Manaus, una città allo stremo, chiede aiuto al G20
Hanno fatto scalpore in questi giorni le dichiarazioni del prefetto di Manaus, Arthur Virgílio Neto, che in aperta polemica con il governo centrale, ha detto piangendo che rivolgerà un appello ai leader del G20, dal momento che tutti sono debitori nei confronti dell’Amazzonia che mantiene il calore del pianeta con le sue foreste.
Di sicuro c’è solamente che il 90% dei casi di Covid 19 nella regione sono concentrati qua nella capitale, dove si registrano quasi 3500 contagi su un totale di circa 4000.
Esiste poi un enorme confusione, come sempre, sulle cifre dei decessi effettivi per coronavirus. Le morti ufficiali sono 320 ad ora, ma quelle sospette nelle ultime settimane a Manaus ammontano a 1250. Per mancanza di tamponi, è impossible appurare se siano effettivamente dovute al nuovo virus o ad altre malattie che causano febbre e, anche se più raramente, complicazioni polmonari; come la dengue per esempio, che in Amazzonia imperversa a causa delle punture da parte della zanzara Aedes Aegypti.
Questa bastarda con i puntini bianchi sulla livrea (in Italia è conosciuta come zanzara-tigre) è portatrice anche del virus Zika e della febre amarela, la febbre gialla, che ogni tanto si affaccia in Sudamerica.
Ad ora, la capienza totale dei posti letto è pressoché esaurita, siamo al 98%, così come quella dei cimiteri, che allo stato attuale sono sostituiti dalle trincheiras, le fosse comuni che assomigliano a trincee di guerra dove vengono seppelliti i corpi che non trovano posto nel camposanto.
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In realtà Neto, invece di piagnucolare davanti agli schermi, avrebbe parecchie cose da spiegare sulla sua passata amministrazione: ha sostituito il 1 gennaio 2013 Amazonino Mendes, l’ex prefetto PT (Partido Trabalhadores) che aveva subìto un infarto l’anno precedente.
Mendes lasciava in eredità una città che funzionava, nonostante la storica povertà che l’ha sempre contraddistinta da quando il commercio del caucciù era decaduto nel dopoguerra, sostituito però dalla zona franca industriale decretata alla fine degli anni 60, e dallo snodo del traffico fluviale nel punto di confluenza tra Rio Negro e Rio delle Amazzoni, che favorisce anche il turismo d’élite dei brasiliani ricchi di Rio e São Paulo, i quali erano soliti partire da Manaus per inoltrarsi con dispendiose escursioni nella foresta amazzonica.
Senza dimenticare la piattaforma petrolifera della Petrobras, la compagnia parastatale, poi travolta dagli scandali di corruzione sotto lente nell’inchiesta Lava Jato.
Con Neto, la città ha subito un lento ma costante deterioramento da cui non si è più ripresa. L’inquinamento dovuto agli scarti industriali e al petrolio è aumentato, diventanto un brodo di coltura ideale prima per le larve di zanzara e poi per il virus Sars-CoV-2.
Con il crollo dei prezzi delle commodities legate al greggio, anche quel poco di welfare che rimaneva è crollato, e a livello sanitario il prefetto non si è mai curato di sollecitare interventi che potessero ampliare l’obsoleto ospedale pubblico 28 de Agosto, il quale oltre alla carenza di posti letto, e alla necessità di apparecchiature tipo respiratori e quant’altro, lamenta anche frequenti black-out elettrici.
Nel 2018, si dovette muovere di sua iniziativa la SUSAM (Secretaria de Estado de Saúde) per portare da 32 a 40 i posti letto nella Unità di Terapia Intensiva, vitale per assistere i casi più gravi della pandemia. 40 posti a fronte di una popolazione di 2,1 milioni!
Se Sparta piange, Atene non ride: 50 milioni di R$, il budget federale a disposizione della sanità per produrre dispositivi di protezione, gel alcolico, ventilatori polmonari e respiratori: con il cambio 1 € = 5,7 R$ fanno 8,77 milioni di euro; un’inezia per una nazione di 210 milioni di abitanti.
Una boccata d’ossigeno potrebbe però venire da STF (Supremo Tribunale Federale) il quale ha disposto che una parte dei fondi di risarcimento alla Petrobras ricavati dai beni sequestrati ai condannati nell’inchiesta Lava Jato, siano dirottati sulla lotta contro il Covid 19. Si tratta di 1,6 miliardi di reais, circa 280 milioni di euro.
