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Elezioni presidenziali in Turchia. Un rebus

La Turchia si avvicina a grandi passi verso le elezioni Presidenziali e quelle Parlamentari, previste al momento per giugno. Tali passaggi elettorali hanno un fortissimo valore simbolico poiché cadono nell’anno del centenario della fondazione della Repubblica e dovrebbero segnare, nell’immaginario filo-governativo, l’innalzamento del Presidente Erdogan allo stesso livello simbolico, o quasi, del fondatore della Repubblica Kemal Ataturk.

Un nuovo “padre della patria”, ma di stampo islamista, in contrapposizione al laicismo di quello precedente.

La realtà, tuttavia, sta derubricando questo obiettivo ad un sogno piuttosto lontano: finito il tempo delle vacche grasse del decennio passato, l’economia turca è in pesante crisi finanziaria, con l’inflazione media che si attesta sopra l’80% e tocca le tre cifre in taluni settori; anche i disegni espansionistici zoppicano.

Così Erdogan, il suo AKP e l’”Alleanza Popolare” – ovvero la coalizione che lo sostiene – rischiano addirittura di non vincere le elezioni  nonostante il controllo ferreo su tutti gli apparati statali conquistato in anni di purghe interne, effettuate in più passaggi, soprattutto dopo il tentato colpo di stato filo-occidentale del luglio 2016.

Due sono le opposizioni principali: l’”Alleanza Nazionale”, guidata dai repubblicani laici e nazionalisti del Chp, il partito fondato da Ataturk, assieme ad altri piccoli partiti di ispirazione nazionalista ed anche islamista; ed il Partito Democratico dei Popoli (HDP), laico, progressista e “plurinazionale”, a favore dell’integrazione delle minoranze.

Quest’ultimo nato nel 2014 dall’alleanza fra gran parte di quello che era il partito a connotazione curda BDP ed altre strutture della sinistra turca per accompagnare, facilitare e dare rappresentanza politica alle istanze di trattativa fra lo stato turco ed il PKK, che all’epoca sembrava stesse centrando il risultato di giungere alla risoluzione dell’annosa questione curda.

Ma – dal momento in cui l’AKP ha interrotto il negoziato ed ha inteso imbarcare nell’alleanza di governo gli ultranazionalisti del MHP – l’HDP è stato oggetto di una pressione repressiva durissima, con l’accusa di essere il braccio politico del PKK.

Da allora molti sindaci delle aree curde eletti nelle fila del partito sono stati destituiti ed incarcerati, e lo stesso co-presidente Demirtas, già leader in precedenza del BDP, è in ostaggio delle carceri turche dal 2016, nonostante l’autorevolezza conferitagli dall’essersi candidato alle presidenziali di due anni prima, ottenendo circa il 10%.

Ancora ultimamente, la magistratura ha bloccato conti correnti del partito, bloccato i finanziamenti pubblici ad esso diretti ed aperto un processo alla Corte costituzionale per metterlo formalmente al bando.

In lunghi anni di grande repressione, l’HDP ha avuto alcuni importanti momenti di convergenza con l’opposizione repubblicana del CHP, nonostante quest’ultima, in teoria, sia ancora più nemica delle istanze plurinazionali ed ancora più ostile alle minoranze rispetto all’islamismo governativo. A

d esempio, nel 2019 ha contribuito a far eleggere trionfalmente Ekrem Imamoglu come sindaco di Istanbul, appoggiandolo nella ripetizione delle elezioni imposta dopo un pretestuoso ricorso dell’AKP, che aveva perso di poco la prima tornata.

Ora, lo stesso Imamoglu è fra i possibili candidati dell’”Alleanza Nazionale” alle presidenziali e, secondo alcuni sondaggi, sarebbe addirittura in vantaggio su Erdogan.

Di conseguenza, già la mannaia del sistema giudiziario turco si sta abbattendo su di lui: è stato condannato a 2 anni e 7 mesi per insulti alla commissione elettorale che fece ripetere le elezioni di Istanbul e gli è stato intentato un altro processo per corruzione.

