I combattimenti tra l’esercito regolare (FARDC) e i combattenti del Movimento del 23 marzo (M23), in corso nelle colline vulcaniche del Nord-Kivu, provincia orientale della Repubblica democratica del Congo (RDC), si sono intensificati ieri intorno alla cittadina di Bunagana, confinante con l’Uganda e vicina alla frontiera rwandese, e alla base militare di Rumangabo, nei pressi del Parco Nazionale di Virunga. Mentre scriviamo, l’area delle
operazioni si è allargata al territorio di Nyiragongo, a 20 kilometri da Goma, capitale del Nord-Kivu.
Dopo qualche giorno di tregua, venerdi scorso sono cominciati i bombardamenti all’artiglieria pesante delle forze lealiste contro le posizioni dell’Armata rivoluzionaria congolese (ARC), il braccio militare dell’M23.
L‘iniziativa è stata supportata da una strategia comunicazionale già sperimentata: finita la pioggia dei missili, i giornalisti in attesa a Goma son convogliati sul campo di battaglia per assistere alla risposta delle truppe dell’ARC. Una tempistica studiata per accreditare la tesi secondo la quale spetterebbe al movimento ribelle la responsabilità di aver attaccato, per primo…
Gli scontri di questi giorni rappresentano comunque una svolta con l’entrata in guerra della Missione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione del Congo (MONUSCO), i cui elicotteri hanno per lo meno ritardato la contro-offensiva dell’M23.
I Caschi blu si erano tenuti in disparte nelle fasi precedenti dei combattimenti iniziati a novembre dello scorso anno e malgrado le pressioni delle FARDC per coinvolgerli a sostegno delle loro offensive. Ma in quest’ultima circostanza, i lealisti sono ricorsi ad uno stratagemma per fornire alla MONUSCO il pretesto per intervenire. Messi in fuga dalla contro-offensiva dell’ARC, i militari dell’esercito regolare si sono rifugiati nella base dell’ONU, il cui comando ha deciso a questo punto di mobilitare la forza aerea contro la ribellione.
L’entrata in guerra delle Nazioni Unite si presta nondimeno a due ordini di considerazioni. La prima è che dal mese d’aprile a Nairobi, capitale del Kenia, si svolgono delle consultazioni tra il governo di Kinshasa e diverse formazioni armate, tara cui in primis l’M23. Il tutto sponsorizzato dai presidenti del Burundi, dell’Uganda e del paese ospite dei negoziati.
La decisione unilaterale delle FARDC di violare il cessate-il-fuoco stabilito all’inizio dei colloqui di pace avrebbe forse dovuto porre qualche problema a Bintù Keita, la responsabile della Missione, e al generale francese Benoit Chavannat che ne dirige il contingente militare.
Tanto più che i due funzionari e il loro staff non possono non essere al corrente che, malgrado la comunicazione delle FARDC, le ripresa dei combattimenti incombe agli alti ufficiali delle forze governative.
In secondo luogo, questi ultimi hanno stretto un’alleanza con una serie di milizie tribali, tra cui principalmente le Forze democratiche di liberazione del Rwanda (FDLR), i ribelli hutu rwandesi diretti da un gruppo di militari responsabili del genocidio dei Tutsi nel 1994 in Rwanda. Un insieme di gruppi eteroclito che avrebbe dovuto dissuadere la MONUSCO dall’appoggiare questa coalizione di cui fanno parte gli ex-genocidari.
Ci sarebbe poi da fare una terza considerazione. Le Missioni di pace dovrebbero essere neutrali e lavorare per la fine dei conflitti. Ma da quando, da una dozzina d’anni, son divenute Missioni di stabilizzazione, il loro ruolo ha progressivamente subito un’involuzione che le ha portate a gestire la guerra invece d’operare alla ricerca di una soluzione della crisi.
Come nel caso della RDC, dove i fatti di questi giorni sono une ripetizione degli avvenimenti della precedente guerra del 2012-2013. Quando le forze speciali della MONUSCO – la famosa Brigata d’intervento stabilita dalla Risoluzione 2098 del CSNU -, in appoggio alle FARDC, coalizzate anche in quella circostanza con le FDLR, obbligarono l’M23 a ripiegarsi in Uganda.
