Se Ennio Flaiano fosse chiamato oggi a pronunciarsi sul mainstream italiano in argomento guerra, ne uscirebbe sicuramente con uno dei suoi paradossi ad effetto “Non è tanto quel che vedo o leggo a farmi impressione, ma quel che sento: quell’insopportabile rumore delle unghie che si arrampicano al vetro”.
Sugli altoparlanti dell’egemonia mediatica è andata in onda a reti unificate la difesa ad ogni costo delle parole ed opere del governo ucraino, quali che fossero i mezzi da questo utilizzati, il tutto in vista di una costosa militarizzazione dell’intera Europa, già con l’acqua alla gola per la crisi economica.
La gustosa intervista ad un comandante del Battaglione Azov – composto da nazionalisti dell’ultradestra ucraina, che confessa di “leggere Kant” ai propri soldati, la comparsata della band di “Kiev calling” che canta con le magliette di Banderas, hanno scoperto più di un nervo della narrativa dominante.
Una volta emerso che il cavallo politico su cui si era contato consentiva un’agibilità senza paragoni ad organizzazioni ispirate al nazismo, al nazionalismo etnico, ai collaborazionisti del Terzo Reich venerati come “eroi nazionali” con tanto di monumenti, è partita la corsa a negare l’evidenza, a ridimensionare un fenomeno che il governo ucraino per primo si rifiuta di ridimensionare, oppure ad utilizzare narrazioni consolatorie e giustificazioniste, slegate dalla realtà, come quella per cui “i nazisti esistono su entrambi i fronti”.
Va fatta la solita premessa, d’obbligo di questi tempi per non vedere il proprio ragionare delegittimato a tifo: la natura della Russia governata da Putin è di tutta evidenza un regime oligarchico nel quale il blocco storico dominante (composto da un blocco politico alleato a precisi blocchi economici privati e controllati dallo Stato) utilizza tutti gli strumenti della propaganda, della gestione sociale e della repressione per la perpetuazione del potere.
Non vi è chi possa negare che ogni forma di alternativa politica vada incontro a una decisa repressione, anche quando si tratti di rivendicare semplice agibilità democratica.
Sennonché, si potrebbe dire, un tale corso autoritario non è al giorno d’oggi funzionante solo in Russia, ma da molto tempo caratterizza quasi tutte le nazioni dell’Occidente, che pretenderebbero di censurarla.
Anche nei nostri lidi alberga un potere gestito in modo sempre più indipendente da reali meccanismi democratici, che si tratti di uomini – o clan – forti, come in Ungheria, Polonia, Bulgaria, Romania, di pilastri plutocratici ed oligarchici come in Usa, di elites tecnocratiche come in Italia. Se la Russia sfoggia un impresentabile Khadirov in Cecenia, ci si deve chiedere se i clan del Kosovo, Orban o Erdogan non siano altrettanto impresentabili. E si potrebbe continuare.
Purtuttavia, il punto non è questo. Tornando all’Ucraina, mai prima d’ora in uno Stato, in Russia od Occidente, si era vista una tale agibilità, peso culturale e politico, affidati ad organizzazioni politiche che platealmente si ispirano ad ideologie, personaggi, concezioni del mondo, esplicitamente fasciste o naziste.
Parole ed opere che nel codice penale tedesco sarebbero state puro reato di apologia del Terzo Reich, od oggetto di messa al bando, almeno fino alla mezza retromarcia effettuata con la sentenza della Corte Suprema Federale del 17 gennaio 2017, che rifiutò la richiesta di messa al bando del NPD (un partito neonazista), sol perché di rilievo elettorale minimo.
Nonostante in tutta l’area dell’Europa Orientale siano rinati movimenti ispirati al nazionalismo etnico o rinvigorite ispirazioni al panslavismo, né a Mosca, e neppure nell’ultratlantica Polonia ci si è mai concessi di inaugurare monumenti e celebrare come eroe nazionale un collaborazionista degli orrori del Terzo Reich e della sua SchutzStaffel come Stepan Bandera.
