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Amy Coney Barrett, o la fine della Corte Suprema Usa

The killer awoke before dawn
He put his boots on
He took a face from the ancient gallery
And he walked on down the hall

(Jim Morrison)

La Corte suprema degli Stati Uniti d’America (in inglese: Supreme Court of the United States, a volte abbreviato SCOTUS) è stata istituita il 24 settembre 1789 ed è la più alta corte federale degli USA. È l’unico tribunale specificamente disciplinato dalla Costituzione.

E’ costituita da 9 membri: un presidente, Chief Justice of the United States, e otto membri, gli Associates Justices, nominati a vita. Quando un seggio diviene vacante, il Presidente degli Stati Uniti provvede alla nomina del giudice in sostituzione con il consenso del Senato; è invalsa la prassi di fare in modo che i nove giudici rappresentino, nel complesso, la pluralità delle anime sociali e geografiche del paese.

Pertanto, di norma, tra i nove membri dovrebbero essere rappresentate tutte le comunità più importanti del paese, le diverse aree geografiche e gli orientamenti sociali. Proprio per questa eterogenea composizione, la Corte suprema ha mantenuto un grande prestigio, derivante dalla sua fama di indipendenza e autorevolezza.

La composizione della Corte diventa quindi di cruciale importanza per la vita politica del paese.

La funzione predominante svolta dalla Corte suprema è quella di giudice della costituzionalità delle leggi statali e federali (cosiddetto judicial review). Si occupa, in parole povere, di verificare che le leggi che vengono proposte o seguentemente emanate non siano incostituzionali; in tal caso ha il potere di abrogarle.

Queste poche righe fanno intuire la rilevanza che potrà assumere la recente nomina a giudice associato della Corte Suprema statunitense, dell’avvocato Amy Coney Barrett, come dire, una “donna per tutte le stagioni”. Soprattutto durante l’ormai prossima tornata elettorale USA.

Fortemente voluta da Trump, potrebbe rivelarsi decisiva il prossimo 3 novembre, in sede di risultato elettorale a sfavore del Presidente uscente.

Un cambio di passo

Lo scorso 18 settembre muore, ad ottantasette anni, Ruth Bader Ginsburg, giudice associato nominata da Bill Clinton nel 1993, simbolo delle rivendicazioni delle donne e dei diritti civili. Una liberal, in fin dei conti. Per l’amministrazione uscente, praticamente una bolscevica da barricata.

La Ginsburg, poco prima di morire, aveva chiesto di essere sostituita solo dopo la tornata elettorale.

Il 26 settembre scorso invece, in tutta fretta ed in maniera completamente irrituale, Trump durante una cerimonia alla Casa Bianca, disattende le ultime volontà della giudice, e prima ancora della sepoltura della Ginsburg, sceglie di nominare Amy Coney Barrett, avvocato 48enne, ultraconservatrice cattolica: la Barrett verrà poi eletta dal Senato con 52 voti favorevoli e 48 contrari.

Una vittoria di misura. ma pur sempre una vittoria…

Ora la composizione della Supreme Court è costituita da 6 giudici conservatori e 3 liberal: di fatto è fortemente sbilanciata verso destra.

Curriculum e “frequentazioni” dell’avvocato Barrett

Amy Coney Barrett nasce 48 anni fa a New Orleans, in Louisiana. Suo padre era un avvocato che lavorava per le aziende petrolifere; sua madre faceva, come di prassi in queste famiglie old american style, la casalinga.

Quando viene trasferito in Texas, Mr. Coney preferirà fare il pendolare piuttosto che allontanarsi dalla “comunità di alleanza” a cui appartiene. Questo esempio influenzerà fortemente le convinzioni etico-religiose della figlia.

A ventuno anni Amy sposa Jesse Barrett, anche lui avvocato e con una lunga carriera da procuratore alle spalle. Fra il 1998 e il 1999 la Barrett lavora come collaboratrice per il giudice della Corte Suprema Antonin Scalia, morto nel 2016.

Scalia è considerato il più influente giudice conservatore dell’ultimo mezzo secolo, accusato dai democratici di aver manipolato le elezioni del 2000 a favore del candidato Bush Jr.

Amy Barrett ne farà il suo mentore.

La famiglia Coney Barrett ora vive a South Bend, in Indiana; hanno sette figli.

La Barrett dichiara di essere una fervente cattolica e di seguire alla lettera, come la sua famiglia di origine, i precetti e le regole di un gruppo ultra tradizionalista cristiano cattolico, The People of Praise, una cosiddetta “comunità di alleanza” (letteralmente covenant community movement).

A tutta prima il gruppo può essere scambiato per una di quelle “sette” di cui è costellata da sempre l’America da un oceano all’altro, dedita a stili di vita oramai fuori tempo e guidate da leader a metà strada fra il predicatore ed il ciarlatano truffatore (con un forte sbilanciamento sul secondo termine).

