La Russia può tornare in Kosovo per impedire nuovi pogrom di serbi, titolava qualche giorno fa la giornalista serba Tat’jana Stojanovič sulla russa REX, aggiungendo che la leadership del «Kosovo separatista non è granché interessata al dialogo con Belgrado, dato che ha già ottenuto dalla dirigenza serba tutto quanto poteva esigere».
La Stojanovič scrive ora che i discorsi del Presidente serbo Aleksandar Vučič sul “Mondo serbo” non sono altro che un paravento per consegnare il Kosovo, e sembrano fatti apposta per esser rigettatai, tanto che il leader dei musulmani bosniaci, Bakir Izetbegovič, vede nell’idea lanciata dal Ministro degli interni serbo, Aleksandar Vulin, di un “Mondo serbo” capeggiato da Vučič, l’intenzione serba di «nuove aggressioni».
Oltretutto, a parere dell’ex deputato serbo Đorđe Vukadinović, l’idea di un “Mondo serbo” viene lanciata a puro scopo propagandistico, senza nessuna seria intenzione di realizzarla, così che hanno buon gioco i leader regionali, come Izetbegovič o Milo Đukanovič, a «chiamare alla lotta contro le aspirazioni grandi-serbe. Consapevolmente o meno, Vulin ha passato la palla a tutte le forze antiserbe della regione che ora lotteranno contro un preteso “fantasma del nazionalismo serbo”».
Di fatto, dice Vukadinović, tali esternazioni non sono che «un alibi per coprire la politica capitolazionista delle attuali autorità serbe di fronte al Kosovo e Metohija».
Anche il prof. Dejan Mirovič, dell’Università di Mitrovitsa, giudica tale dea «propagandistico-caricaturale», affinché i serbi si dimentichino della firma di Vučič agli accordi di Bruxelles, a quelli di Washington, con il cerchio che ora si chiude con i colloqui col Primo ministro separatista Albin Kurti.
Tra l’altro, dice Mirovič, «Vulin parla della Republika Srpska, del Montenegro, ma evita di citare il Kosovo. La Republika Srpska fa parte dello stato di Bosnia e Erzegovina, riconosciuto a livello internazionale. Il Montenegro è membro riconosciuto delle Nazioni Unite e anche membro della NATO. Invece, il Kosovo e Metohija, in conformità alla Risoluzione 1244 ONU, che garantisce i confini serbi, fa parte della Serbia. Il revisionismo storico-giuridico nei Balcani esiste solo quando si tratta di Kosovo e Metohija. Nessuno contesta l’Accordo di Dayton, nessuno contesta l’indipendenza del Montenegro e la sua appartenenza all’ONU, così come l’indipendenza di Bosnia e Erzegovina. Di contro, tanto l’Occidente quanto Vučič contestano importanza e validità della Risoluzione 1244, difesa solo da Russia e Cina.».
Così, in Kosovo si sta di nuovo avvolgendo la spirale di violenza contro i serbi, ma sembra che questo non impensierisca il Presidente Aleksandar Vučić, scrive su REX il nazionalista serbo Mlađan Đorđević, originario del Kosovo.
La scorsa settimana, Vučić si è incontrato col Primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, per continuare, sotto egida UE, i negoziati per semplificare la firma del cosiddetto accordo giuridicamente vincolante, in base al quale Belgrado riconosce di fatto l’indipendenza del Kosovo e gli assegna un seggio all’ONU.
Intanto però, racconta Đorđević, leader di Pokret Oslobođenje (Movimento Liberazione) aumentano in Kosovo gli attacchi alla comunità serba, con bastonature, molestie, con politici e organizzazioni albanesi che incitano i serbi ad andarsene e con minacce persino ai religiosi ortodossi.
Tutto questo ricorda il pogrom del marzo 2004, afferma Đorđević, quando folle organizzate di albanesi kosovari attaccarono gli insediamenti serbi in Kosovo e Metohija, espulsero migliaia di serbi, ne uccisero 11, bruciando case, chiese e monasteri.
Oggi, continua Đorđević, «l‘escalation di violenza contro i serbi in Kosovo e Metohija coincide con l’ascesa al potere di Albin Kurti, leader del movimento “Autodeterminazione”, presentato da Berlino come progressista e di sinistra, in realtà ultranazionalista, che sostiene la creazione di una “Grande Albania”».
È chiaro quale sia «l’agenda di Kurti: un Kosovo etnicamente puro», dice Đorđević; ma non è chiaro «perché Vučič taccia, non condanni gli attacchi, non protesti con le forze internazionali sul territorio del Kosovo e Metohija, non minacci di por fine ai negoziati».
Mentre i serbi vengono minacciati, picchiati e arrestati, la “Lista serba”, praticamente un ramo del Partito progressista serbo di Vučič in Kosovo, non fiata.
