Certe cose si sapevano dall’inizio. Ma era quasi impossibile “bucare” il muro dell’informazione “ufficiale”, qui nell’Occidente neoliberista.
Vi riproponiamo questi tre articoli, scritti venti anni fa dal nostro redattore quando ancora lavorava al manifesto, perché coglievano un lato importante dei rapporti Usa-Sauditi, incentrati sugli storici e non sempre amichevoli rapporti d’affari tra la famiglia Bush (e quel che ne consegue in termini di “fetta di establishment Usa) e la famiglia Bin Laden (e relative connection con la monarchia Saudita e le petromonarchie del Golfo).
Non bisogna naturalmente pensare che i “rapporti personali” siano stati o siano ancora adesso il cuore del capitalismo globalizzato sotto l’egemonia Usa.
Ma è certo che seguendo “l’odore dei soldi” si possono capire un po’ meglio quali relazioni di potere si stabiliscano ai piani alti. E ancor meglio capire come le “contraddizioni d’affari”, in questo sistema, si tramutino spesso in questioni di rilevanza geopolitica e viceversa.
Lo testimoniano proprio le carriere di molti dei protagonisti in questi articoli, che passano più volte dalle poltrone dei consigli di amministrazione a quelle di governo. A volte alleati, a volte in guerra, sempre dalla parte di se stessi.
Perché “il capitale” è un concetto, nel mondo reale esistono i “singoli capitali”, ognuno rigorosamente concentrato su se stesso. E’ come l’”essere umano”: incontri singole persone, mai il concetto. Che è utilissimo, per ragionare, ma non entra mai in campo con quei panni.
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Bush e Bin Laden, soci d’affari e amici per la pelle
Francesco Piccioni – Il Manifesto 25 settembre 2001
Quel vecchio pirata di Prescott Bush sarebbe veramente contento di vedere fino a che punto i suoi discendenti hanno assimilato il suo spirito. Lui che nel 1918 guidò un’incursione in un cimitero Apache per prendersi il teschio di Geronimo e farne il trofeo della sua società di studenti, la Skull & Bones (teschio e ossa).
Lui che negli anni ’30 – e nei primi ’40 – trafficava con la Luftwaffe fino a vedere tre società di cui era azionista importante sanzionate per aver commerciato col nemico (violando il Trading with Enemy Act).
Lui che pranzava quotidianamente con Allen e Foster Dulles (capo della Cia al momento dell’assassinio di John Kennedy) e che aveva convocato il capo della nazione Apache per una cerimonia di restituzione del teschio di Geronimo; finita male, perché provò ad affibbiargli un teschio qualsiasi, offendendolo a morte.
Era certamente contento del primogenito George Herbert, petroliere di scarsa fortuna ma agente della Cia in grado di scalarne la vetta (fu nominato direttore nel ’76), nonostante il non esaltante risultato dello sbarco nella Baia dei Porci, a Cuba, di cui era il coordinatore.
Però dimostrò di tenere alle radici texane, al petrolio e alla famiglia, chiamando le tre navi da sbarco Houston, Zapata (la sua prima e scalognata società petrolifera) e Barbara (la moglie).
Deve aver sorvolato su quella strana liason del figlio, negli anni ’60, con un costruttore arabo che ogni tanto veniva in Texas e cercava di introdursi nell’alta società locale. In fondo, quel Muhammad Bin Laden lì, non durò poi molto: cadde col suo aereo mentre attraversava il cielo sopra i pozzi che così poca soddisfazione davano al suo prediletto. Era il ’68, il mondo pensava ad altro.
George W., all’inizio, deve avergli dato parecchi grattacapi. Un asino a scuola (la media del “C”, a un passo dalla bocciatura), ultimo all’esame di ammissione alle forze aeree della Guardia Nazionale (giusto per schivare il Vietnam), assiduo frequentatore di bottiglie di bourbon e piste di cocaina.
Ma finalmente, anche lui, si lanciava nel business del petrolio. A metà degli anni ’70 fonda la Arbusto (bush, in spagnolo) Energy, raccogliendo come soci un po’ di amici paterni (la Cia ha molti amici). Il suo compagno di scuola e di servizio militare, James Bath, gli procura investimenti da parte di Khaled Bin Mafouz e Salem Bin Laden, il figlio maggiore di Muhammad e nuovo capo della famiglia.
Personaggio notevole, il Mafouz. Banchiere della famiglia reale saudita, sposo felice di una sorella di Salem e Osama, gran capo di Relief e Blessed Relief, le due “ong” arabe accusate di essere una copertura per l’organizzazione di Osama.
George, negli affari, è sfortunato. La Arbusto fallisce, si trasforma in Bush Exploration, poi in Spectrum 7. Immancabile arriva sempre la bancarotta. Ma Salem non gli fa mai mancare il suo generoso appoggio.
