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Turchia e Israele scelgono Kiev ma hanno bisogno di Putin

L’attacco militare lanciato da Putin all’Ucraina ha avuto riflessi immediati in Medio Oriente, ponendo sfide complesse in particolare a Turchia e Israele.

I due paesi mantengono da anni buone relazioni con Mosca e Kiev e dall’inizio della crisi hanno cercato, in modi diversi, di non schierarsi apertamente, anche se dietro le quinte tifavano per l’Ucraina. L’inizio della guerra ha fatto uscire allo scoperto Ankara e Tel Aviv che hanno espresso pieno sostegno a Kiev.

Il leader turco Erdogan ha subito telefonato al presidente ucraino Zelensky. Ha definito il via libera di Putin alle operazioni militari «un’aggressione inaccettabile, che viola il diritto internazionale». Pressato dalla necessità di recuperare i rapporti con Washington, turbolenti da anni, Erdogan si tiene in linea con la posizione della Nato, cioè degli Usa.

Allo stesso tempo il suo paese ha importanti rapporti economici con Mosca – e un accordo di cooperazione, sia pure zoppicante, sulla questione siriana. L’analista Hakan Celik ieri sul giornale Posta invocava un approccio equilibrato.

La Turchia – ha scritto – deve proteggere al massimo i propri interessi adottando un approccio neutrale ed equilibrato nel quadro del diritto internazionale. La Turchia ha relazioni strette, quasi a livello strategico livello, sia con l’Ucraina che con la Russia. La Russia è un paese da cui la Turchia ottiene la maggior parte delle sue importazioni.

Nell’energia, con il gas naturale in testa, si potrebbe dire che c’è un rapporto di quasi dipendenza. Le importazioni della Turchia dalla Russia valgono 29 miliardi di dollari mentre le sue esportazioni si attestano a 5,8 miliardi. In circostanze normali, circa 7 milioni di turisti dalla Russia visitano annualmente la Turchia. In caso di una ulteriore escalation, i costi energetici della Turchia la fornitura di prodotti agricoli come orzo e grano e il turismo le entrate potrebbero essere tutte seriamente a rischio”.

Ankara in ogni caso, non bloccherà il transito delle navi da guerra russe attraverso gli stretti del Bosforo e dei Dardanelli come chiedeva ieri con forza l’Ucraina. La convenzione di Montreux del 1936 assegna ad Ankara il controllo degli stretti e l’autorità per regolamentare il passaggio delle navi. Quelle militari sono soggette a restrizioni, ma la Turchia non è in guerra e non può bloccarle e chiudere Bosforo e Dardanelli. Perciò oggi (ieri, ndr) alla riunione della Nato Erdogan sarà seduto sui carboni ardenti.

Non è più semplice la posizione di Israele, dove una fetta consistente di popolazione è immigrata da Russia e Ucraina. Per settimane il governo Bennett si è mostrato neutrale pur sostenendo sotto il tavolo Zelensky. Poi martedì sera, al termine di una riunione che ha visto allo stesso tavolo il premier Bennett, il ministro degli esteri Lapid, il ministro della difesa Gantz e il ministro delle finanze Lieberman, Israele espresso sostegno all’integrità territoriale dell’Ucraina.

Quindi ieri mattina Lapid ha descritto l’attacco russo «una grave violazione dell’ordine internazionale» e aggiunto che Israele «è pronto a fornire aiuti umanitari ai cittadini ucraini». Il giornalista di Axios Barak Ravid, esperto di diplomazia, ha scritto che la nuova posizione israeliana non è una conseguenza di pressioni statunitensi. I dubbi però non mancano.

Alle dichiarazioni di Lapid, la Russia ha reagito ricordando che lo Stato ebraico occupa, da decine di anni, territori arabi e affermando il suo rifiuto del controllo israeliano del Golan siriano. Tel Aviv ora teme conseguenze.

Il ministro Gantz qualche giorno fa parlava di «confine russo» al nord di Israele in riferimento alla presenza di forze aeree russe in Siria e all’alleanza tra Putin e il presidente siriano Bashar Assad. Per anni e fino a oggi la Russia ha lasciato piena libertà all’aviazione israeliana – l’ultima volta martedì notte (tre, forse sei soldati siriani uccisi) – di colpire «obiettivi» in Siria. Le cose potrebbero cambiare.

