Gli aspiranti golpisti bielorussi stanno mettendo in piedi un gruppo consultivo per il coordinamento delle azioni con rappresentanti occidentali interessati al rovesciamento di Aleksandr Lukašenko: in maniera meno diretta, è questo quanto ha dichiarato il 19 settembre Anna Krasulina, addetta stampa della “Guaidò” bielorussa Svetlana Tikhanovskaja.
In effetti, già da giorni, una nota del Dipartimento di stato USA, annunciava per il 21 settembre l’incontro a Vilnius del proprio coordinatore per la lotta al terrorismo, Nathan Sales, coi “rappresentanti della società civile bielorussa, per discutere di come gli USA possano sostenere il popolo bielorusso nelle sue richieste di elezioni libere e giuste”.
Ma non c’è solamente Washington a preoccuparsi di “sostenere il popolo bielorusso”. Molto più vicino a Minsk, non fanno mistero delle proprie ambizioni i vecchi occupanti del territorio bielorusso.
Vilnius e Varsavia, memori chi della vecchia Confederazione (l’unione di Regno di Polonia e Granducato di Lituania nella Prima Reç Pospolita, dal XVI al XVIII secolo) che si estendeva dal Baltico al mar Nero e dai Carpazi fin quasi alla russa Smolensk; chi, invece, della II Reç Pospolita (dal 1918 al 1939: ma già senza alcuna unione, anzi, con l’annessione polacca di parti del territorio lituano.
Dal 1989 esisterebbe invece la “III Reç Pospolita”) e delle sue ambizioni “da mare a mare”: Varsavia non fa mistero di considerare “vangelo” i pronostici fatti nel 2010 da George Friedman per l’americana StratFor.
Entrambe, comunque, tanto Vilnius che Varsavia, sono disposte a rappresentare insieme gli interessi generali d’oltreoceano; ma al tempo stesso, soprattutto Varsavia, ansiosa di riprendersi quello che non ha mai smesso di considerare “proprio” e che, per una ventina d’anni, fino al 1939, aveva tenuto sotto il proprio tallone, in barba a tutte le clausole sul rispetto dei diritti nazionali previste dal trattato di Riga del 1921.
Anzi, se le rivendicazioni sulle proprietà nei cosiddetti Kresy Wschodnie – i territori orientali tornati legittimamente a far parte di Ucraina e Bielorussia nel 1939 – rischierebbero di esser contestate dalla legislazione UE, un più vasto controllo completo da parte polacca sull’intera regione può rispondere all’interesse USA di sostituire Berlino con Varsavia quale forte avamposto europeo.
Insomma, nonostante qualche litigio, Polonia e Lituania qualcosa in comune ce l’hanno. Non a caso, si è tenuta di recente a Vilnius una simbolica seduta comune dei due governi, al termine della quale i primi ministri, Saulius Skvernelis e Mateusz Morawiecki, hanno firmato una dichiarazione di sostegno “alle aspirazioni dei bielorussi a vivere in un paese libero e democratico, con la direzione di leader che siano eletti in elezioni libere e giuste”.
Inoltre “Lituania e Polonia si sono accordate per coordinare ancora più attivamente i propri sforzi, anche nei forum internazionali”. Il parlamento lituano ha anche ammonito Mosca e Minsk che non riconoscerà alcun documento firmato da Aleksandr Lukašenko con la Russia.
Ora, è quantomeno ipotesi verosimile, che al Cremlino non vedrebbero male uno “svecchiamento” a Minsk; di sicuro, però, non alle condizioni e coi personaggi dettati da Washington, Varsavia o Vilnius. Detto questo, non si deve d’altra parte nemmeno dimenticare che, pur “alleate” contro “l’aggressore orientale”, le due capitali baltiche hanno non poche reciproche dispute storiche tuttora aperte, a cominciare dalla città di Vilnius, tornata a essere capitale lituana solo nel 1939, proprio grazie a quel “tiranno sanguinario” che risiedeva allora al Cremlino, dopo un ventennio di occupazione polacca; e, di contro, la discriminazione lituana ai danni della minoranza polacca residente.
