Dopo le terribili rappresaglie e la repressione seguita al golpe di Pinochet l’11 settembre del settembre 1973, il MIR (Movimiento Izquierda Revolucionaria) riesce con il suo segretario nazionale Miguel Enriquez – passato immediatamente alla clandestinità – a compiere sporadiche azioni contro le forze del nuovo regime.
In questo periodo immediatamente successivo al colpo di Stato, il livello organizzativo della più importante organizzazione della sinistra rivoluzionaria cilena non permette che isolate azioni armate contro militari o carabineros, spie ed elementi marginali della struttura politica che appoggiava la dittatura.
Questa attività resistenziale viene pagata ad altissimo prezzo: su circa 700 obbiettivi colpiti dal MIR – e da altre formazioni minori – dal settembre 1973 al 1980, si valuta che nello stesso periodo di tempo almeno 1500 rivoluzionari siano caduti, chi ucciso, chi torturato e/o desaparecido.
Chi continuò a resistere “armi in pugno” pagò quindi un altissimo prezzo di sangue.
Nonostante il forte sostegno internazionale, dopo la morte di Enriquez e Van Schowen, e con la leadership del MIR passata a Pascal Allende, non si riesce di fatto a ricostruire un organismo operante e strutturato efficacemente all’interno del paese andino. Nastri magnetici registrati con vario materiale di propaganda, materiali cartaceo come il periodico “El Rebelde” ,giungono clandestinamente in Cile anche dall’estero, ma oltre a questa testimonianza che attestava l’esistenza dell’Organizzazione, la comunicazione non riesce ad andare oltre.
Viste queste difficoltà, si fa così strada l’idea di cercare di introdurre in Cile la guerriglia di montagna e nelle aree rurali, sulla scorta delle esperienze simili sviluppatesi nel continente latino-americano così come nel Tricontinente.
Pascal Allende, Rodrigo Munez, Ibar Leiva, Juan Ojeda, Pedro Cardyn ed il capo militare Miguel Cabrera – detto “El Paine” – sono praticamente tutti in esilio, sparsi fra l’Europa Occidentale (Francia, Olanda) ed i Paesi del Patto di Varsavia dell’Europa Orientale, con periodi di permanenza a Cuba ove si era ottenuta – grazie a Fidel Castro – la garanzia di un appoggio logistico, nel caso si volesse procedere ad azioni di più alto profilo all’interno del Paese schiacciato dai militari.
Dal 1977 la direzione del MIR in esilio inizia a pensare a quella che sarà poi chiamata “Operacion Retorno” e che sul campo verrà poi denominata in lingua Mapuche “Toqui Lautaro”. Nel 1978 Pascal Allende rientra clandestinamente in Cile per porre le premesse organizzative del ‘Ritorno’.
Viene scelta, grazie alle idee di Miguel Cabrera “El Payne”, la zona rurale di NELTUME, a 900 Km a Sud della capitale: un territorio assai boscoso e montagnoso, caratterizzato da grandi laghi australi, ampi fiumi che corrono gonfi dalla Cordigliera e con caratteristiche stagionali che rendono – con i suoi lunghi inverni e le brevi estati – il clima piuttosto impervio.
La scelta del territorio si prestava alla guerriglia rurale per le caratteristiche forestali, in un Paese come il Cile dalla forma allungata e sottile, dove si passa un po’ ovunque e repentinamente dalla costa al deserto, per poi trovarsi subito nelle altissime ed impervie Ande.
Quest’opzione non derivò da una semplice ragione legata alle caratteristiche geografiche, ma fu dettata anche da una presenza di lungo corso di una cultura operaia legata ai “lenadores”, cioè ai lavoratori legati al taglio ed alla lavorazione del legname.
Già negli Anni 60 e durante l’esperienza del triennio della Unidad Popular, dal ’70 al ’73, questo territorio aveva conosciuto importanti lotte coronate dal successo, con l’espropriazione delle 3 principali aziende private legate alle multinazionali e ad una presenza costante, nel periodo di Allende, di almeno 700 operai e relative famiglie che, prima di Unidad Popular vivevano in condizioni di miseria estrema e disagio sociale.
Negli anni precedenti e contemporanei al governo Allende era inoltre forte a Neltume il MCR (Movimiento Campesino Revolucionario) che diede forza e capacità mobilitante a queste lotte.
Con il colpo di stato lo sfruttamento e la repressione tornarono ad essere crudeli e la necessità di lavoro spinse – pur in condizioni ormai terribili sotto ogni punto di vista – ad un aumento esponenziale della popolazione operaia, praticamente semi-schiavizzata, che raggiunse alcune migliaia di unità e l’espansione delle tre aziende che operavano precedentemente. I presidi di polizia, in quella grande area mapuche, non mancavano.
Si trattava perciò di un territorio potenzialmente favorevole all’insediamento della guerriglia perché geograficamente ostile ai movimenti delle forze della repressione, con una consolidata presenza operaia e contadina dalla vivace tradizione combattiva.
Dall’estero, e poi con lo spostamento clandestino di Pascal Allende in Cile nel 1978, viene organizzato un distaccamento di circa 150 membri del MIR per l’Operazione Ritorno. Il distaccamento viene suddiviso in Europa (Praga e Berlino Est) in gruppi di 10-15 volontari che ricevendo addestramento all’uso delle armi e alle tecniche di guerriglia, transitano poi da Cuba per poi “filtrare” con documenti contraffatti in Cile.
Passando da vari siti quasi tutti riescono nell’intento e solo 2 vengono intercettati dalla polizia argentina – ancora in mano ad una dittatura ‘gemella’ a quella cilena – e risultano tutt’oggi scomparsi.
La CNI, la polizia segreta di Pinochet, è comunque in allerta.
Un primo nutrito gruppo di miristi riusce ad entrare nel Paese a metà del 1980, e tra loro vengono in prima istanza scelti 35 uomini – alcuni dei quali già conoscitori della zona – destinati a Neltume come “avanguardia”.
Gli altri li avrebbero raggiunti una volta create le prime basi nelle montagne e studiate le caratteristiche del terreno operativo in loco per il consolidamento della guerriglia. I quadri dirigenti del MIR, come Pascal Allende ed altri, si dislocano in parte a Santiago, Concepcion e Temuco, le ultime due città più importanti in prossimità dell’area, con funzioni di retroterra. Il resto dei potenziali guerriglieri resta “dormiente” pronto e sparso in clandestinità, in attesa degli sviluppi.
Si tratta mettere in pratica in Cile la strategia guevarista del “foco” guerrigliero.
I protagonisti di questa vicenda ricordano tutt’oggi la convinzione di allora, certi che tale “foco” accendesse la ribellione e la possibilità strategica per l’azione armata.
Le prime misure attuate dai guerriglieri sono la creazione di vari “tatù”, ovvero delle buche di diretta ispirazione vietnamita che prevedevano – raggiunte montagne ben lontane dai centri abitati – lo scavo in profondità nel terreno di almeno 3 mt per poi procedere in orizzontale con tunnels diretti sempre verso l’alto.
In tali nascondigli si prestava attenzione assoluta ad impermeabilizzare il tutto con plastica retta e tesa su strutture di tronchi di legno. Si ricavavano giacigli, ma soprattutto magazzini di viveri, vestiario, armi e materiale di propaganda. I “tatù” realizzati – ognuno distinto da un numero non periodico – sono quasi una decina ed ognuno necessita, per essere finito, di almeno 10 giorni di lavoro.
Va da sé che il tempo trascorso in duro lavoro e isolamento, considerando poi che si avvicina il durissimo inverno australe, frustra la volontà dei miristi, così che si decide di lasciare sul posto solo 14 uomini.
Il 1981 si avvicina e urge dare una spinta operativa: far giungere sul posto ancora altre armi, uniformi da campagna, far comprendere ai comandi ed alla direzione che entrare in azione era imprescindibile. Ma i contatti con le città risultano difficili e pericolosi; le radio intercettabili; le “staffette” isolate, vulnerabili e facilmente individuabili.
L’accumulo di forze di questa prima fase viene di fatto impedito dalle impervie condizioni sul terreno, con le difficoltà di stabilire collegamenti stabili tra il vertice e la base della piramide organizzativa e per l’insufficiente disponibilità di uomini e mezzi.
Data la lontananza assoluta dalla direzione del Partito, solo 3 miristi sono lasciati a vigilare i “tatù” e la zona.
Gli altri si dirigono a scaglioni, a piccoli gruppi, in cerca di direttive, per sollecitare l’invio di altri combattenti e di altre risorse. Chi va a Santiago in cerca di Pascal Allende, chi a Concepcion…
Nonostante queste condizioni durissime, ancora oggi Perdo Cardyn ricorda come la loro convinzione e determinazione fosse irremovibile: chi lascia la montagna per cercare di dare impulso al movimento lo fa con la certezza entrare nel giro di pochi anni a Santiago, alla Moneda, sui carri armati presi all’esercito, come 20 anni prima era successo a Fidel e al Che all’Avana.
I contatti col “centro” vengono stabiliti, così che altre armi, fra mille difficoltà e rischi, giungono nei “tatù” di Neltume ed il gruppo operativo torna a poter contare su una ventina di uomini, anche se la consegna resta sempre la medesima: accumulare forze, poi il grosso dei volontari sarebbe arrivato…
Ma nel frattempo si giunge al giugno 1981 che a quelle latitudini significa neve e gelo. Le montagne sono incontrollabili, alcuni boscaioli vedono quegli “escursionisti”, che certo non sono in uniforme né vanno armati ma risultano comunque ‘strani’. Una pattuglia di carabineros esegue un controllo a piedi nella zona in piena nevicata: alcuni miristi, distrutti dalla fatica e giunti da molto più lontano ma diretti ai “tatù”, non avevano cancellato le orme lasciate sulla neve.
Con sorpresa di tutti avviene lo scontro, quasi faccia a faccia, nei boschi ovattati dalla neve, fra miristi e sbirri: segue una disordinata sparatoria… i guerriglieri si sganciano senza perdite, ma alcuni “tatù” vengono scoperti dalle guardie pinochetiste.
È il giugno dell’81: a luglio, in pieno inverno, migliaia di soldati occupano la regione con truppe da montagna ed elicotteri a volo radente.
La stampa del regime da ampia copertura della notizia; la televisione mostra l’interno dei tunnel, dei depositi per coloro che vengono definiti “centinaia di terroristi marxisti inviati da Cuba”.
Ormai la direzione del MIR è presa in contropiede; mostra di non essere all’altezza di un progetto in gestazione da anni e che aveva coinvolto il Patto di Varsavia – soprattutto Cecoslovacchia e DDR – e Cuba.
Seguono in luglio altri scontri in condizioni terribili per i guerriglieri: raramente possono prendere fiato e trovare ristoro in qualche “tatù” non scoperto e situato a grandi distanze; quasi sempre, col timore di essere anche traditi dai civili della zona. Continuano a non vestire abbigliamento mimetico ed a non portare armi lunghe, il che li pone in condizioni incredibilmente svantaggiose.
L’unico dato positivo è la sopravalutazione di cui godono nelle file del nemico: i militari li credono centinaia, quindi i rastrellamenti avanzano con timore e pure i soldati stessi soffrono per il gelo. Si debbono obbligare guide locali a condurli per gli impervi sentieri di montagna.
La più vasta regione di Ponguipulli che include la provincia di Neltume vede “vagabondare” due gruppi di miristi (un totale di nemmeno 20 uomini) che avevano perso ogni contatto fra loro.
Alcuni hanno principi di congelamento ai piedi; uno perse parte delle estremità e “Doc” deve ‘operarlo’ con un coltellino svizzero in mezzo alla tormenta gelata.
Intorno ai primi di Luglio 1981 i due gruppi miristi riuscono a ricongiungersi, a raggiungere i “tatù” ancora non individuati dai soldati ed equipaggiarsi militarmente in “verde oliva”, strumentazione varia e fucili automatici belgi FAL-FN, compatibili con le munizioni in dotazione all’esercito, nel caso di conquista di materiale logistico al nemico.
Per vari giorni l’entusiasmo si riappropria dei volontari che presidiano in armi l’area con nascondigli e piccole trincee in quota. Nel frattempo l’’esercito ha lasciato la zona, convinto che la guerriglia si sia dispersa nella zona andina più inospitale.
Il problema con il “centro”, con Santiago, però rimane: non arrivavano nuovi combattenti, non si avevano direttive chiare. Per l’ennesima volta si deve andare a valle e cercare i contatti; al momento il segretario del MIR Pascal Allende è fuori dal Cile, fra Cuba e l’Est Europa. Restano comunque quadri clandestini anche a Temuco, relativamente vicina.
Ibar Leiva riesce a stabilire un contatto e si reca presso una località a metà strada fa Neltume e Temuco, ma nessuno si presenta all’appuntamento.
Il medico “Doc” viene direttamente inviato a Santiago, ma le risposte che ottiene sono generiche… Il resto degli uomini addestrati per la guerriglia è in clandestinità e viene utilizzata per azioni minori di sabotaggio in aree urbane o risulta difficilmente rintracciabile.
Nella zona di Temuco, tre guerriglieri che si erano rasati con i coltelli da montagna e vestiti alla bene e meglio in borghese cercano di scambiare pacchi di sigarette con alcuni contadini cercando per ottenere denaro, perché la guerriglia aveva ammassato viveri e armi nei nascondigli ma non aveva denaro contante.
Nuovamente i contadini divengono sospettosi, impauriti, e avvertono i carabineros che catturarono i tre miristi, li ‘passano’ alla CNI che li tortura e li fa sparire.
L’esercito, a seguito di questo, torna in forze in zona. Le nevicate vanno scemando e come si possono muovere meglio i miristi, ancor meglio lo possono fare i soldati ben equipaggiati. Era giunto il settembre 1981 e si avvicinava una stagione più mite.
Un guerrigliero cui era stata risparmiata la vita e che non resse alle torture si presta a condurre i militari nelle zone di accampamento marciando in testa ad una colonna durante un nuovo rastrellamento; il mirista prigioniero arriva a portata dei propri compagni e fai i segni (versi di uccelli) convenuti da tempo, ma all’ultimo istante grida ”Imboscata!”: a quel punto si scatena una violenta sparatoria in cui cadono Paulo e Prospero.
Le foto dei guerriglieri morti, in divisa verde e armi alla mano fanno il giro sulla stampa di regime e troupes televisive vengono nuovamente inviate a Neltume. Il regime gongola sia per l’esito della rappresaglia sia per il pretesto offertogli per poter scatenare nuove ondate repressive in tutto il paese, ben conscio che la portata offensiva della guerriglia era molto limitata.
Alcuni nuovi miristi vengono inviati dal ‘centro’ verso la montagna, ma sempre troppo pochi. Nuovamente avvengono altre forme di delazione da parte dei contadini e dei civili che avrebbero dovuto per primi costituire “il mare” in cui la guerriglia avrebbe dovuto “nuotare” e crescere.
Addirittura una donna che conosceva sin da quando era bambino uno dei miristi originari della zona chiama i militari una volta che tre insorti avevano chiesto, esausti, rifugio nella sua povera casa di montagna: le forze del regime sorprendono i tre guerriglieri e li massacrano, brutalizzandoli anche dopo morti a colpi di machete, facendo poi ritrovare alle famiglie “sacche” di pezzi dei propri cari! Nel luogo dove vennero trucidati sorge oggi una “cappelletta” in memoria dei tre.
Al 21 di Novembre 1981 la guerriglia aveva perso quasi 10 uomini senza essere riuscita a realizzare nessuna operazione offensiva. Nel frattempo il guerrigliero “El Pequeco” riuscì a sopravvivere da solo, isolato nei monti sino al 28 novembre 1981, data in cui venne scoperto dai militari.
Il 16 ottobre 1981 cade in combattimento, con un piccolo gruppo di compagni che nuovamente cerca un abboccamento con i civili, il capo militare della guerriglia, Miguel Cabrera “El Paine”, colui che aveva sempre tenuto alto il il morale di tutti e che letteralmente incarnava il motto dei giovani studenti cubani: “seremos como el Che”.
A quella data si fa comunemente riferimento come fine del tentativo del MIR di radicare la guerriglia rurale in Cile.
Nel 1984 vengono uccisi in pubblico, a Concepcion, altri due miristi sopravvissuti a Neltume ed a tutt’ora non se ne conoscono i nomi.
Nel 1999 viene innalzato un monumento alla guerriglia, al sacrificio libertario dei caduti di Neltume, proprio all’ingresso dell’area, sulla statale.
Altre “lapidi” di legno lavorato sono sparse nelle aspre montagne, presso alcuni “tatù” ancora semi-integri, che nella buona stagione vedono qualche escursione di simpatizzanti o parenti dei caduti.
Il medico della spedizione, Rodrigo Munoz “Doc” e Ibar Liva, tra i pochi sopravvissuti all’impresa, hanno deciso di restare a vivere nella zona dopo la fine della dittatura; si sono fatti carico di organizzare, stagione permettendo, le escursioni “della memoria” e gli atti commemorativi che la nuova condizione “democratica” consente.
La tragedia del fallimento della Operazione Ritorno e della Guerriglia di Neltume ha varie sfaccettature che in parte possono sorprendere oggi il lettore.
Sicuramente una scarsa elasticità strategica e pratica che stride con la capacità di crescita politica del MIR negli anni precedenti al golpe, quando le analisi delle specificità cilene e del suo possibile percorso verso il socialismo erano state in grado di affrontare le differenze fra Cile e Cuba, e fra Cile e la Bolivia del 1966/67, fotografando le condizioni sociali e culturali dei vari Paesi.
Il MIR, nell’operazione di Neltume, pur scrivendo una pagina eroica della Resistenza contro la dittatura pinochetista, tenta di replicare l’esempio vietnamita, e di dare vita al ‘foco’, tralasciando quasi con rassegnazione l’ipotesi del radicamento di una guerriglia urbana che – pur fra mille difficoltà e debacles patite – aveva già dato esiti in Uruguay con il MLN “Tupamaros”, in Argentina con l’ERP e i Montoneros, e come si vedrà nel contributo successivo riuscirà invece ad attecchire nello stesso Cile pochi anni dopo grazie alla nascita del Fronte Manuel Rodriguez (FPMR).
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