Manovre di regime
Durante una manifestazione pro governo, violando lui stesso l’isolamento nazionale, un Bolsonaro in T-shirt a bordo di una camionetta scoperta – stile ducetto sudamericano classico – ha arringato i sostenitori più estremisti davanti alla sede dell’esercito a Brasilia, interrompendosi poi per un attacco di tosse.
Avallando gli striscioni che ricordavano l’intervento militare del 1968 – quando con l’atto Al-5 l’esercito chiuse di forza il Congresso, ufficializzando la dittatura – ha anticipato in pratica la campagna elettorale del 2022, visto che la sua pessima gestione della pandemia in corso lo vede in netto calo nei sondaggi.
Nonostante il coro di condanna dei suoi nemici – dal presidente della Camera Rodrigo Maia, ai governatori di São Paulo e Rio João Doria e Wilson Witzel fino al ministro Barroso della Corte Suprema – egli conta sul fatto che la richiesta di impeachment già depositata, per via dei passaggi necessari per l’approvazione definitiva (prima votazione alla Camera, passaggio al Senato in caso di esito favorevole, e votazione finale sempre al Senato sotto la supervisione del presidente del Supremo Tribunale Federale) gli consenta comunque di andare avanti nel frattempo, poiché l’eventuale sospensione avverrebbe solo dopo la 2° votazione al Senato.
E se invece la richiesta fosse bocciata già alla Camera, Bolsonaro potrebbe presentarsi alla nuova candidatura, in veste di eroe agli occhi dell’opinione pubblica.
Intanto, dopo che anche il ministro di Giustizia Sérgio Moro ha dato le dimissioni non sopportando più le sue interferenze, Bozo ha già contattato i partiti di centro allettandoli con cariche e favori, ai fini di evitare tale procedimento.
Proprio lui, il paladino dell’anti-corruzione.
Lunedì 27 aprile, O Movimento Brasil Livre ha intanto protocollato alla Camera la richiesta di impeachment nei confronti di Bolsonaro, per crimini contro i diritti sociali e individuali.
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Sostentamento in tempi di quarantena
Ma aldilà di queste manovre di regime, il paese reale è un altro.
La chiusura delle attività commerciali e delle fabbriche è stata prorogata fino al 4 maggio.
Il pagamento degli aiuti d’emergenza per i lavoratori fermi, R$ 600 mensili a testa per tre mesi, che possono arrivare a 1200 in caso di nucleo familiare – due coniugi o madre single con figli a carico – è iniziato in ritardo, il 17 aprile, con l’accredito della 1° tranche su un conto speciale.
Le altre due tranches saranno versate il 30 aprile e il 30 maggio. Ne hanno fatto richiesta 50 milioni di cittadini, anche a fronte dei numerosi licenziamenti già in atto.
A Bahia il governatore Rui Costa ha annunciato che lo stato concederà tre mesi di energia elettrica gratuiti, fino a un totale di 100 KW per famiglia.
Eppure in Brasile molti resteranno fuori da questi benefici, basti pensare ai venditori ambulanti o alla comida de rua, attività commerciali basilari per il sostentamento delle classi minori, sovente escluse dal welfare. La forzata inattività le impoverisce giorno dopo giorno, e molti infrangono i divieti per necessità.
Il lavoro più ingrato – sia sotto il punto di vista del compenso che del rischio contagio – ma in tempi di coronavirus pressoché indispensabile, è il rider che porta da mangiare a casa della gente, ora che ristoranti e bar sono chiusi.
Giorno e notte, sfrecciano ragazzi con il borsone termico di Uber Eat sulla schiena, quelli che possono permettersi una moto o almeno una bicicletta. Sono in genere più scuri di carnagione dei loro clienti bianchi del ceto medio-alto: questi brasiliani di serie B fanno il lavoro che da noi era svolto dei migranti neri, la cui presenza è stata ridotta dagli editti salviniani.
La questione razziale è sempre determinante nel posizionare il popolo sui gradini della piramide sociale brasiliana, secondo il censo e le tonalità di colore della pelle. Meno soldi si ha, e più sotto si sta, specie se si è pretos e pardos, neri discendenti da africani, o meticci nati da unioni tra neri e bianchi, o tra neri e indios.