Il successo pare arridergli quando la Harken Energy rileva la Spectrum pagando la sua quota azionaria ben 600.000 dollari. Che corrobora con un contratto di consulenza da 120.000 dollari l’anno. In breve si mette in tasca un milione, mentre la Harken ne perde decine.
Ma procura un contratto di trivellazione in mare da parte del Bahrein, battendo Amoco e Esso. E’ il ’91, la guerra del Golfo sta per scoppiare, Bush padre è il presidente; e lo sceicco locale, Khalifa, preferisce non rischiare. Del resto sono anche vecchi amici di famiglia.
Khalifa, Bin Mafouz, Salem Bin Laden erano nel board della Bcci quando passavano immensi movimenti di denaro per l’affare Iran-Contra. Del resto quando, alla fine dell’80, i repubblicani si incontrano segretamente a Parigi con i khomeinisti moderati per ritardare il rilascio degli ostaggi americani a Teheran e fregare così Jimmy Carter alle elezioni, George padre raggiunge di corsa il summit a bordo dell’aereo di Salem Bin Laden.
George W. è sfortunato, con i suoi soci. Su quello stesso aereo, nell”88, Salem trova la morte (anche lui) mentre attraversa il cielo sopra i pozzi del Texas. La coincidenza sembra a molti eccessiva, ma l’inchiesta fu molto accurata. Le conclusioni, infatti, non furono mai rese note.
Nel frattempo un altro protagonista dell’incontro di Parigi, Amiram Nir – agente del Mossad – muore in un incidente aereo. Nessun sospetto, però: cade in Messico, mica in Texas.
La sfortuna perseguita anche i giornalisti che si occupano dei Bush. Danny Casolaro sta lavorando a un libro (“Untanglig the Octopus“) che ricostruisce la rete degli scandali grandi e piccoli della presidenza paterna. Prima di finirlo, però, decide di suicidarsi “come un incapace“, racconta Steve Mizrach.
Stessa sorte per James H. Hatfield, 43 anni, che è riuscito a pubblicare “A fortunate Son: George W. Bush and the making of an American President“. Una biografia non autorizzata che, nel ’99, rivela come George abbia tenuto nascoste le sue frequentazioni con la cocaina. Per la legge del contrappasso, viene trovato morto per overdose in un albergo di Springdale, Arkansas, il 18 luglio di quest’anno.
Ora tocca a Osama, naturalmente. Sodale non d’affari, ma di operazioni targate Cia. Forse gli altri 52 fratelli avranno qualcosa da obiettare. Ma, direbbe Prescott, in una guerra mondiale c’è spazio a sufficienza per risolvere le beghe tra vecchi soci.
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Bush, Bin Laden, reali sauditi: fine di una love story
Francesco Piccioni – Il Manifesto 26 settembre 2001
Un’intera pagina di Le Monde, domenica, a pagamento. Per «smentire categoricamente» le voci di «complesse partecipazioni finanziarie» con Osama Bin Laden.
Prima ancora che Bush rendesse pubblica la sua ridicola «guerra finanziaria al terrorismo», Gaith Rashad Pharaon – aristocratico saudita e presidente della Pharaon Investment Group con sede a Parigi, tormentato da voci di stampa decisamente malevole – si è alzato per dire «Giù le mani dal mio onore», dai miei investimenti; dal «lavoro di una vita», diremmo in Italia.
Ha certamente le sue brave ragioni, il signor Pharaon. In fondo si è sempre mosso tenendo ben fermo lo sguardo su due stelle polari: la famiglia reale saudita e le covert operation della Cia.
Un finanziere accorto, dunque, che da 30 anni si muove con disinvoltura e discrezione in mezzo alla spazzatura disseminata a piene mani da quei tangheri di texani che arrivano con il sigaro in bocca, il cappellaccio in testa e stendono gli stivali sui suoi preziosi tavoli. E danno ordini.
Lui, secondo un rapporto della Federal Reserve, aveva accettato di buon grado di essere il frontman, l’uomo di punta della Bcci nei tentativi d’assalto alla First National Bank. Ma del resto era entrato nella famigerata Bank of Credits and Commerce International per l’amicizia di famiglia con Agha Hassan Abedi e lo sceicco Kamal Adham, cognato di re Feisal.
Faceva parte di quel consiglio d’amministrazione insieme a Khalid Bin Mahfouz (sposato con una Bin Laden, indicato come un fedelissimo di Osama), lo stesso Kamal Adham e addirittura Clark Clifford, ex ministro della difesa Usa e consigliere di ben quattro presidenti degli Stati uniti (da Truman a Johnson), amico dei fratelli Dulles, due «miti» nella Cia.