Nello stesso senso mai ci si è spinti ad integrare nell’esercito regolare milizie paramilitari formate da gruppi neonazisti, celebrando i loro gerarchi come eroi della resistenza anche quando i loro atti si sono rivelati veri e propri crimini in tempo di guerra, come la presa di ostaggi civili in molti degli ultimi scenari bellici, o in tempo di pace, come la strage della Casa dei Sindacati ad Odessa.
Ma, se la narrazione del fascismo platealmente rivendicato non fosse sufficiente, basterebbe porre attenzione alle pratiche ed alle leggi messe direttamente in campo dal Presidente dell’Ucraina e dal suo Governo, nei tempi passati e recenti.
Sin dall’alba successiva al golpe del 2014, furono messi fuori fuorilegge i comunisti (lo saranno definitivamente dal 2015 dopo che fu respinto il ricorso contro la messa al bando).
Con un decreto di qualche giorno fa, sono stati messi al bando ben 10 partiti di opposizione (che rappresentano il 20%) del Parlamento: Piattaforma di Opposizione – Per la Vita (43 deputati), Unione Pan-Ucraina “Patria” (26 deputati), Blocco d’Opposizione (6 deputati), Partito di Shariy (dal nome del blogger che lo anima), Opposizione di Sinistra, Unione delle Forze di Sinistra, Partito socialista progressista ucraino, Partito Socialista dell’Ucraina, Socialisti, e Blocco Vladimir Saldo che avevano nella Rada rutenica altri 43 deputati.
Contemporaneamente si è messo il bavaglio a tutta la comunicazione nazionale unificando in una rete sola sotto il controllo del Governo i network televisivi.
Provvedimenti di questo genere sono equiparabili alle cosiddette leggi fascistissime: la legge che obbligava la stampa ad avere un direttore responsabile di gradimento prefettizio-governativo (1926) l’istituzionalizzazione del Gran Consiglio del Fascismo come suprema autorità costituzionale del Regno (1928).
Con riferimento alla questione del Doneckij Bassein, non è certo peregrino sospettare che il separatismo sia stato in una certa misura strumentalizzato dal governo russo secondo i propri interessi. Tuttavia, non si dispone ancora di adeguati documenti in grado di accertare quale sia stato il ruolo della Russia in tali processi politici.
Abbiamo invece sufficienti elementi per osservare come l’asserita reazione ucraina si sia sostanziata in una guerra durata ben otto anni. L’offensiva per il governo Ucraino è stata portata avanti da formazioni ultranazionalistiche e paramilitari con metodi che puntavano senza molti dubbi all’annichilimento di un’espressione etnica e/o culturale (quella russa e russofona), con un massacro che, secondo le stime più prudenti (Relazione dell’Alto Commissariato ONU per i Rifugiati) riguarda quantomeno 3404 civili (senza “parte”, perché i civili tali vengono considerati) e 6500 insorgenti separatisti.
Una guerra di otto anni che il mainstream ama definire di bassa intensità, ma sicuramente dagli alti numeri.
La persecuzione di queste popolazioni, da parte di formazioni che si ispiravano al fascismo e nazismo, ha generato molte controspinte di reazione e di solidarietà, spingendo molti sinceri antifascisti ad accorrere in soccorso delle popolazioni aggredite, in nome di un ideale sincero, e di un coraggio inusitato e trasparente, come è stato per il caso del comunista veneto Edy Ongaro, oggi ricordato dai suoi compagni del Collettivo Stella Rossa Nord Est e da comunicati di varie organizzazioni, persino all’interno di un presidio contro ogni guerra imperialista.
Il governo ucraino non ha infatti mai fatto mistero delle sue volontà di “ucrainizzazione” del territorio delle repubbliche indipendenti, con provvedimenti volti alla proibizione della lingua russa, seguiti dal confronto militare, atti miranti alla deportazione della popolazione russofona in modi che ricordano le case bruciate dei serbi nei territori croati, o l’occupazione italiana della Jugoslavia, con l’espropriazione delle terre di sloveni e croati e la proibizione di parlare lingue diverse dall’italiano.
