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Il Secolo dell’Asia

Domenica 15 novembre è stato firmato in Vietnam l’accordo di libero scambio più importante della storia mondiale.

Per il Regional Comprehensive Economic Parternship sono i numeri a parlare. I 15 paesi asiatici che l’hanno sottoscritto costituiscono un terzo circa della popolazione globale e producono poco meno di un terzo del PIL mondiale.

Tra questi vi sono tre “pezzi da novanta” del capitalismo avanzato: Cina, Giappone e Corea del Sud. Tre Paesi che tra l’altro, in maniera parzialmente differente, hanno affrontato relativamente con successo la pandemia e che ora stanno conoscendo una significativa ripresa economica, a differenza dell’Occidente.

Il Financial Times riporta le previsioni di due economisti esperti in commercio internazionale – Peter Petri e Michael Plummer – secondo i quali l’accordo porterà ad un incremento dello 0,2% dei paesi firmatari, ed una quota aggiuntiva dell’economia mondiale di 186 miliardi.

L’accordo – che potrebbe già partire il prossimo anno – è il frutto di 8 anni di trattative, con 49 incontri negoziali e 19 meeting ministeriali, comprende 10 Paesi dell’Asean e 5 non-Asean, e dovrà essere ratificato per essere valido da 6 Paesi dell’Associazione dei Paesi del Sud Est Asiatico e da 3 che non ne fanno parte.

L’India era uscita improvvisamente dai negoziati il 4 novembre dell’anno scorso, principalmente per due ordini di motivi.

Il primo di natura “protezionistica” rispetto ad alcuni settori chiave della sua economia (anche se l’agricoltura ed una parte dei servizi sono in parte esclusi dal RCEP), soffrendo già di un significativo deficit commerciale nei confronti della Cina, da cui importa merci per parecchi miliardi in più di quanto ne esporti.

Il secondo di natura geopolitica, visto il suo avvicinamento all’amministrazione statunitense in funzione anti-cinese all’interno della cornice strategica dell’Indo-Pacifico.

I 15 Paesi lasciano però la porta aperta all’India, e non è detto che non rientri in un secondo tempo.

Il RCEP è la cornice di rapporti multilaterali che potrebbe fare da incubatrice di relazioni bilaterali e trilaterali importanti.

La Cina, che ai tempi non fu l’artefice di questo accordo, ne diventa ora uno dei pivot, vista la maggiore possibilità per la Repubblica Popolare di investimenti regionali e, dall’altro, la possibilità di maggiore accesso al mercato cinese da parte degli altri firmatari.

In generale si va verso un mercato integrato a livello regionale, e allo stesso tempo esportazioni più competitive nel resto del mondo per i Paesi che lo compongono, come riporta Channel Asia.

Sébastien Jean, direttore del Centro Studi CEPII, ha giustamente affermato a «Le Monde»: “commercialmente questo accordo dovrà facilitare molto il funzionamento delle catena del valore della zona”.

Questo aspetto è centrale in un momento in cui, da un lato, si stanno ridisegnando le filiere produttive ed il commercio mondiale, con una maggiore de-connessione tra Cina ed USA, e la riconfigurazione delle rotte commerciali del traffico marittimo secondo linee diverse da quelle sviluppate durante la globalizzazione neo-liberista a guida USA.

Kentaro Iwamoto su «Asia Nikkei» mette in luce alcuni tratti significativi dell’accordo.

“È la prima volta” – scrive Iwamoto – “che la Cina entra in un trattato di libero scambio non bilaterale”.

Inoltre “l’Asia sembra prendere la guida nel dare forma alla nuova architettura del commercio globale”.

Cioè a dare forma a quello che sarà il mondo post-pandemico, aggiungiamo noi.

L’eliminazione delle tariffe  – uno dei cardini dell’accordo, insieme ai servizi e all’e-commerce – cambierà in parte i rapporti tra Giappone e Cina, per esempio, visto che erano sottoposte a dazi l’86% delle merci nipponiche in direzione della Repubblica Popolare.

Un vantaggio notevole per l’industria giapponese in generale, ed in particolare per il comparto delle forniture automobilistiche; ed una maggiore integrazione produttiva che sembra andare in una direzione diversa da quella auspicata dall’ex premier nipponico Abe, recentemente uscito di scena.

Per altri attori, come le Filippine, le cui esportazioni sono dirette già per oltre il 50%  verso questa regione, è un vantaggio notevole.

Per tornare alla Cina, le parole del vice-ministro al commercio Qian Keming sono significative: “continueremo a ridurre la lista negativa che sbarra l’accesso agli investimenti stranieri”.