Autorevoli testate, fra cui Newsweek e New York Times, hanno addirittura associato The People of Praise al romanzo distopico di Margareth Atwood The Handmaid’s Tale, dal quale è stata tratta l’omonima serie tv di grande successo. Ma basta scavare un poco più a fondo e si viene a scoprire l’equivoco: la comunità che ha ispirato la Atwood si chiama The People of Hope.

Un breve inciso per chiarire che la comunità di alleanza a cui la Barrett appartiene risiede in quella zona grigia che è diventata ancora più pericolosa, perché “sdoganata” in buona parte da mass media ed istituzioni politiche.

Per sue dichiarazioni, il gruppo è un’associazione neo confessionale, “dove i membri giurano fedeltà gli uni agli altri” e dove si insegna “che il marito è il padrone delle mogli e l’autorità in famiglia”.

Dopotutto già nel 2013 aveva affermato che “la vita inizia con il concepimento”, svelando le sue posizioni antiabortiste molto radicali. Sono altrettanto note le sue opinioni estremamente negative riguardo l’omosessualità ed il diritto a possedere armi: l’anno scorso criticò una legge federale che ne proibiva il possesso a persone condannate per alcuni crimini, sostenendo che il divieto dovesse limitarsi ai soli crimini violenti.

E linea dura sul fronte immigrazione, naturalmente.

Nonostante la sua fede ultra-cattolica, durante i suoi anni da giudice ha approvato la pena di morte nei confronti di diversi condannati.

“Questa è l’America, bellezza”, terra di opportunità e di contraddizioni.

Analizzando le regole del gruppo religioso di cui fa parte, non possiamo evitare comunque di sospettare che un giudice di Corte Suprema, che notoriamente è uso maneggiare il destino di leggi cardine per il proprio paese, e che, per definizione dovrebbe essere super partes, possa essere più che influenzato nelle proprie scelte da opinioni di un gruppo religioso di cui segue, secondo sua ammissione, pedissequamente le regole.

La vita di ciascuno nel gruppo, infatti, è strettamente inserita in quella degli altri; il rischio di condizionarsi l’un l’altro è altissimo, i membri anziani dominano spesso i comportamenti degli associati, che non rilasciano assolutamente interviste.

Molte delle persone che hanno abbandonato il gruppo lo hanno del resto  fatto perché “ritenevano che il grado di impegno nella vita collettiva era esageratamente invasivo della propria vita privata e che erano quotidianamente sotto stretto controllo”.

Last but not the least: gli associati alla comunità hanno l’abitudine di condividere le proprie risorse finanziarie e di sottomettersi alle decisioni delle autorità designate nel gruppo.

Al netto dei moralismi, sembra uno stile di vita alquanto atipico per un giudice della Corte Suprema.

La Coney Barrett sa presentarsi tutta casa, chiesa e famiglia, ma se il quadro è pur ben dipinto, la cornice è un po’ troppo “nebulosa”.

Perché Donald Trump ha fatto carte false per sostenere la sua nomina?

Non solo per creare uno squilibrio in Corte Suprema a lui decisamente favorevole. Amy Barrett è una devota propugnatrice dei valori della tradizione americana, è vero, ma è soprattutto, seguendo le orme del suo mentore Scalia, una convinta originalista.

L’originalismo” è una corrente interpretativa abbastanza diffusa nella dottrina costituzionalistica nordamericana: verte sull’assunto secondo cui l’interprete (in questo caso il giudice) dovrebbe attenersi fedelmente alla lettera del testo originale della Costituzione a stelle e strisce. Quella scritta dagli estensori alla fine del 1700. La Barrett ne è una fedele sostenitrice.

La tornata elettorale

I sondaggi elettorali odierni danno Biden super favorito con 12 punti di vantaggio sull’avversario repubblicano.

Finora hanno già espresso la loro preferenza oltre 84 milioni di persone, di cui quasi 50 per corrispondenza, una modalità usata in larga maggioranza  dagli elettori democratici.

Secondo l’Us Election Project dell’Università della Florida, si stima che a causa del coronavirus quest’anno circa 150 milioni, pari al 65% degli aventi diritto, utilizzeranno il voto per posta. In tempi normali a ogni tornata elettorale gli errori nella firma o nelle procedure, le buste aperte, quelle che arrivano oltre il termine, causano l’annullamento di centinaia di migliaia di voti.

Ed è probabile che avere la neogiudice Barrett in Corte Suprema potrebbe essere il cavallo vincente per Trump, in caso di perdita acclarata o di misura.

Dentro il palazzo tra First Street e Constitution Avenue, sede appunto della Corte Suprema, altre volte si è decisa la corsa alla Casa Bianca. Non si risolve solo negli Stati-chiave, questo, stranamente, sfugge sempre agli americani.

Questo avviene perché, rispetto a molte costituzioni occidentali, quella americana non contiene molti riferimenti alle elezioni, e questo vuoto normativo ha finito per dare ai tribunali un ruolo chiave.

Un esempio illustre è rappresentato dalla battaglia all’ultimo voto tra George W. Bush e Al Gore su chi avesse conquistato la Florida, nelle presidenziali del 2000. E la sentenza della Corte favorì Bush Jr.

Altro esempio, forse meno conosciuto, di contenuto “razziale”, fu quando la Corte Suprema, riconobbe la validità di una legge approvata in North Dakota, legge che stabiliva l’obbligo per gli elettori di presentare un documento con indicato l’indirizzo civico di residenza, penalizzando così i nativi americani che vivono nelle riserve.

La maggior parte delle dispute elettorali si sono risolte con uno scarto minimo; come ricordavamo il 5 a 4 dello scontro Bush-Gore. Quando i democratici accusarono il giudice conservatore, l’italoamericano Antonin Scalia (si, ancora lui), di aver manipolato l’elezione del 43° presidente, lui rispose con un secco: “Fatevene una ragione”.

Ma ora la Corte Suprema è decisamente a maggioranza conservatrice: 6 a 3.

Ergo, è una sicurezza per i repubblicani.

La nuova giudice, potrebbe fare la differenza per stabilire l’esito delle prossime elezioni. In caso di contestazioni, l’ultima parola spetta alla Corte Suprema.

Il 3 novembre potrebbe ripresentarsi una situazione simile: nel caso di vittoria di misura, la parola tornerebbe di nuovo ai giudici della Corte.

Il panorama per ora è il seguente:

Stando alle proiezioni della Columbia Journalism Investigation, quest’anno lo scenario migliore è che oltre un milione di persone potranno perdere il loro voto. Secondo lo studio, se metà degli americani voteranno per posta, si prevedono almeno 1,03 milioni di voti annullati.

Se il 75% dei cittadini userà il voto postale le schede annullate per errore potrebbero arrivare a 1,55 milioni. Molti stati hanno modificato espressamente le leggi elettorali per ampliare la possibilità del ricorso al voto per corrispondenza.

L’ estrema confusione sulle normative e i problemi logistici si sommano all’inevitabile percentuale di errori, e le due cose insieme rischiano di creare una lunga lista di contenziosi proprio negli stati in bilico, come Wisconsin, Michigan, Pennsylvania, Ohio, Florida, North Carolina, Iowa, dove la sfida per la Casa Bianca si deciderà sull’ordine di poche decine di migliaia di voti.

Ripeto, con la Corte Suprema che avrà l’ultima parola.

Si rischia il caos elettorale anche perché l’annullamento di un singolo voto, oltre alla sfida presidenziale, annulla anche decine di altre nomine locali e nazionali che si decideranno nell’Election Day.

The Orange, se perde le elezioni, ha due scenari possibili:

Una reazione soft: niente brogli, niente ricorsi, nessuna denuncia, tutto regolare; accetta la sconfitta, o meglio è costretto a lasciare campo libero alla presidenza democratica e riconosce l’avversario politico.

Il programma elettorale di Biden però, per quel che ne sappiamo, è pieno di possibili leggi che l’amministrazione democratica dovrà mettere a punto per affrontare prima la battaglia contro la pandemia e poi quella per le sue conseguenze economiche.

Tutte queste leggi possono cadere sotto la scure della Corte, mettendo in seria ed eterna impasse la nuova amministrazione. Per Joe Biden potrebbe diventare una vittoria di Pirro.

Nella storia americana è accaduto già a Roosevelt con la legislazione del New Deal; solo uno scontro politico violentissimo, con la minaccia di mettere mano alla struttura della Corte, indusse poi i giudici, formati nella precedente epoca e di quell’epoca espressione, a lasciare passare quei provvedimenti che salvarono l’America dalla Grande Depressione.

Ma era il “secolo breve”. Lo scontro nel nostro tempo, flagellato dalla pandemia globale, potrebbe avere conseguenze imprevedibili.

Reazione hard: Biden è stato “favorito” dal voto per posta, ci sono stati brogli, ed il Presidente uscente non riconosce l’avversario politico. Insomma come si dice a Roma “la butta in caciara”. Denuncia la presunta frode alla Corte Suprema che, al solito, avrà l’ultima parola. Questa eventualità Trump la sbandiera già da tempo. Vedremo se The Orange si è trasformato nel frattempo in The Joker.

Risuonano infatti anche le parole di Trump di qualche settimana fa all’indirizzo dei Proud Boys …

 Stand back…stand by.

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