La sua candidatura è in forse anche perché, se la condanna subita diventasse definitiva, dopo la sentenza dell’ultimo grado di giudizio prevista per luglio,  sarebbe interdetto dai pubblici uffici e non potrebbe insediarsi come Presidente della Repubblica in caso di vittoria.

Una tale candidatura è pensata anche per attirare la base curda e dell’HDP, che, come detto, già una volta lo ha votato in massa. Inoltre, essendo come Erdogan espressione del potente mondo dei palazzinari turchi, sembra anche in grado di contendere il loro appoggio.

Un altro possibile candidato dell’opposizione repubblicana è Kemal Kilicdaroglu, grigio Presidente del CHP che, però, ha lo svantaggio dell’appartenenza etnica e religiosa, essendo anch’egli espressione di minoranze: è infatti di etnia zaza (un gruppo etnico che si considera curdo, lo stesso di Demirtas) e di famiglia alawita (anche se lui non conferma di esserlo), ramo progressista dell’islam, la cui comunità è spesso “culla” delle organizzazioni progressiste e rivoluzionarie turche.

E’ quindi, propagandisticamente associabile a figure indigeribili per alti livelli dell’apparato statale, e potrebbe perciò essere costretto a spendere l’intera campagna elettorale nel negare le proprie origini. Infatti sembra lui l’avversario “preferito” di Erdogan.

In questo quadro, l’HDP è ancora segnalato al 10% circa e, mantenendo questo consenso alle presidenziali, rinvierebbe l’elezione del Presidente della Repubblica al secondo turno, poiché né Erdogan, né il rivale, raggiungerebbero il 50% al primo turno.

Un suo membro rimasto anonimo ha così spiegato ad Al-Monitor l’intenzione di andare da soli alle elezioni: “Nell’ultimo anno e mezzo abbiamo implorato l’opposizione di sedersi con noi, per forgiare una strategia comune. Invece ci hanno ignorato e disprezzato, credendo che avremmo eseguito i loro ordini e mobilitato la nostra base a loro favore.

La verità è che questa opposizione è fascista quanto Erdogan e non ha alcuna inclinazione a fare qualsiasi cosa per i curdi. Piuttosto il contrario. Così noi diciamo: ‘Lascia che i fascisti si combattano tra loro e noi andremo per la nostra strada’. Se pensano che stiamo bluffando e li aiuteremo a vincere come abbiamo fatto a Istanbul, subiranno un grande shock”.

In ogni caso, la base dell’HDP e le minoranze, in generale, saranno decisive al secondo turno. Pertanto, si prevede che arriveranno offerte e promesse da entrambe le parti.

Erdogan ha ben poco da offrire politicamente, visto che proprio in queste ore sta ordinando un’operazione militare contro le aree della Siria controllate dalle milizie curde, sta continuando la repressione interna e destituendo i sindaci che le comunità curde eleggono.

Negli ultimi giorni, sta facendo trapelare informalmente di essere disposto a mettere sul piatto il destino dei prigionieri, in particolare di Ocalan, al quale potrebbero essere concessi arresti domiciliari in cambio dell’appoggio elettorale.

Il diretto interessato, secondo Al-Monitor, ha già rifiutato ogni offerta ed ogni coinvolgimento.

Il CHP, da parte sua, spera la base dell’HDP voti spontaneamente a suo favore al secondo turno in chiave anti-Erdogan.

Sull’intera vicenda, ovviamente, pendono le manovre pro-Erdogan degli apparati dello stato.

Nonostante tutto, la partita non appare scontata. L’impressione esterna è che Erdogan, in parte facendo ricorso alla forza, in parte mettendo in campo il suo proverbiale pragmatismo, abbia grandi possibilità di vincere le elezioni.

Tuttavia non vi è la certezza come nelle occasioni precedenti, quando l’unico punto di interesse era il distacco imposto ai rivali. Ed anche in caso di vittoria, non è detto che ciò coincida con un rafforzamento del blocco sociale che lo ha tenuto in sella negli ultimi 20 anni.

Anzi. Si intravedono numerosi scricchiolii

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