Il giorno dopo la notizia della liberazione di Pierluigi Maccalli è quello della ri-creazione. Dopo la forzata assenza di due anni è come ci fossimo abituati ad una sorta di vuoto che solo un incerto presentimento ha cercato di insinuare precario. Poi il giorno della notizia, attesa e temuta, arriva, come la fine di una guerra non ammessa.
Poi, non detto, si infiltra come nuovo ostaggio il silenzio di un qualcosa che assomiglia alla bandiera di pace. I saluti della gente che ci congratula come tutto fosse dipeso da noi qui, innocui personaggi del Sahel.
Ringraziano per le preghiere, si fa memoria di quanto si sarebbe dovuto fare per evitare il rapimento, si immagina come sono state le trattative coi rapitori e si arriva a sottacere lo scambio di prigionieri (uno per cinquanta) e l’inevitabile riscatto pagato.
Sono sicuri che tutta l’operazione non è altro che una manifestazione divina e che, in fondo, non c’era da preoccuparsi affatto. Bastava lasciar fare al loro Dio, i cui tempi coincidono raramente coi nostri.
Il giorno dopo la notizia del rilascio è tutto diverso e, non vedendolo di persona, l’assenza di cui ci si era fatta una ragione per non soffrire troppo, si trasforma in qualcosa di inedito e sconosciuto. La sua presenza è adesso garantita dalle immagini, dalle informazioni, i comunicati ufficiali e le richieste, ormai meno numerose, di conferme dell’accaduto.
In fondo hanno ragione loro, fino a prova contraria. Qualcosa era già stato scritto, forse un diario o semplicemente il canovaccio del dramma, col finale lasciato in sospeso per gli ignari spettatori arrivati in ritardo.
Così sono i poveri della sua zona di Bomoanga, in questa savana con sempre meno alberi a fare da frontiera col nulla, ad avere ragione. Adesso ci sono in pianta stabile i ‘ banditi’, così sono chiamati i sedicenti djhadisti della zona. Impongono alla gente di non tagliare gli alberi per commerciare e trarne quei pochi soldi che serviranno per pagare le tasse scolastiche, le medicine e i mille imprevisti della povertà.
We are still alive, siamo ancora vivi. Era la sua voce, la sera dello stesso giorno, col cellulare nell’auto nel ritorno a casa dopo un incontro non terminato. Era lui e la frase accennata è una specie di pass-word tra noi e si riferisce al soggiorno in Liberia.
Dopo una notte passata tra colpi di mortaio e raffiche di kalashnikov in quel di Monrovia, la gente si salutava così, la mattina. Siamo ancora vivi! E infatti non era così scontato potersi parlare durante la guerra civile al suo termine, dopo 15 anni, nel lontano e vicino 2003.
Con Pieluigi era diventato abituale ricordare questa frase dopo uno sguardo di complicità. In questo caso, però, questa frase lasciava intravvedere molto di più che un semplice saluto di convenienza. Era il riassunto di due anni sottratti e imprestati alla vita. Forse non si è mai tanto liberi come in detenzione. Liberi di tacere, di pensare, di scappare o rimanere, credere o abbandonare ogni tipo di fede che non sia quella di arrivare il giorno dopo ancora vivi.
We are still alive, siamo ancora vivi, lui e noi, dopo tutto questo tempo, messo in parentesi oppure ancora più profondo dell’altro, quello normale. Oppure da nessuna parte esiste un tempo ‘normale’, se non per i mediocri che si accontentano della vita, comunque essa sia.
Vivere due anni in cattività non è da tutti e il giorno dopo, pericoloso ed esaltante, riconduce all’unica domanda che poi conti davvero. Come vivere da persone libere, dopo la somma libertà della prigionia.
Dalla libertà nella detenzione alla detenzione della libertà che, come sappiamo, esiste solo come concetto, ambiguo e si tradisce quasi sempre nella realtà quotidiana. Perché, di fatto, questa domanda è per noi, rimasti, in questi due anni, fintamente liberi e ora chiamati a liberarci dalle subdole schiavitù che la paura evidenzia ed esalta.
Pierluigi è pericolosamente libero e adesso spetta a noi, ingenui insorti dopo due anni di attesa, fare assieme a lui pratica della libertà, senza cercare scuse dai carcerieri.
Niamey il giorno dopo, ottobre 020
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