Due sono le destinazioni principali prefigurate: i settori high tech che sono il perno della strategia cinese, cristallizzate nelle linee guida del nuovo Piano Quinquennale (2020-25), ed i progetti di sviluppo delle regioni centrali ed occidentali cinesi.

Da un lato, quindi, settori in grado di far fare il salto di qualità tecnologica alla Repubblica Popolare; dall’altra le regioni “più arretrate”, per promuovere un più equilibrato sviluppo ed una maggiore coesione all’interno di un processo di integrazione regionale.

È chiaro – come riporta «Asia Nikkei» – che quest’accordo potrebbe essere foriero di ulteriori sviluppi, come un possibile accordo di libero scambio tra Cina ed UE, od un più stretto accordo “a tre” tra Cina, Giappone e Corea del Sud.

Bisogna ricordare che proprio in questo contesto la valuta cinese, che sta sperimentando la sua versione digitale, potrebbe giocare un ruolo ed utilizzare quest’area come base di partenza per una sua affermazione come moneta internazionale di scambio.

Il Financial Times mette in evidenza due punti del RCEP: da un lato l’importanza delle “rules of origin”, che permetteranno ad un singolo componente prodotto in un Paese della regione di entrare nella filiera produttiva dei firmatari con un solo pezzo di carta, come afferma un operatore economico, senza che sia necessaria nessuna certificazione aggiuntiva una volta assemblato in un altro prodotto.

Il secondo punto – al pari dell’«Asia Nikkei» – è il rapporto che si instaura tra Cina, Giappone e Corea del Sud.

Ma è la cifra geopolitica che quest’accordo di integrazione economica ha per gli ulteriori sviluppi delle relazioni internazionali quella che il quotidiano britannico coglie meglio: “ciò significa che né l’UE né gli USA, le tradizionali super-potenze mondiali, avranno voce in capitolo quando l’Asia Porrà le sue regole commerciali”.

Un nuovo benchmark, quindi.

Qui sta il punto, come ha giustamente affermato Sébastien Jean, direttore del Centro Studi CEPII, a Le Monde: “pone una vera crisi strategica agli Stati Uniti”.

L’amministrazione Obama aveva infatti sottoscritto nel febbraio 2016 uno dei perni di quello che doveva essere il Pivot to USA – il TPP (Trans-Pacific Partnership) – da cui Trump uscì  meno di un anno dopo, nel gennaio 2017, e che venne poi firmato comunque da 11 Paesi nel 2018; 7 dei quali hanno firmato poi domenica il Regional Comprehensive Economic Parternship.

Come ha chiosato il New York Times: “ad alcuni esperti del commercio, questo nuovo accordo mostra che il resto del mondo non aspetterà gli Stati Uniti”.

Ed il mondo non aspetta né gli Stati Uniti, né l’Unione Europea, che dovranno moltiplicare gli sforzi per uscire dall’emergenza pandemica in una situazione economica catastrofica ed un corpo sociale indebolito, senza uno straccio di strategia che non sia il “”convivere con il virus”.

Nessuno aspetta USA e UE viene confermato anche dall’incontro dei Brics.

Questo martedì è iniziato il 12simo incontro tra Brasile, Russia, Cina, India, Sud Africa, che ha tre assi: la risposta al Covid-19, la facilitazione della ripresa economica ed il miglioramento della “governance” economica.

Uno degli strumenti di intervento economico dei BRICS è la New Development Bank, creata nel 2015, con sede a Shangai, che era inizialmente destinata al finanziamento dei progetti infrastrutturali e di sviluppo, ma che a marzo di quest’anno ha allargato il suo raggio al sostegno dei Paesi che lo compongono, colpiti dal Covid, per affrontare meglio la situazione pandemica.

Un segno di duttilità, contrariamente ai rigidissimi trattati infra-europei, che pochi osservatori hanno colto.

Sono stati erogati prestiti a Cina, India, Sud Africa e, a luglio, al Brasile, anche con l’emissione in due tranches di bond, a giugno ed a settembre, per un totale di 3 miliardi di dollari.

Le modalità concessione dei prestiti li ha resi più celeri (un mese per essere approvati) e la mole si è ampliata fino a 10 miliardi di dollari.

Una discreta potenza di fuoco, alternativa allo strozzinaggio del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, o ai meccanismi suicidi della UE.

60 aziende dei Brics hanno esposto i propri prodotti al China International Import Expo, giunto alla terza edizione e che ha come fine principale sviluppare l’import ed i consumi interni. Si è conclusa con un volume d’affari maggiore rispetto al prossimo anno: più 2,1%, con contratti firmati per più di 70 miliardi di dollari.

Un abisso rispetto ai valori in picchiata del commercio occidentale.

Un altro segnale importante di come il baricentro dello sviluppo mondiale si è spostato ad oriente e che solo una pessima informazione non ci permette di capire.

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