movimenti popolari organizzati, primo fra tutti il MST e la confederazione sindacale CUT, dopo il contraccolpo sofferto con l’Impeachment nei confronti di Dilma Rousseff, l’imprigionamento di Lula e l’elezione di Bolsonaro, hanno iniziato a reagire.
Per questo JoãoPedro Stedile, leader del MST ha dichiarato: “…La sinistra e le forze popolari devono presentare al paese un progetto strutturale capace di garantire un lavoro giustamente rinumerato e migliori condizioni di vita. Però per far arrivare al popolo queste nuove idee e i nuovi programmi politici, la sinistra deve migliorare la sua comunicazione con le masse. Cioè, dobbiamo rinnovare la nostra metodologia pedagogica e lavorare in maniera differente per coscientizzare le masse!…”,
Infatti, uno dei grandi problemi della sinistra brasiliana, ma anche quella cilena, ecuadoriana, paraguaiana e argentina è la mancanza di strumenti tecnologici e pratici per stabilire un contatto diretto con le masse, senza l’interferenza dei grandi media e, soprattutto, di quelli controllati e gestiti dalle sette evangeliche.
In quasi tutti i paesi dell’America Latina le sette evangeliche e pentecostali sono diventate delle autentiche centrali spirituali collegate esclusivamente con i partiti della destra conservatrice. Per esempio, in Colombia, le chiese evangeliche si sono schierate apertamente contro l’accordo di pace tra il governo e le FARC e poi anche contro quello con il ELN.
In Ecuador hanno, addirittura presentato e finanziato un pastore nelle elezioni presidenziali promuovendo una guerra di livello infimo contro i candidati della lista formata dall’ex presidente Rafel Correa. Da ricordare che quando il presidente Moreno – dopo aver tradito Rafael Crrea ed essersi venduto al Dipartimento di Stato – fece arrestare il suo vice Jorge Glas con la falsa accusa di corruzione, tutti i pastori delle chiese pentecostali ed evangeliche evocarono questo fatto come “…Il giusto castigo di Dio e la liberazione di un elemento diabolico!…”!
In Argentina, in Cile e in Paraguay quasi tutte le chiese pentecostali appoggiano i candidati del governo e lo fanno associando, opportunisticamente, il voto alle funzioni religiose. Inutile dire che, in Brasile, tutte le chiese evangeliche e pentecostali hanno appoggiato e fatto campagna per Bolsonaro!
Comunque se in Brasile l’appuntamento politico sarà solo nel 2024 con le elezioni presidenziali, in Argentina il “paradiso infernale” creato dal liberista Mauricio Macri potrà terminare con le prossime elezioni presidenziali. Di fatto, un centro-sinistra allargato anche al peronismo ortodosso dovrebbe vincere con facilità.
Purtroppo il vero problema della sinistra latino-americana è quello presentato da JoãoPedro Stedile, vale a dire un programma politico e programmatico originale e capace di riproporre il lavoro come il tassello principale della società e nello stesso tempo creare elementi adatti a creare un nuovo senso di sovranità, di responsabilità sociale e una nuova coscienza politica.
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