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Si sgonfia subito il “recovery fund”

La differenza tra annunci e fatti è sempre clamorosa, ma mai quanto per le vicende dell’Unione Europea. Non poteva fare eccezione la presentazione della proposta di recovery fund, avvenuta ieri da parte della presidente della Commissione (il “governo” UE), Ursula von der Leyen.

Partiamo ovviamente dagli annunci, come sempre trionfalistici e ad alto tasso di “europeismo” apparente: 750 miliardi, il 50% in più di quanto previsto nella bozza concordata tra Angela Merkel ed Emmanuel Macron. Parte in grants (trasferimenti a fondo perduto, ma condizionati secondo il tipo di utilizzo) e parte in prestiti. Per l’Italia ce ne sarebbero in totale 172 (80 di sussidi, 90 di prestiti), quasi il 10% del Pil. Quanto basta per brindare, no?

Dal lato dei fatti, chi conosce i meccanismi e i trattatati Ue (come Carlo Calenda) precisa a mezza bocca che di miliardi veri – ossia in più – ce ne sono solo 26 (massimo 28, secondo altri). Il perché è relativamente semplice: questi fondi sono sostanzialmente il bilancio europeo dei prossimi anni, dunque verranno costituiti con i contributi pro quota dei singoli Stati. La differenza tra il da versare e il ritirabile, nel caso dell’Italia, si aggira appunto intorno a quella cifra: 26-28 miliardi.

In un certo senso si può parlare di “successo” solo perché, per la prima volta, l’Italia non sarebbe un “contributore netto”, ossia un Paese che versa più di quanto prende, com’è stato finora.

Fine dei “successi”.

Stando ai fatti, anche questo nuovo piano – ribattezzato Next Generation, tanto per ribadire la chiave retorica che verrà usata ancora una volta (“lo facciamo per i giovani”) è per ora solo una proposta. Fino al 21 giugno le varie cancellerie del Vecchio Continente si scontreranno sopra e sotto i tavoli di trattativa per limare, aggiustare, correggere, redistribuire diversamente e soprattutto vincolare quei fondi a “riforme strutturali”.

La parte del “cattivo” è affidata di default ai Paesi definiti “frugali” (Olanda, Austria, Danimarca e Svezia, gli ultimi due fuori dall’euro), mentre la Germania stavolta di colloca tra i “mediatori”. Ma solo gli ingenui cronici possono credere che quattro Stati che insieme “contano meno dell’Italia da sola” (come è arrivato a dire nei giorni scorsi persino il diplomaticissimo Giuseppe Conte), e che soprattutto dipendono largamente dalle interconnessioni economico-finanziarie con la Germania, possano davvero pensare di condizionare una trattativa continentale senza giocare di sponda con Berlino.

Inutile però perdersi nelle ipotesi sul “come finirà?” (possiamo solo prevedere che ci sarà un compromesso al ribasso, che attenuerà le presunte “concessioni” ai paesi più colpiti dalla pandemia e dunque anche dalla crisi che ne sta derivando: Italia, Spagna, Francia), più logico attenersi al testo della bozza von der Leyen, che alleghiamo in fondo.

Iniziamo dalla tempistica. Non arriverà un euro prima di gennaio, se tutto va bene e se la trattativa non si incaglia. Dal 1 luglio comincia infatti il “semestre tedesco”, il periodo in cui la guida dell’Ue spetta alla Germania e dunque alla stessa Merkel. Una posizione di relativa forza che dovrebbe facilitare la ricerca del “compromesso”. In ogni caso vanno deluse le speranze del governo italiano che puntava ad avere alcuni via libera già da fine giugno. “È chiaro che le trattative saranno difficili e non saranno chiuse già al prossimo Consiglio europeo”, Merkel dixit e morta lì.

E qui si comincia a parlare di vincoli sull’uso dei fondi. La proposta di von der Leyen prevede esplicitamente di legare le risorse ad un piano di “investimenti e riforme” che – bontà sua – potrà essere elaborato dai singoli Stati, poi presentato a Bruxelles e infine approvato anche da tutti gli altri Stati membri in Consiglio europeo.

Un piano che naturalmente dovrà essere in linea con le regole del Patto di Stabilità (momentaneamente sospeso per l’emergenza) e le “raccomandazioni” che la Commissione prescrive per ogni paese (ai sensi del Fiscal Compact, del Six Pack e del Two Pack, ossia la procedura di formazione delle leggi di stabilità nazionali).

Si tratta delle regole che già conosciamo, quelle dell’”austerità”, che in questo modo risulta sospesa per l’anno in corso (cause di forza maggiore), ma sulla porta nei prossimi anni (anche se magari non già dal 2021).

C’è poi il capitolo complicatissimo di come finanziare questo Next Generation Fund. Non si possono chiedere ora soldi ai singoli Stati, visto che bisogna invece dargliene. Dunque ci saranno diverse emissioni di bond garantiti direttamente dalla stessa Unione Europea (come avviene per la Bei, il Mes, ecc). Titoli con “tripla A”, assolutamente sicuri agli occhi dei mercati e dunque a tasso di interesse bassissimo e dalla durata lunghissima (30 anni, ma anche di più).

Non si tratta esattamente di eurobond, però, perché gli interessi e la restituzione finale saranno a carico comunque degli Stati, anche se non proprio secondo le aliquote storiche (di qui nasce quella differenza di 26-28 miliardi nel caso dell’Italia).