Il seguito dei fatti è conosciuto. Le clausole del Protocollo di Nairobi, firmato dalla ribellione e da Kinshasa a dicembre 2013 e che prevedeva un’amnistia per i ribell che avevano deposto le armi, la loro integrazione nell’esercito regolare e il ritorno in patria dei rifugiati nei paesi vicini, non sono mai state rispettate dal governo. Tre anni dopo, stanchi dell’attesa, i combattenti dell’M23 son tornati sul suolo del loro paese, stabilendosi nelle alture del Parco di Virunga a gennaio 2017. Armati in caso di attacchi da parte delle FARDC, ma senza intenzioni offensive.
Questa situazione è durata fino a novembre scorso. Poi le FARDC hanno intrapreso una serie di attacchi cotro le posizioni dell’ARC, da cui la guerra odierna, che si svolge in un contesto assai complesso di violenze diffuse contro ler popolazioni civili su tutto l’arco orientale del paese.
Nella provincia dell’Ituri in particolare, una serie di massacri, cominciati l’8 maggio con una strage di circa 150 persone a Banyali-Kilo, nel territorio di Djugu, ha suscitato grande emozione e rinnovate perplessità sulle stato d’assedio promulgato un anno fa in Ituri e nel Nord-Kivu, dopo il quale gli eccidi sono aumentati invece d’arrestarsi.
Qualche giorno dopo questi episodi sanguinosi, il presidente Félix Tshisekedi ha fatto una dichiarazione inaspettata, che ha suscitato enorme scalpore: “Il nostro esercito non è estraneo a quello che succede nell’Est della Repubblica democratica del Congo. E neppure la nostra polizia che favorisce talora le dinamiche dell’insicurezza di cui si fa complice. Bisogna mettere dell’ordine in tutto questo”. Ed aveva poi precisato di essere drasticamente contrario ad allenze eventuali dell’esercito regolare con gruppi armati che lo stesso esercito avrebbe dovuto combattere e smantellare.
Ora, che il capo Stato, che è formalmente il comandante supremo dell’esercito, confessi candidamente di non controllarne le azioni, spiega anche il fatto che lo stesso possa decidere d’intraprendere delle consultazioni coi gruppi armati dell’Est, con l’M23 prima di tutto, mentre le sue armate prendono tutt’altre decisioni attaccando l’M23 stesso.
E le Nazioni Unite in tutto questo? Dagli ultimi accadimenti sul terreno di battaglia, si
sarebbe portati a credere che le FARDC le assumano come interlocutore privilegiato, invece di prendere le proprie disposizioni dall’Esecutivo congolese e dalla Presidenza della repubblica. Facilitate probabilmente dal fatto che tanto le alte sfere dell’esercito che i generali francesi che da sempre si succedono alla testa della MONUSCO nutrono la stessa
avversità nei confronti di un movimento, l’M23, la cui base di massa è la comunità
rwandofona del Kivu. Un’antipatia, per dirla con un eufemismo, che risale al contenzioso
franco-rwandese degli anni ’90 e all’implicazione di Parigi nel genocidio del 1994 da una parte, al tribalismo esasperato ed inoculato tra le popolazioni dell’Est in conseguenza di questi fatti, d’altra parte.
In tale contesto, suscita preoccupazione a livello delle relazioni tra gli Stati della regione un episodio relativo agli scontri di questi giorni.
Durante i quali diverse bombe partite dalle posizioni delle FARDC hanno colpito i due distretti di Burera e di Musanze in territorio rwandese, facendo danni materiali e numerosi feriti. L’esercito di Kigali ha subito lanciato un comunicato chiedendo spiegazioni e formulando la richiesta di un’inchiesta da parte del Meccanismo congiunto ed allargato di verifica (EJVM) in vigore tra i paesi della regione.
E’ lecito allora chiedersi chi ha interesse a perpetuere la crisi congolese, lunga ormai quasi trent’anni, trasformandola in una nuova crisi regionale.
Perché il comunicato delle Forze di difesa rwandesi (RDF) di cui sopra – sottinteso dalla scelta di rendere pubblici fatti che potevano anche essere trattati per via riservata sul piano diplomatico – testimonia della volontà di affermare la propria estraneità rispetto all’M23, che i falchi di Kinshasa accusano da sempre di essere una milizia agli ordini di Kigali.
E, secondo un osservatore esperto di questo dossier, lascia anche trapelare un certo
malumore nei confronti della RDC, il cui presidente ha appena organizzato un incontro col suo omologo del Burundi, paese le cui relazioni col Rwanda non si sono ancora normalizzate.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa