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Il blackout pedagogico globale

Presentiamo la traduzione di una video-intervista al venezuelano Luis Bonilla-Molina, studioso di pedagogia e tematiche relative alla scuola e alla formazione in generale.

Luis Bonilla-Molina ha iniziato a insegnare a sedici anni come educatore popolare. Ha lavorato nell’educazione dei giovani con problemi comportamentali (13 anni), nell’istruzione di base, nelle scuole superiori e tecniche (25 anni) e come insegnante universitario (quasi 20 anni).

È stato un delegato sindacale e presidente del sindacato degli insegnanti, e ha ricoperto diversi ruoli nell’amministrazione in campo educativo, passando attraverso tutti i livelli, fino a quelli nazionale e internazionale: vice ministro dell’istruzione universitaria, coordinatore di consiglieri presso l’ufficio presidenziale e presidente del Consiglio IESALC UNESCO (che si occupa di istruzione superiore).

Ha un sito personale ricco di interventi, dove, tra l’altro, è possibile leggere informazioni più approfondite sul suo percorso di studioso e militante.

La video intervista di cui qui proponiamo la traduzione è stata pubblicata nel 2017 sul canale youtube del portale di pedagogia “Otras Voces En Educación. In questo articolo l’autore presenta sinteticamente un concetto da lui coniato, quello di “blackout pedagogico globale” (Apagón Pedagógico Global), ampiamente trattato nel libro Apagón Pedagógico Global. Las instituciones educativa en la cuarta revolución industriale y la era de la singularidad (Editorial Global, 2018), messo a disposizione dall’autore sul sito del Centro de Investigación Clacso-RIUS (clicca qui).

Tale concetto ricalca il concetto di apagón cultural, che è stato coniato negli anni ‘70 per indicare la condizione della vita culturale sotto la dittatura di Pinochet, durante la quale fu soppressa ogni libertà di espressione e opposizione culturale al regime. In sintesi l’Apagón Pedagógico Global si articola in 5 punti: frammentazione pedagogica; svalorizzazione istituzionale e sociale della figura del docente; svalorizzazione della scuola; riduzione dell’insegnamento e della valutazione scolastica a due aree cognitive (logico-matematica e letto-scrittura); riducendo il contenuto dell’apprendimento alla scienza e limitando la pratica all’uso strumentale delle tecnologie, con il corollario che tutti gli altri apprendimenti sono di secondo ordine.

Luis Bonilla-Molina sta svolgendo da tempo un lavoro militante che lo ha portato a coniugare impegno politico e impegno teorico, ed è una delle figure più interessanti della pedagogia critica, ossia di quel vasto ambito di confronto teorico e politico che attraversa tutta l’America Latina e anche il mondo anglosassone, cercando di combattere l’ultradecennale attacco del neoliberismo alla scuola.

Crediamo che quanto esposto sinteticamente in questa video-intervista abbia un’importanza rilevante per diverse ragioni. Tra le tante, ne vogliamo elencare solo alcune:

1) inquadra storicamente i cambiamenti epocali del mondo della formazione all’interno di una lunga serie di trasformazioni che stanno modificando le forme della socialità;

2) ci aiuta a leggere il contesto in cui si inserisce l’introduzione della didattica a distanza;

3) ci mostra come i veri soggetti della governance mondiale della scuola sono gli organismi internazionali come OCSE, FMI, Banca Mondiale (le cui indicazioni sono alla base anche dell’attuale gestione dei governi nazionali dell’emergenza sanitaria);

4) il concetto di “depedagogizzazione” (da lui coniato) aiuta a leggere bene il percorso storico di distruzione di una visione unitaria dei problemi complessivi sull’educazione.

La pedagogia non è una scelta metodologica individuale di un insegnante, ma è un ragionamento complessivo che mette insieme il rapporto tra individuo e società, tra società e natura, e tra società e finalità complessive. Luis Bonilla-Molina intende portare il ragionamento e la critica pedagogica allo stesso livello a cui, in Italia, lo aveva portato Antonio Gramsci. Non è un caso che Gramsci oggi sia una delle figure di riferimento della pedagogia critica in America Latina e nel mondo.

Ringraziamo l’autore per averci dato il consenso alla pubblicazione.

* * *

Contesto economico

Il blackout pedagogico globale ha una cornice di ordine economico. Dopo la Seconda Guerra Mondiale la maggior parte dei paesi altamente sviluppati erano distrutti. Per riattivare la macchina capitalista si decise di ampliare il numero dei consumatori. Da qui tutta la questione della massificazione del sistema scolastico, però si dovevano fare imponenti investimenti in infrastrutture: autostrade, strade, porti, aeroporti per far arrivare le merci il più vicino possibile ai centri di consumo. Questo modello funzionò più o meno fino agli anni ‘70.

Negli anni ‘70 arriva la crisi di sovrapproduzione e nel capitalismo si produce una modificazione immediata: si crea il concetto di rapida obsolescenza delle merci, affinché quanto comprato si distrugga dopo 5, 6, 7 o 10 anni al massimo.