A fronte di tutto ciò, per quanto possa essere imperdonabile la guerra, per quanto possa essere – come quasi sempre è – espressione di conflitti tra interessi imperialisti, cosa ci vuole a certi sedicenti antifascisti della nostra Politica istituzionale per comprendere la natura inaccettabilmente etnica e fascista del nazionalismo ucraino?
Cosa ci vuole per non far confusione con la Resistenza, e rivelare il progetto guerrafondaio e suicida di alimentare il conflitto in corso con l’invio di armi e con l’aumento sconsiderato delle spese militari, senza alcuna riflessione sugli obiettivi di una tale politica di difesa?
Gli smodati tentativi della televisione italiana di umanizzare o sdoganare questo nazismo diffuso e irrimediabilmente puteolente potrebbero essere liquidati con una battuta che descrive la loro ridicola risposta: “Va bene sono nazisti, ma sono i «nostri» nazisti….“.
Tuttavia, la questione merita una riflessione più seria, perché è un atteggiamento che riguarda lo stesso futuro delle classi popolari dell’Europa, che sostengono il maggior peso dei danni di guerra militare ed economica.
Tale ridicola insistenza nel dipingere l’asino per spacciarlo da zebra, rivela un sintomo ben più grave all’interno delle classi dirigenti occidentali: l’inidoneità a leggere gli eventi che accadono al di là della falsa coscienza delle ideologie dominanti. Il tutto associato all’incapacità di mettere a frutto l’insegnamento od i suggerimenti che possono giungere da passati processi storici.
Una simile incapacità, a detta di alcuni storici, si sarebbe più volte presentata nella storia dei blocchi contrapposti. Quando, alla fine del 1979, gli Stati Uniti decisero di schierare nuove armi nucleari in cinque paesi d’Europa, l’allora URSS spendeva già mediamente il 12 per cento del suo PIL nella difesa militare.
Una cifra notevole se proporzionata alla ricchezza prodotta, tenuto conto che gli stessi USA sono arrivati a spendere il 9 per cento del PIL nel solo 1963. Il blocco socialista soffriva inoltre della necessità di indebitarsi con i Paesi occidentali per l’importazione del fabbisogno alimentare e, a volte, come nel caso della Germania Est, anche energetico.
Quasi tutti i paesi aderenti al Patto di Varsavia erano pesantemente supportati per necessità dalle finanze sovietiche e purtroppo erano contemporaneamente costretti ad indebitarsi fortemente verso i Paesi Occidentali, adottando contemporaneamente anche una politica di sacrificio per il ripagamento dei debiti, politica che generò malcontento sociale ed aprì la strada per l’infiltrazione dei servizi segreti occidentali nella creazione di movimenti di protesta, come quello di Lech Walesa, finanziato anche con il riciclaggio di valuta sporca proveniente dai centri di potere occulti che facevano capo al Banco Ambrosiano ed al Vaticano.
In una situazione di tal fatta, la corsa agli armamenti condotta dagli Stati Uniti condusse al progressivo indebolimento e distruzione del blocco sovietico.
L’Europa Occidentale soffre oggi di problemi non dissimili ed una grossa dipendenza da più blocchi contrapposti nel mondo. Inserita per ragioni storiche nel vassallaggio militare guidato dall’impero statunitense, ritrova però il suo equilibrio economico fortemente dipendente anche da altri blocchi, vuoi per il fabbisogno di energia, vuoi per le esportazioni/importazioni di manufatti.
La sua economia ed il suo sostrato sociale sono stati gravemente minati dalla passata crisi economica e non è così assurdo ipotizzare che una nuova politica di riarmo conduca ad un nuovo suicidio politico delle entità europee, che finirebbero per logorarsi in nome degli interessi di sicurezza insulare (ed anche economici) degli Stati Uniti.