Sembra che «il programma di pulizia etnica del Kosovo e Metohija non sia solo un piano degli albanesi, ma anche di Vučič, che vuol convincere i serbi che noi non abbiamo più nulla in Kosovo e dobbiamo arrenderci. Poi potrà firmare l’accordo con cui la Serbia riconoscerà di fatto questo stato illegale e gli aprirà la strada per ottenere un seggio all’ONU. Oltre l’80% dei serbi si oppone a tale accordo; ma Vučič non presta attenzione all’opinione dei cittadini; sta solo portando avanti il piano propostogli dagli sponsor della NATO».
Tanto più che, negli ultimi nove anni, Belgrado ha dotato il Kosovo di tutti gli attributi statali: polizia, dogana, tribunali, telecomunicazioni e centrali elettriche, eliminando invece tutte le istituzioni serbe. A questo punto, Kurti «ha solo bisogno di un’altra firma di Vučič, che sarà raggiunta per lui da Washington, Berlino o Bruxelles».
Ci sono tre passi, dice Đorđević, che Vučič non farà mai, ma che potrebbero migliorare radicalmente la posizione dei serbi in Kosovo. «Il primo è la cessazione di ogni contatto con gli albanesi fino a quando non sarà garantita la sicurezza dei serbi. Il secondo è il ritorno di forze di sicurezza serbe in Kosovo e Metohija, in base alla risoluzione 1244. Il terzo è una richiesta ufficiale perché la Russia venga coinvolta nel processo negoziale e in seguito, insieme alla Cina, blocchi ogni tentativo del Kosovo di diventare membro dell’ONU.
Ciò richiederà innanzitutto l’abolizione di tutti gli accordi illegali firmati dal 2013 a oggi e, successivamente, sarà necessario negoziare esclusivamente nell’ambito della risoluzione 1244, che garantisce la sovranità della Serbia sul Kosovo con ampia autonomia per gli albanesi. Tuttavia, l’attuale regime di Belgrado non farà nulla del genere, dato che la sua agenda è quella dei centri di potere occidentali».
In effetti, dopo l’incontro del 8 luglio, Vučič e Kurti si sono riuniti di nuovo a Bruxelles il 19 luglio, ma, stando a quanto dichiarato dal rappresentante UE per il dialogo Belgrado-Priština, Miroslav Lajčak, ci sono stati «pochissimi progressi».
Kurti capisce che il tempo per la “grande vittoria” dei separatisti albanesi a Bruxelles è finito, afferma il politologo serbo Stevan Gajič: «l’occasione fu persa nel 2018, quando era in discussione la variante della cosiddetta demarcazione del Kosovo. Possiamo dire che Alexandar Vučič, Hashim Thaci ed Edi Rama costituissero una sorta di “partenariato”: si accusavano e si attaccavano a vicenda, lasciando all’avversario l’opportunità di esibire la retorica nazionalista di fronte al pubblico di casa. In quel periodo, gli albanesi kosovari avrebbero avuto la possibilità di ottenere un accordo con Belgrado, ma, proprio grazie a Kurti, che esercitò pressioni su Thaci, ciò non avvenne, e grazie a Dio».
Gajič rileva come oggi Russia e Cina stiano sostenendo una soluzione sul Kosovo e Metohija conforme alla Risoluzione 1244 e come, tra l’altro, la Russia si trovi in «una posizione più vantaggiosa, dal momento che il gasdotto “Turkish stream” è finalmente prolungato dal confine bulgaro-serbo a quello serbo-ungherese e ora Russia e Cina, in qualità di stati che stanno rafforzando la presenza nei Balcani, hanno tutto il diritto di formulare i loro interessi in modo più chiaro».
Ricordando come Albin Kurti non volesse assumersi a Bruxelles l’impegno a reprimere le provocazioni contro la popolazione serba del Kosovo e Metohija, Mosca «potrebbe fare un passo, anche molto prudente e, dato il ventennale mancato rispetto della Risoluzione 1244, riportare il proprio contingente in Kosovo».
A sentire Albin Kurti, afferma Đorđević, «Vučič dovrebbe fare una cosa sola: riconoscere l’indipendenza del Kosovo o fornirgli un posto nell’ONU. Gli albanesi non vogliono essere d’accordo su nulla finché Vučič non soddisferà questa condizione»; Kurti dimentica però che questo passo non può essere compiuto senza il consenso di Mosca.
In sostanza, conclude Đorđević, noi riteniamo che Vučič abbia «tradito gli interessi nazionali e violato ripetutamente la Costituzione e per questo dovrebbe andare sotto processo. Quando ci sarà un cambio di potere, il primo passo sarà quello di cancellare tutti gli accordi firmati da Vučič con i criminali di guerra – Hashim Thaci e Ramush Haradin».