* da Pagine Esteri

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1 Commento


  • Gianni Sartori

    OPERAZIONI (PREVENTIVE?) ANTI- CURDE NELLA BANLIEU PARIGINA

    Gianni Sartori

    Per carità. Nessuna intenzione di stabilire analogie o affinità. Diciamo pure che sono soltanto coincidenze. Per quanto inquietanti. Mi riferisco a due episodi. L’attacco opera di fascisti turchi del 26 febbraio contro il Centro comunitario democratico curdo di Drancy (località della banlieu nord-est di Parigi) e la perquisizione avvenuta due giorni prima (24 febbraio) nel medesimo centro.

    Due eventi che fatalmente riportano alla memoria (almeno per chi ancora la possiede) ricordi vergognosi.

    Ossia quelli di un campo di concentramento che dall’agosto 1941 all’agosto 1944 svolse un ruolo fondamentale nella politica delle deportazioni antiebraiche. All’epoca inserito nel dipartimento della Seine (attualmente in Seine Saint-Denis) Drancy viene considerato uno dei tre principali centri di smistamento, dopo quelli di gare du Bourget e di gare de Bobigny, verso i campi di sterminio nazisti. In particolare per Auschwitz. Secondo alcuni storici ben nove deportati su dieci transitarono per Drancy avviandosi verso la “soluzione finale”.

    Certo più prosaicamente, il 24 febbraio si era tornati a parlare di Drancy per un’operazione di polizia condotta contro il centro curdo locale (conosciuto anche come la Maison Culturelle Kurde). Numerosi membri delle forze dell’ordine, mascherati e pesantemente armati, ne hanno perquisito la sede e arrestato uno dei responsabili.

    Invece due giorni dopo (26 febbraio), verso le ore 13, entravano in azione i fascisti turchi attaccando il medesimo centro di Drancy. Agitando bandiere turche, avevano cercato di introdursi nei locali con la forza, ma ne venivano respinti dai militanti curdi. Nel giro di pochi minuti decine, centinaia di curdi raggiungevano la sede mettendo in fuga gli aggressori.

    Mentre la polizia interveniva con i gas lacrimogeni, principalmente contro i curdi.

    Al momento non si conosce il numero dei feriti (tra i curdi almeno tre quelli accertati).Un appello a tutti i sostenitori della causa curda affinché si radunino presso il Centro di Drancy è stato lanciato da Necmettin Demiralp copresidente del Consiglio Democratico Curdo in Francia (CDK-F).

    Altra coincidenza. L’operazione di polizia del giorno 24 era avvenuta quasi in contemporaneità con l’annuncio da parte del Mouvement des Femmes Kurdes en France (TJK-F) di molteplici manifestazioni, eventi (incontri, festivals, mostre…) e azioni di protesta imperniate (oltre che sulla data dell’8 marzo) sull’autodifesa, la resistenza e la ricerca di giustizia.

    Il TJK-F annunciava inoltre di essere presente, da oltre due mesi e in maniera attiva, nella preparazione della grande marcia prevista per l’8 marzo nella capitale francese

    Assieme a molte altre organizzazioni femministe, a sindacati e partiti politici. Manifestazione che dovrebbe partire dalla Gare du Nord e dedicata principalmente alle tre femministe curde (Sakine Cansız, Fidan Dogan e Leyla Saylemez) assassinate a Parigi nel gennaio 2013.

    L’appello del TJK-F è rivolto a tutte le donne affinché si uniscano contro l’isolamento, contro il fascismo e per i diritti delle donne.

    Denunciando come vi sia in corso “una vera guerra con cui si cerca di rendere accettabile, normale, il massacro subito dalle donne nel mondo dove prevale, domina una cultura maschilista e patriarcale”. Aggiungendo che “le guerre, l’emigrazione, la disoccupazione colpiscono soprattutto le donne”.

    Proprio per questo le donne ricoprono un ruolo fondamentale (“primordiale”) nel combattere il fascismo maschile e le pratiche genocide.

    Le iniziative dovrebbero prendere il via già il primo giorno di marzo e proprio dal Centro comunitario del Kurdistan di Parigi. Per il TJK-F il 2022 dovrebbe diventare “l’anno della Resistenza”.

    Gianni Sartori

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