Pharaon è una persona perbene, rispettata. In Arabia Saudita fa affari insieme allo sceicco Abdullah Bakhsh, altro finanziere accorto che sedeva addirittura nel consiglio di amministrazione della Harken Energy – nell’88 – insieme ad Alan Quasha (intimo dell’ex dittatore filippino Marcos) e George W. Bush. Una botte di ferro.
I consigli di amministrazione della Bcci e della Harken sono composti dalle stesse persone, o comunque dello stesso giro. Gente che gestiva gli incassi provenienti da un ricco traffico di droga per finanziare i Contras nicaraguegni prima e la guerra in Afghanistan contro i sovietici, poi.
Ma, anche lì, aveva obbedito agli ordini Usa. O della Cia? La domanda può sembrare strana, ma proprio con quella serie di operazioni (passata alla storia come «scandalo Iran-Contras») la Cia aveva preso a finanziare una propria «politica estera», senza più passare attraverso il giudizio – e il controllo della spesa – del Congresso.
Osama era cresciuto anche abbeverandosi a quella fonte, la Bcci. Ne aveva tratto tutto quanto serviva per lanciare alla grande la «guerra santa» antisovietica, inventando quasi di sana pianta un movimento integralista che solo nell’Iran degli ayatollah sembrava avere qualche seguito popolare.
Ma di tutto questo la Cia, ovvero la famiglia Bush – padre, figlio, James Baker e Dick Cheney – erano perfettamente al corrente. Anzi: quel gioco l’avevano inventato loro. Perché, ora, additarlo all’odio del mondo solo per la sua frequentazione con la famiglia Bin Laden?
Come scrive nel suo appello francese, quella «è una delle famiglie più conosciute e rispettate del Medio Oriente». Lo sanno tutti, lì, che i Bin Laden sono la faccia e la finanza pubblica della famiglia reale di Riad. E’ vero, per esempio, che in Francia controllavano la Banque Al Saudi, poi parzialmente integrata nell’Indosuez.
Ma in quel CdA – che comprendeva come sempre Salem Bin Laden, Khalid Bin Mahfouz, lo sceicco Bogshan – il presidente onorario era il principe Muhammad Ben Fahd, figlio del re. Un nome che era una garanzia.
E’ vero anche che Yeslam Bin Salem, nella Zurich company, si era trovato in società con la famiglia Shakarshi, noti soprattutto per il riciclaggio del traffico di droga. Ma anche questi lavoravano per la Cia e la guerra antisovietica in Afghanistan. Quindi era «tutto ok», no? Perché, altrimenti, i Bush ci avrebbero tenuto tanto ad avere i Bin Laden come soci in affari?
Pharaon lo sa bene: le attività finanziarie di Salem, lo sfortunato socio petrolifero di George W. Bush morto in uno dei tanti «incidenti» aerei che tormentano la famiglia saudita; quelle un po’ più violente di Osama; quelle di Yeslain insieme agli Shakarshi – non avvenivano per iniziativa personale della famiglia Bin Laden. Erano «contratti» – politici o finanziari – che recavano la firma dei due membri più influenti della famiglia reale: i principi Muhammad Ben Fahd e Saud Ben Nayef.
Una guerra ai Bin Laden bombarda direttamente anche il trono saudita.
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Il banchiere del Re, della Cia, di bin Laden e di Bush
Francesco Piccioni – Il Manifesto 3 ottobre 2001
Dalle stelle (e strisce) alle stalle. La splendida carriera di Khalid bin Mahfouz si è drasticamente fermata nelle ovattate stanze di un ospedale militare saudita, più di un anno fa. Agli arresti domiciliari, a Taef, «per volontà delle autorità americane».
Prima di fermarsi a questa per lui inconsueta stazione, era arrivato, nella classifica della rivista Forbes, al 125° posto tra gli uomini più ricchi del mondo. Una figura che riassume da sola la storia dei travagliati rapporti tra il mondo politico-finanziario americano e i detentori dei «petrodollari» (cfr. Intelligence Online, 2000).
Era proprietario della National Commerce Bank dell’Arabia Saudita, la più grande banca privata del mondo posseduta da un singolo privato. Ma soprattutto era il banchiere della famiglia reale saudita. Un vero astronauta della globalizzazione finanziaria, al centro del flusso dei dollari che arrivavano nel Golfo in cambio del petrolio e che tornavano in occidente – negli Stati uniti soprattutto – sotto forma di investimenti.
Un vortice gigantesco e senza apparente fine, da cui centrifugavano schegge di capitale per scopi diversi. Schegge che sono comunque cifre da capogiro.