È in questo momento che nasce il concetto di centro commerciale, rappresentato magistralmente da Saramago nel romanzo La caverna. Con esso si distrugge il piccolo commercio e si attua la ricollocazione del consumo nei centri commerciali.

Questo modello funziona più o meno bene fino al termine degli anni ‘90 e l’inizio del XXI secolo. Oggi la tendenza del nuovo modello di consumo è quello del consumo online. Tutto è stato progettato per non andare più nei centri commerciali e per ricevere le merci direttamente a casa.

In una prima fase di questo processo si ha l’eliminazione dei punti vendita. McDonald’s negli Stati Uniti ha annunciato che sostituirà tutti i centri di vendita con dei robot. Ma questo è solo l’inizio degli sforzi tecnologici per chiudere il consumo nei centri commerciali e promuovere il consumo online. Il consumo online è una riconfigurazione della relazione merce-consumo.

Contesto politico

Un’altra cornice del blackout pedagogico globale è di ordine politico. C’è stato un profondo cambiamento nel modello di partecipazione politica. Per la generazione precedente al 1985 la sede di partito era il luogo naturale dello sviluppo delle relazioni politiche. Ma non era solo un fatto ideologico, era il luogo dove ci si incontrava, dove si parlava e si conosceva il mondo presente e si immaginava quello futuro.

Con lo sviluppo tecnologico che inizia nel 1985, la rivoluzione di internet degli anni ‘90 e la connettività della rete social tutto ciò sta cambiando profondamente. Oggi non c’è nessuno che aspira a diventare presidente, primo ministro, sindaco, dirigente di un sindacato la cui preoccupazione primaria sia aprire una sede di partito.

La prima decisione è crearsi un account twitter, instagram, facebook, cioè promuovere virtualmente la propria candidatura. Tutto ciò è legato al modello di partecipazione civile. Ogni giorno i cittadini vogliono conoscere la realtà politica sui social, e le consultazioni si moltiplicano su chi può essere un candidato papabile o quale deve essere la decisione politica migliore su un determinato argomento, il tutto via social.

Podemos, che è il partito più innovativo nella politica degli ultimi anni, ha scelto il suo comitato esecutivo non nelle sedi di partito, ma tramite la rete. Questo è un fenomeno che interessa la destra e la sinistra e sta riconfigurando la partecipazione politica, che non avviene più nelle sedi locali di partito, o nelle strade o piazze, ma a casa. Siamo davanti alla ricollocazione dello spazio della politica in casa.

Contesto sociale

Il blackout pedagogico globale ha anche una radice di ordine sociale. Per le generazioni precedenti al 1985 la strada era uno spazio di socializzazione. La prima cosa che dovevano imparare i nostri genitori era chiudere per bene la porta di casa, per evitare che i piccoli scappassero a incontrare i gli amici, a giocare con la trottola, con gli aquiloni, con i colori o con qualunque altra cosa.

Oggi ai bambini si può lasciare aperta la porta, ma difficilmente usciranno. È difficile convincerli a farsi accompagnare a un centro commerciale o a fare una passeggiata per strada. A ogni nostro invito a uscire l’unica risposta che riceviamo è di lasciar loro la casa connessa a internet e con i videogiochi.

Avviene dunque una ricollocazione anche dello spazio di socializzazione. Dalla generazione dell’85 in poi la casa è il nuovo spazio di socializzazione e la rete virtuale sta avendo un forte impatto sull’immaginario e sul modo di prefigurare la società del XXI secolo.

La tecnologia

Il blackout pedagogico globale ha un riferimento particolare nella tecnologia. Non sono nemico della tecnologia. Sono profondamente convinto che la pedagogia del XXI secolo deve abbracciare lo sviluppo tecnologico, ma la tecnologia del XXI secolo non ama la pedagogia. Per essere più concreto: tutte le tecnologie che si sono sviluppate negli ultimi decenni hanno avuto come fine quello di rilocalizzare adulti e bambini dentro le mura sicure della casa.

Si sta promuovendo una sorta di stato virtuale, conformandoci tutti alla tranquillità della casa dove viviamo: tutti oggi possiamo partecipare, scrivere una mail, giocare da casa. Anche la sicurezza è vissuta in maniera tecnologica, con le telecamere istallate nelle nostre case, e con tutte le apparecchiature con cui possiamo governare la casa. Quindi la casa è il luogo dove vivere, dove troviamo sicurezza e dove possiamo incontrarci, ma virtualmente.

Depedagogizzazione”

Un capitolo speciale del blackout pedagogico globale è la “depedagogizzazione”. Come si manifesta? Per il capitalismo erano pericolose le pedagogie come interpretazione dei fatti educativi nella loro complessità che mettesse l’aula scolastica in relazione con la comunità, con l’ambiente circostante, col progetto paese, col contesto geopolitico internazionale. E inizia così un’operazione di smembramento della pedagogia in ciò che ho chiamato “mode pedagogiche”.