Ma non ci sono solo i “dirimpettai” ad avanzare pretese. Nella smania di mostrare una “unità d’intenti” cui non credono nemmeno loro stessi, anche a Bruxelles si sono sentiti in dovere di dire la loro.
Nella risoluzione adottata la scorsa settimana, gli euro-sproloquiatori riconoscono “Svetlana Tikhanovskaja presidente eletta e leader ad interim fino a quando non avranno luogo nuove elezioni”, che dice Bruxelles, devono svolgersi “il prima possibile”.
Manco a dirlo, a “far onore” al tricolore col voto favorevole sono stati PD, M5S, Forza Italia e Fratelli d’Italia, con l’astensione della Lega. Anche se, c’è da dire, ieri i Ministri degli esteri UE non sono riusciti ad accordarsi sulle sanzioni chieste da Tikhanovskaja contro una serie di esponenti politici bielorussi e hanno rimandato la cosa all’incontro dei Capi di stato e di governo nei prossimi giorni.
Ora, scrive Grigorij Ignatov su jpgazeta.ru, negli ultimi tempi i rapporti di Minsk con L’Unione Europea, impersonata dai più diretti vicini della Bielorussia – Lituania, Polonia e Ucraina – non erano dei peggiori: soprattutto in campo economico, il giro d’affari era tutt’altro che disprezzabile.
Ma ecco che, dopo il voto presidenziale del 10 agosto, Vilnius rifiuta di riconoscere Lukašenko e questi sposta verso la Russia il traffico mercantile che passava per i porti lituani: perdita secca del 30% per il bilancio di Vilnius. Per lo stesso motivo, Kiev perde circa 5 miliardi di dollari. Più o meno lo stesso con Polonia, Estonia e simili.
Ed ecco che il Parlamento europeo, questa volta non per bocca degli emissari orientali, ma in prima persona, dichiara: “Quando il 5 novembre scadrà il mandato dell’attuale leader autoritario Alexandr Lukašenko, il Parlamento non lo riconoscerà più come presidente del Paese“.
E ogni tentativo della UE di premere su Mosca, attraverso l’abbandono del “North stream 2”, affinché non aiuti Minsk, scrive ancora Grigorij Ignatev, non sarebbe altro che l’ennesima automutilazione: al Bundestag è stato detto che, in caso di rinuncia al gasdotto, dovrebbero essere pagate penali per circa dieci miliardi di euro al centinaio di ditte che partecipano al progetto e, quantomeno in Germania, si dovrebbero aumentare le tariffe del gas di circa il 20%.
Dunque, da una parte, non ci sono indizi che la rediviva “Confederazione” polacco-lituana faccia dei passi indietro e, da parte sua, “l’ultimo dittatore d’Europa”, sostiene che da oltre dieci anni la Bielorussia sta fronteggiando una guerra di informazione aggressiva condotta da USA, Polonia, Lituania, Repubblica Ceca e Ucraina, in cui ogni paese ha il proprio ruolo: Praga funge da hub di risorse, Varsavia da incubatore mediatico e piazzaforte dell’opposizione “in esilio”, la Lituania è un ariete nelle relazioni bielorusse-europee, l’Ucraina è un avamposto di provocazioni politiche. Guidano la coalizione gli USA.
Uno sguardo di sfuggita alle cronache degli ultimi anni ci dice, almeno su questo piano, che Bats’ka non abbia poi tutti i torti.
E, però, secondo il sito colonelcassad, stanti l’attuale livello e metodi di protesta dell’opposizione, al momento non ci sarebbero seri presupposti per il rovesciamento di Lukašenko. Le proteste di massa avrebbero potuto giocare un ruolo nelle prime una-due settimane dopo le elezioni, quando l’apparato governativo era in certo senso disorientato e la piazza avrebbe potuto motivare una parte dei funzionari politici e delle strutture di polizia a tradire Lukašenko.