E Salvador da Bahia ne è la prova del nove: proprio nella capitale dello stato di Bahia, dove la maggioranza preta negra e preta parda è schiacciante nei numeri – su 2.900.000 abitanti, 2.400.000 sono neri e meticci con una minoranza amerinda, che ha sangue europeo e indio. Solo poco più di mezzo milione è branco (bianco).
Ma come avviene in Sudafrica, che è il parametro più indicato per capire Salvador, sono i bianchi che possiedono praticamente tutto, e gli altri si adattano al loro servizio.
La città è divisa in due, il centro balneare nei quartieri di Ondina, Barra e Rio Vermelho, è tirato a lucido, con centri commerciali multipiano e una vita notturna spumeggiante tra bar, ristoranti e locali notturni, almeno prima del coronavirus, ma frequentata solo dal ceto medio-alto dai lineamenti europei.
Mentre sia nello storico Pelorinho, patrimonio UNESCO e cuore dell’arte baiana, così come nelle periferie vicine all’areoporto di Mar Brasil e Stella Mária, il degrado, la sporcizia e la criminalità sono esponenziali, poiché questi quartieri sono abitati dai neri e nessuno del municipio se ne cura, tantomeno gli stessi residenti, ormai abituati a vivere così da sempre, in mezzo a monnezza e latrine a cielo aperto, con l’olezzo delle urine che ammorba chi ci capita per caso.
Da anni il Pelorinho di notte è chiuso per motivi di sicurezza, togliendo così ai Baiani poveri pure quel cash-flow e quel poco di svago che restava loro. Per cui a costoro “o fechamento” delle attività sociali causa virus, ha cambiato ben poco.
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Bolsonaro ha stravinto le scorse elezioni non solo per l’appoggio della lobby evangelista radicale da sempre punto di riferimento della borghesia bianca brasiliana, e neppure per la corruzione dilagante all’interno dei partiti storici istituzionali, di sinistra come il PT (Partido Trabalhadores) e di centro con inclinazioni destrorse, quali PMDB e PSDB, socialdemocratici solo di nome.
Ce l’ha fatta innanzi tutto per la mancanza di visione dei cosiddetti progressisti: Lula aveva risollevato (dopo aver vinto le elezioni nel 2003) le sorti economiche del Brasile, sfiancato dalla cura da cavallo a base di austerity e privatizzazioni a manetta imposta da FMI, che aveva prestato al governo di FHC (Fernando Henrique Cardoso) 42 miliardi di dollari.
Era riuscito anche a diminuire il tasso di povertà che aveva raggiunto picchi di miseria insopportabile, imbastendo sui presupposti abbozzati da FHC un welfare solido, basato su una serie di programmi sociali, Bolsa Familia e Fome Zero, che avevano consentito la sopravvivenza e un tetto sulla testa a centinaia di migliaia di excluídos nelle favelas.
Non è stato certo un percorso facile, e sicuramente il ceto medio a livello imprenditoriale è quello che ha saputo approfittare meglio della ripresa economica brasiliana, grazie anche alle risorse energetiche e al costo alto allora delle commodities sul mercato internazionale.
I successori di Lula, abbagliati dal nuovo Eldorado e dalle bustarelle delle multinazionali locali e non, sono gradualmente ricaduti nell’inganno del liberismo economico che aveva già portato la nazione al collasso sotto FHC, e dal punto di vista sociale hanno tralasciato – a mio parere volutamente, facendo parte anch’essi della borghesia – la cosa più importante: adeguare i salari della classe lavoratrice all’indice in continuo crescendo del costo della vita.
Specie se si pensa che ancora oggi il salario minimo è meno di 200 €, a fronte di un costo della vita che, dopo il Cile, è uno dei più alti in Sudamerica a livello di istruzione e sanità private.
Il servizio sanitario pubblico era già ridotto ai minimi termini allora, per cui è inevitabile che adesso COVID lo stia martellando, infierendo in particolare sui dipartimenti regionali più arretrati come quelli dell’Amazzonia e Mato Grosso.
Anche l’alimentazione brasiliana è stata sempre oggetto del “razzismo nutrizionale”, come potremmo definirlo, fin dai tempi delle colonie portoghesi.