Non dico che negli anni ‘50 non si dovesse parlare di pedagogia, ma il centro della discussione stava nella didattica e bisognava parlare solo di questa, non di pedagogia. Negli anni ‘60 si disse nuovamente che non bisognava parlare di pedagogia ma di supervisione della formazione, di direttori di formazione, di pianificazione.

Negli anni ‘70 continuò l’attacco alla pedagogia, divenne una brutta parola e fu sostituita dalla valutazione, che divenne il centro del fatto educativo. Iniziò così il dibattito tra valutazione quantitativa e valutazione qualitativa.

Negli anni ‘80 fece la sua comparsa la moda pedagogica più duratura, quella del curricolo. Si parlò prima del curricolo per obiettivi, il curricolo per contenuti, poi di curricolo interdisciplinare, poi di curricolo totale, globalizzato e infine di curricolo per competenze.

Nel 2008 infine è arrivata la moda della qualità educativa e dei sistemi di valutazioni, che non ha niente di pedagogico. La pedagogia è qualcosa di superato per gli organismi internazionali, qualcosa da seppellire, perché si è frammentata la visione complessiva del fatto pedagogico.

Oggi la sfida per insegnanti ed educatori, per le università che formano i futuri docenti, dei centri di formazione degli insegnanti è tornare a collocare la pedagogia al centro della trasformazione dei sistemi educativi. Mai come oggi la pedagogia torna al centro della trasformazione dell’educazione in diritto umano fondamentale.

La svalorizzazione del docente

Il blackout pedagogico pone un’attenzione particolare alla professione docente. Gli organismi economici internazionali stanno facendo uno sforzo enorme per destrutturare la figura del docente. Da qualche decennio a questa parte con diverse iniziative a partire dagli anni ‘70 si è iniziato a dire che non era corretto chiamarli maestri, che era arrogante, che nessuno era professore e che la parola corretta era facilitatore, nonostante ci fossero istituzioni che formavano maestri e professori e che ci fossero titoli riconosciuti per questa professione. In realtà quello che si voleva fare era tagliare le risorse alla formazione dei docenti e minare il loro orgoglio.

A questo si aggiunse un falso slogan secondo il quale nessuno insegna niente e nessuno apprende nulla con gli insegnanti, mentre come diceva Paulo Freire nessuno apprende da solo, ma tutti apprendiamo insieme e costruiamo collettivamente la conoscenza.

Questo ci dice molto della dialettica della relazione di apprendimento e potenzia la funzione del maestro. Ma nel XXI secolo lo sviluppo delle tecnologia mette a rischio il ruolo della funzione docente. In alcuni sistemi educativi si abilita all’insegnamento qualunque figura professionale.

Negli Stati Uniti sta accadendo qualcosa di terribile, la segretaria dell’istruzione Betsy De Vos sostiene che bisogna spostare l’insegnamento a casa e che gli attuali sistemi scolastici non hanno più ragione di esistere con l’attuale sviluppo tecnologico, perché saranno sufficienti dei buoni video per fare apprendere i ragazzi, come se il lavoro dell’insegnante consistesse solo nel trasferimento di conoscenze e non, più in generale, educare a vivere.

I docenti del XXI secolo devono affrontare questa sfida producendo scienza e lavoro educativo ma attualizzandoli. Devono impadronirsi dello sviluppo tecnologico, sì, ma per resistere a questa nuova offensiva del capitale contro la professione dell’insegnante.

La destrutturazione della scuola

Per il blackout pedagogico globale la scuola è uno spazio da destrutturare. La scuola, così come la conosciamo noi con quattro pareti, i banchi, la lavagna e un insegnante, per il capitalismo è un costo eccessivo al quale vuole porre rimedio con la ricollocazione a casa dell’azione educativa.

La Banca interamericana di Sviluppo nel 2014 sosteneva che occorresse invertire la piramide dell’apprendimento collocando la formazione a casa ricorrendo a video tutorial. Io sono profondamente convinto che una generazione che non ha spazi di incontro (piazze, strade, scuole) è una generazione che può arrivare a costruire una non-società.

Perché possa esistere una società è fondamentale l’incontro tra le persone. E in tal senso la scuola gioca un ruolo insostituibile, ma la scuola del XXI secolo dovrebbe insegnare ad apprendere insieme, a lavorare insieme e a vivere insieme.

Educazione e trasformazione sociale

Negli ultimi anni ho avuto la possibilità di incontrarmi con insegnanti di molti paesi: Messico, Nicaragua, Honduras, El Salvador, Brasile, Argentina, Perù, Venezuela, Colombia, e in tutti ho trovato la profonda speranza nella capacità di trasformare il mondo e la società per mezzo dell’educazione.

L’educazione come diritto umano fondamentale sta al centro della scommessa per costruire un altro mondo possibile, più solidale, più umano, più capace di rapportarsi in modo armonico con la natura e con gli altri esseri umani.

Per questo è fondamentale denunciare e combattere l’intento degli organismi economici internazionali di creare un blackout pedagogico globale.

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