È ancora Tat’jana Stojanovič ad allargare la prospettiva del confronto serbo-kosovaro alle ambizioni neo-ottomane, in base alle quali possono spiegarsi anche le parole di Recep Erdogan, secondo cui la Turchia «sta operando per accrescere il numero di paesi che riconoscono il Kosovo». Naturalmente, affermano i redattori del canale-telegram “Balkan Gossip”, citati dalla Stojanovič, ciò avviene nell’ottica dell’ideologia del panturkismo, o di un “neo-ottomanesimo”, nel cui quadro i Balcani costituiscono per Ankara una sfera di influenza del tutto naturale.
Oggi la Turchia tende a espandere la propria influenza nei Balcani anche attraverso le organizzazioni umanitarie. Quasi il 20% del budget della TIKA (Turkish Cooperation and Coordination Agency) va ai Balcani occidentali; la Fondazione “Yunus Emre” promuove la lingua turca che, ad esempio, in Kosovo fa già concorrenza all’inglese.
La Fondazione Maarif è ampiamente rappresentata anche nello spazio dell’ex Jugoslavia, mentre la “Diyanet” (Diyanet Işleri Başkanlığı) opera nei Balcani con la cosiddetta “diplomazia religiosa”, finanziando la costruzione di moschee, attività editoriali, letteratura islamica in bosniaco, bulgaro e albanese.
Per quanto riguarda la memoria del dominio ottomano, sostengono al“Balkan Gossip”, i turchi usano efficacemente i moderni strumenti di soft power nella lotta contro “pregiudizi secolari”, per migliorare l’immagine della Turchia agli occhi della popolazione locale e riscrivere alcune pagine di storia.
Oltretutto, a dispetto dei vecchi diffusi sentimenti anti-turchi in Serbia, Erdogan è riuscito a costruire un modello pragmatico di cooperazione anche con Belgrado: tra tutti i paesi della regione, la Serbia è oggi il maggior partner commerciale per Ankara e un posto particolare occupano ovviamente gli appalti militari, specie coi droni “Bayraktar”.
Di contro, Aleksandar Vučič ha reagito negativamente alla recente dichiarazione di Erdogan, che ha promesso di lavorare insieme all’Amministrazione USA per il riconoscimento internazionale del Kosovo: non per nulla, Turchia è stata una delle prime a riconoscere l’indipendenza dell’autoproclamata repubblica.
Per quanto riguarda il ruolo di Ankara nei confronti della popolazione musulmana del distretto serbo di Raška, definito la “piccola Turchia nel sud della Serbia”, pochi mesi fa la Turchia è diventata il primo Paese ad aprire un consolato a Novi Pazar, nella vecchia regione del Sandzak (Sangiaccato).
La sua fedeltà alla Turchia è dovuta agli stretti legami storici e culturali, ma è anche rafforzata dal lavoro di TIKA e dell’Ufficio della diaspora (YTB) nella regione. I turchi stanno aprendo centri medici, ristrutturano scuole nei villaggi, ripristinano ponti e strade: tre anni fa, Erdogan è stato persino dichiarato cittadino onorario di Novi Pazar, e i residenti lo hanno acclamato “Sultan Erdogan!”
L’influenza turca è forte anche in Bosnia e Erzegovina, tanto che per l’ex Primo ministro turco Ahmet Davutoğlu, ideologo del concetto di neo-ottomanesimo, Bosnia e Erzegovina costituirebbero una «questione di vita o di morte» per la penetrazione turca nei Balcani, di nuovo con la cooperazione religiosa e culturale, con festival dedicati al derviscio turco che avrebbe convertito i bosniaci all’Islam, con le attività della TIKA, con il lavoro delle Onlus turche, con gli stretti contatti col leader del Partito di Azione Democratica, Bakir Izetbegovič.
Sul piano militare, prodotti del complesso militare-industriale turco stanno conquistando il mercato balcanico, in particolare quello albanese, del Kosovo, ma anche di Bulgaria, Montenegro, Macedonia del Nord.
A proposito dei rapporti tra Mosca e Ankara, secondo“Balkan gossip” Russia e Turchia hanno approcci diversi ai Balcani. Per la Turchia, si tratta di una regione prioritaria dal punto di vista geografico, storico, culturale, politico e economico.
«Mosca fa più affidamento sulle relazioni tradizionalmente strette con la Serbia, date da cultura e religione comuni, mentre Ankara non perde di vista nessun Paese della regione e opera in più ambiti. Su una serie di questioni, i due paesi hanno posizioni diametralmente opposte; ma nei Balcani sono anche capaci di un dialogo costruttivo, come dimostra, ad esempio, l’attuazione del “Turkish stream”».
Ricapitolando, in effetti, da tempo i media russi storcono il naso di fronte ad alcune mosse di Vučič e ai suoi abboccamenti euro-atlantici. Evidentemente, a dispetto dei “timori” di Bruxelles e Washington sulla pericolosità della “penetrazione geopolitica russa” portata via gasdotti, il “Turkish stream” non sembra operare tanto bene.
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