Tra l’86 e il ’90 una di queste schegge lo portò ad essere azionista di riferimento, col 20%, della Bcci, negli Usa. Era nel board della banca insieme a Gaith Pharaon, al pakistano Abedi, allo sceicco del Bahrein, Khalifa; aveva come proprio referente nel mondo finanziario americano Jack Stephens, uno del «club dei 100» (quelli che avevano contribuito all’elezione di Bush padre alla presidenza con 100.000 dollari a testa, cfr. New York Times, 6 dic. ’91).
Un prudente investitore dell’Arkansas, che intanto contribuiva anche alla carriera di Clinton. Anni d’oro, in cui la banca riciclava denaro per i cartelli della droga colombiani, per il traffico d’eroina prodotta in Afghanistan e gestito direttamente dalla Cia per finanziare Contras e mujaeddin anti-sovietici senza passare sotto il controllo del Congresso americano.
Una di queste schegge, al contrario, lo ha portato ad essere una delle principali fonti di finanziamento di Blessed Relief e altre Ong musulmane, accusate di «girare» denaro direttamente a Osama bin Laden. Nel consiglio d’amministrazione di Blessed Relief, per sfortuna, siede suo figlio Abdul Rahman, sospettato d’aver partecipato a un fallito attentato al presidente egiziano Mubarak. Sua moglie, a completare la disgrazia, è una delle tante sorelle di Osama.
Eppure tutto era cominciato bene, in America. Nel ‘78 il suo socio, Salem bin Laden, aveva assunto come prestanome per il mercato statunitense James Bath, uno degli amici intimi di Bush junior e agente della Cia con lo specifico compito di «stabilire un legame più efficace con l’Arabia Saudita». Agli ordini di George Bush padre, nominato due anni prima direttore dell’«agenzia».
Bin Laden e Bin Mahfouz, secondo le accuse mosse loro in un secondo tempo, cercavano invece gli investimenti giusti per «condizionare la politica americana». Chi strumentalizza chi? Gli eventi dei venti anni successivi non lasciano molto spazio alle interpretazioni.
Bath gli aveva in effetti procurato i primi investimenti. Nell’Arbusto Energy di George W. Bush (Daily Mail del 24 settembre, «Bin Laden’s family links to Bush», di Peter Allen), insieme a Salem bin Laden. Poca roba, 50.000 dollari, tanto per fare un regalo alla «famiglia» che lanciava negli affari il primogenito.
Più consistente, invece, la cifra per l’acquisto dello Houston Gulf Airport, che finì completamente nelle sue mani quando il suo socio Salem morì in un incidente aereo in Texas, nell’88. Nell’87 dà mandato al suo rappresentante ufficiale negli Usa, Abdullah Taha Bakhsh, di acquistare il 17% della Harken Energy, di cui George W. Bush è azionista, consulente, amministratore. Un’azienda petrolifera piccola, con un disperato bisogno di soldi e commesse.
Bin Mahfouz porta gli uni (anche Jack Stephens contribuisce con 25 milioni di dollari) e le altre. Qualche tempo dopo lo sceicco Khalifa – altro consigliere della Bcci – in qualità di ministro del Bahrein affida proprio alla Harken il compito di effettuare trivellazioni nel proprio mare. Una «fortuna eccezionale», che spinge il valore della Harken a oscillare tra 4 e 5 dollari per azione. Ma proprio a quel punto qualcosa si rompe.
Il 20 giugno del ’90 George W. vende la sua partecipazione nella Harken a 4 $ per azione, mettendosi in tasca quasi un milione di dollari. Otto giorni dopo vengono pubblicati i risultati economici del secondo trimestre: la Harken dichiara perdite per 23 milioni di dollari e il valore delle azioni cade a 1. L’uscita di Bush dalla società è stata di un tempismo davvero eccezionale. Frutto di un fiuto innato per gli affari o di un insider trading da paura?
La Sec (la Consob americana) apre un’inchiesta (Micah Morison, Wall Street Journal, 27-9-’99). Il sospetto economico è che, da consigliere, conoscesse benissimo la situazione fallimentare della società e abbia, fuggendo, «fregato» i soci e il mercato. Quello politico è che, da figlio del presidente, fosse informato dell’ormai imminente invasione del Kuwait e della conseguente crisi del mercato petrolifero.
Bush fu naturalmente assolto, nonostante i malumori del Wsj per la palese violazione delle regole di mercato. Il buon bin Mahfouz, negli stessi giorni, vedeva crollare la Bcci sotto i colpi dello scandalo (oltre 10 miliardi di dollari di perdite). I Bush – presidente e figlio – scomparvero, mentre lui pagava danni e multe, chiudeva le attività negli Stati uniti e se ne tornava a casa. Con una cittadinanza irlandese e, probabilmente, qualche dente avvelenato. Come molti, negli ultimi tempi, in Arabia saudita.
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