Questo non si è verificato e l’opposizione, al di là di una consistente capacità di mobilitazione, ha manifestato un’evidente carenza di idee strategiche. Quella percentuale di apparato, prossima allo zero, che ha tradito, scommettendo su una rapida presa del potere da parte dell’opposizione, sta pagando con licenziamenti o retrocessioni di carriera.
Secondo colonelcassad, un solido argomento per rimanere fedeli a Bats’ka, soprattutto tra le strutture di polizia e i media, sarebbe stato il sostegno di Mosca al Presidente.
Questi, dopo i fischi con cui era stato accolto alla sua prima visita post-elettorale in un paio di fabbriche di Minsk, è riuscito, almeno sinora, a silurare anche la carta dello sciopero generale, agitata dall’opposizione dopo il fallimento del piano di presa del potere subito dopo le elezioni.
A differenza dell’ex presidente ucraino Janukovič, Bats’ka non è fuggito dal paese e, a distanza di un mese, lo sciopero non è iniziato, le fabbriche funzionano, non ci sono grandi contatti tra opposizione e lavoratori e, nonostante Tikhanovskaja, in un’intervista all’ucraina LB.ua, abbia annunciato – bontà sua – di garantirgli l’incolumità in caso se ne vada pacificamente, Lukašenko non è affatto intenzionato a lasciare.
Oltre a ciò, il sostegno occidentale a Tikhanovskaja e agli altri oppositori fuggiti in Polonia, Lituania, Ucraina, ha permesso al presidente di mettere in moto una certa retorica anti-majdan, qualificando quanto sta accadendo in Bielorussia non come un problema interno, ma esterno, e ha citato l’Ucraina quale esempio che, ovviamente, con tariffe e prezzi aumentati di varie volte, fine della sanità gratuita, diminuzione di pensioni e salari, disoccupazione e chiusure di stabilimenti, emigrazione forzata, nessun bielorusso vorrebbe seguire.
A ogni buon conto, e visti i movimenti militari in Lituania – ufficialmente: “esercitazioni”, anche con truppe USA – a 15 km dal confine bielorusso, Bats’ka nei giorni scorsi ha chiuso le frontiere con Polonia e Lituania e rafforzato quelle con l’Ucraina.
In questa condizioni, con un appoggio sempre più aperto (quantomeno ufficialmente) di Mosca a Lukašenko, il “serrate i ranghi” degli apparati di sicurezza e l’allarme contro gli oppressori di novant’anni fa, l’unica strada che pare rimanere all’opposizione sarebbe quella di passare dalle “marce delle donne” a scenari ucraini, con i soliti “ignoti cecchini che sparano sui pacifici manifestanti” o qualche “vittima sacrificale” tra i leader dell’opposizione. Ma non è certo questa una scelta che, caso mai venisse fatta, sarà decisa a Minsk e forse nemmeno a Vilnius.
Dunque, per ora, è poco verosimile che Mosca si faccia impressionare da Varsavia o Bruxelles: anzi, sembra baloccarsi coi suoi esponenti. E nemmeno a ovest si abbandonerà la scommessa su Tikhanovskaja. Gli uni continueranno a parlare di “illegittimità” di Lukašenko e gli altri che Tikhanovskaja non è che un futile burattino à la Guaidò.
Ovviamente, non è tutto così limpido e lineare. Non pochi paragonano la situazione bielorussa con quella venezuelana, anche se, con la Russia alle spalle, difficilmente qualcuno con un minimo di raziocinio, a ovest potrebbe pensare a un’azione di forza.
Ma gli interventi yankee non sono fatti solo di aperte aggressioni sul campo. Nientemeno che Jeffrey Sachs, noto come il padre della “terapia schock” russa del 1992, ha calcolato in oltre 40.000 i venezuelani uccisi dalle sanzioni statunitensi, dal 2002 a oggi, vittime dirette del blocco economico.
Aleksandr Sitnikov ricorda su Svobodnaja pressa che, “se gli americani, negli ultimi 18 anni, hanno condotto una guerra non dichiarata contro il Venezuela, allora, come notano i media ucraini, ‘per i bielorussi, tutto è solo all’inizio’. Chi potrebbe saperlo meglio dei media di Kiev?”.
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