Quanto basta per far incazzare i “frugali” e la destra interna tedesca, ma ben poco per cambiare la situazione di Italia, Spagna, ecc, che vedranno così salire alle stelle il proprio debito pubblico.

Allo studio anche alcune “tasse europee” per rastrellare risorse. Con i problemi tipici di ogni nuova forma di tassazione. La carbon tax, per esempio, è sgradita alla Polonia e altri paesi dell’Est (che anche di esportazioni di carbone campano), mentre la digital tax aumenterà i contrasti con gli Usa, visto che riguarderebbe soprattutto i giganti dell’informatica della Silicon Valley (più Huawei e pochi altri).

Finché ci sarà Trump alla presidenza, è prevedibile che una tassa del genere verrebbe “compensata” con sanzioni e aumento dei dazi. Ma l’unica alternativa alle tasse (dazi) verso merci extraeuropee è l’aumento della pressione fiscale interna ai vari paesi Ue. Scontentando così sia l’elettorato dei “frugali” (che si sentirebbe chiamato a regalare soldi alle “cicale” mediterranee), sia quello dei “beneficiari” (che si vedrebbero togliere con una mano quel che viene teoricamente dato loro con l’altra).

In teoria, il nuovo fondo dovrebbe contribuire non tanto a salvare settori economici “maturi” e semi-sconquassati dall’attuale crisi, quanto a promuovere green economy, nuove tecnologie, modernizzazione della sanità, istruzione e altri capitoli tutti da definire. Non è detto insomma che paesi come Italia, Spagna, Portogallo, Grecia, ecc, possano offrire garanzie di sviluppo in questi capi tali da soddisfare le richieste europee per l’erogazione dei fondi.

In quel caso a beneficiarne sarebbe chi oggi si mostra più cauto (Germania e Francia, in prima fila) o addirittura contrario (i “frugali”).

In estrema sintesi, per essere una “grande risposta europea all’emergenza” si può dire che certamente non è abbastanza “grande”, non è per niente rapida (e da settembre, quando scadranno gli ammortizzatori sociali straordinari messi in campo fin qui da alcuni governi, compreso quello Conte, faremo tutti i conti con la durezza della scarpata in cui siamo precipitati), è sicuramente molto condizionata e – dettaglio non secondario – ancora tutt’altro che certa. Dunque, niente affatto all’altezza della crisi sistemica che il mondo intero sta affrontando.

Vale la pena, qui di riportare il giudizio di un “europeista deluso” come Yanis Varoufakis, raccolto da La Stampa.

Qualcuno dirà che l’Europa finalmente si sta muovendo veloce. Ma la direzione è sbagliata“, spiega l’ex ministro delle finanze dei primo governo Syriza (quello abbattuto dalla Troika e dalla resa di Tsipras).

E chiarisce la portata della partita politica in atto: “eravamo a un incrocio: da una parte l’integrazione finanziaria e politica, dall’altro lo sgretolamento dell’Ue.E abbiamo preso la direzione sbagliata“. Il piano di von der Leyen, in altri termini, non è un passo in avanti verso la condivisione comunitaria di rischi e progetti ambiziosi, ma la perpetuazione della vecchia logica orientata dalla concorrenza interna tra Paesi della Ue, in una cornice di trattati che la incentivano.

Per quanto riguarda la parte relativa all’Italia, il giudizio è drastico: “inciderà per circa l’1% del Pil italiano per i prossimi tre anni: un valore insignificante. Tanti miliardi, poi, essendo vincolati a investimenti in settori come le nuove tecnologie, saranno dirottati più su Francia e Germania che sull’Italia. Infine, i prestiti dovranno essere ripagati e, con un debito pubblico che salirà al 200% del Pil, sarà difficile farlo“.

Il nostro strutturale è sempre lo stesso: la Ue ha una banca centrale anomala, costruita per lottare solo contro l’inflazione, ma non abilitata a finanziare gli Stati membri o la stessa Ue. Questo, nelle situazioni eccezionali come l’attuale, impedisce di “monetizzare” debiti e prestiti e costringe cercare capitali sui mercati finanziari. Ossia sotto forma di prestiti da restituire con gli interessi.

Il che si trasforma in una garrota senza fine: hai bisogno di soldi per uscire dalla crisi, li ottieni, ma quando potresti cominciare a riprenderti sul serio ecco che devi cominciare a fare “austerità” interna per restituire quel che hai avuto. Un marcia all’indietro, verso la fossa…

Vero è che la Bce sta acquistando, con il quantitative esasing, anche titoli spazzatura di Stati membri che altrimenti non avrebbero facile accesso ai mercati. Ma questa attività “supplente” di uno Stato che non esiste non può andare avanti all’infinito. E già ora la Corte Suprema tedesca ha messo in discussione la partecipazione della Bundesbank a quei programmi di acquisto. Minando così lo stesso “edificio legale” dell’Unione Europea.

Non per caso Varoufakis chiude la sua analisi paragonando l’Italia al Giappone:  ”E’ uno Stato per certi versi simile al vostro: Paese industriale, votato alle esportazioni con una popolazione anziana. Ma con una sua banca centrale”.

Che non deve perciò depredare la propria popolazione e distruggere il proprio apparato industriale per far contenti partner avidi e gli strozzini dei “mercati”.

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