La carne bovina per i suoi costi, nonostante i capi di bestiame sterminati, è accessibile solo al ceto medio-alto, e ai poveri cristi non rimane che carne di porco e zampe di gallina per fare il brodo.
La sinistra istituzionale in BR, oltre a prostituirsi al liberismo economico delle multinazionali che hanno devastato l’ecosistema amazzonico – vedi gli orrori tuttora impuniti in Minas Gerais dopo il crollo delle dighe di Mariana e Brumadinho proprietà del colosso Vale, 2°produttore mondiale di ferro, che ha causato pure 300 vittime – è venuta meno al suo primo dovere: CREARE UNA COSCIENZA DI CLASSE NEL PROLETARIATO BRASILIANO.
Il quale, essendo in maggioranza meticcio e nero, avrebbe dovuto essere accompagnato dalla consapevolezza dell’orgoglio razziale che ad esempio gli indios non hanno mai perso, pur essendo stati trucidati in massa nel corso della storia del Brasile.
La vita agreste: Tibullo docet
In questi giorni di esilio volontario nell’entroterra del Paraiba, dove i numeri del contagio sono minori rispetto alle metropoli, l’unico svago che mi concedo sono le fughe nei centri rurali, a una cinquantina di Km. dalla città di Campina Grande.
I più conoscono la capitale João Pessoa, meta ambita dai brasileiros benestanti del Sud per via delle spiagge di Tambaú, Jacumá, Coquerinho, e Tambaba, ma il Paraiba autentico è qui in campagna.
Il termine “paraiba” in Brasile è perlopiù usato in senso dispregiativo.
Nel celebre film Cidade de Deus, che tratta delle guerre tra gang per il controllo della droga nell’omonima favela, viene citato dai “soldati” dei boss per deridere i campagnoli che emigrano dal Nord Est per andare a lavorare a Rio.
In realtà, a Lagoa Seca, Alagoa Nova, Areia, ect. si viaggia nella macchina del tempo, come se tornassimo indietro nel nostro dopoguerra degli anni 50.
Tranne Areia, che in tempi normali accoglie anche turisti che vanno a fotografare le capanne dipinte nella Comunidade De Quilombolas – i discendenti degli schiavi afro – gli altri paeselli vivono esclusivamente di quello che producono.
Le cooperative agricole e di allevamento, tutte familiari, provvedono al 50% del fabbisogno di carni, pollame, fagioli, manioca, riso, frumento, frutta e formaggio per l’intero stato. Il governo concede sovvenzioni minime, che coprono appena il 16% dei produttori. Eppure in Brasile, queste famiglie forniscono ai mercati l’80% della produzione nazionale di fagioli e manioca, 34% di riso, 21% di frumento, 55% di carne suina e frango (pollo).
Qua il virus non ha vita facile, per via dell’isolamento naturale, il clima caldo e secco, e l’assenza di inquinamento.
Mantenendo l’allevamento tradizionale, si è potuto evitare il rischio di trasmissione di malattie provenienti da animali selvatici quando i loro habitat sono invasi, come successe con la peste suina e l’influenza aviaria degli anni passati in Cina.
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La gente continua la propria vita come se niente fosse, ci sono tre negozi in paese: una cartoleria che vende quaderni e libri di scuola, una farmacia e un fornaio.
Giornali e TV accese non ne vedo, per cui panico zero.
Tibullo nei suoi tre libri di Elegie, loda la vita di campagna, maledicendo la guerra e gli amanti infedeli (ne ha tre: due donne, Delia e Nemesi, e un ragazzo, Marato, che lo cornificano alla grande, ma anche lui non scherza.) “Un altro accumuli pure oro luccicante, e possieda ettari sconfinati di terra, e Marte faccia squillare pure le sue trombe. A me è cara la povertà, che però attraverso una vita frugale, illumina il mio cuore di una luce instancabile“.
La vita nei campi è dura, ma dignitosa.
Meglio qui che lavorare sotto padrone a meno di 200 € al mese, vivendo dentro una lurida favela, per finire magari ammazzato dalla dengue o da un proiettile vagante.
Meglio la vita agreste, di una vita agra.
(Testi e foto @ Flavio Bacchetta Copyright)
Pubblicazione originale: https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/04/21/brasile-bolsonaro-arringa-la-folla-nostalgica-della-dittatura-ma-il-paese-reale-e-un-altro/5776846/
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