Questo camminare sulla lama del coltello era ben compreso dalle passate classi dirigenti politiche, le quali operarono per gestire questo difficile equilibrio. Pochi giorni fa, l’onnipresente Zelensky non si è fatto mancare nemmeno un attacco ad Angela Merkel per la sua passata politica asseritamente filo-russa.
L’ex Bundeskanzlerin ha ribattuto al presidente ruteno che “fu giusto escludere l’Ucraina dalla Nato“, a testimone del fatto che l’Europa era ben conscia della necessità di bilanciamento tra poteri. Del resto, un rimasuglio di tale passata politica si è visto anche all’interno di questa crisi, con le posizioni di Francia e Germania.
Il WSJ ha recentemente rivelato che un piano in extremis contenente le richieste russe era stato trasmesso a Zelensky da Sholtz, comunicandogli che le informazioni occidentali davano per certo il piano di invasione in caso non si fosse trovato un accordo, nonostante di fronte all’intero mondo mediatico ci si dichiarasse convinti del contrario.
Zelensky, da bravo amplificatore degli interessi Nato, rifiutò. L’inerzia europea nei confronti di queste irragionevoli e scomode posizioni ha contribuito a generare quello che poi è accaduto.
Ecco perché l’assurda copertura mediatica delle parole ed opere dei dirigenti ucraini rivela una stupefacente miopia delle attuali classi dirigenti dell’Europa. Atteggiamento tanto assurdo, quando si finisce per adottare politiche di russofobia (persecuzioni della cultura russa, che non è la cultura di Putin) del tutto simili ai ridicoli sforzi di eliminazione della cultura francese e anglosassone dall’intelletto italico perseguiti a suo tempo nel nostro Paese dal maestrino di Predappio.
Qui non siamo ai “nostri fascisti”, qui si diventa fascisti del tutto, senza bisogno di tessera.
Nel momento in cui si scrive, infuria la guerra mediatica con ospite d’onore l’immancabile crimine di guerra che affiora sempre nei conflitti di questo tipo. Ogni parte è fondamentalmente certa della colpevolezza altrui o della palese montatura ad opera della parte avversa, secondo logiche che, in tempo di guerra mediatica e militare, non possono essere supportate da una accettabile valutazione dei fatti, perché i fatti in questo momento, sono difficili – se non impossibili – da accertare e valutare, proprio per l’opera delle stesse parti in conflitto.
Tuttavia, una certezza rimane sempre: le guerre, soprattutto quelle imperialiste, portano sempre con sè ogni tipo di orrore, perché nelle guerre viene per definizione meno ogni limite alla barbarie. Il peso dei conflitti imperialisti viene sostenuto quasi del tutto dalle classi popolari, mentre i vantaggi vengono via via goduti dalle classi dirigenti, in uno scenario in cui, in entrambi i campi, vuoi la parola democrazia, vuoi l’interesse del popolo, sono solamente burattini mossi per sdoganare alle classi sfruttate i sacrifici che dovranno compiere, ancora una volta, perché la ricchezza da loro prodotta sia gestita ed appropriata da blocchi di potere economico e politico.
Il “nemico principale” in questo caso è la mancata organizzazione delle classi sfruttate secondo i propri interessi indipendenti. Laddove queste si organizzano, come nel caso del boicottaggio operato dai lavoratori di Pisa, oppure dei Ferrovieri Greci nei confronti dell’invio di armi all’Ucraina, la guerra imperialista viene avversata senza bisogno di cedere agli interessi di una delle parti in conflitto.
La richiesta che le classi dirigenti italiane oggi propongono è quella di difendere una democrazia che si ostinano a non concedere con il sostegno ad un nazionalismo di stampo etnico e fascista, con un riarmo che porterà al suicidio dell’economia sulle spalle delle classi popolari e sfruttate.
Quanto basta per rispondere: no, grazie.
* da Resistenze.org
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