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Perù: i manifestanti assediano Lima

Giovedì 19 gennaio il Perù profondo si è riversato su Lima, proprio nell’anniversario della sua fondazione da parte dei conquistadores spagnoli.

Per il giorno del Paro National convocato da un ampio spettro di organizzazioni politiche, sindacali e sociali dalle differenti regioni del paese andino – tra cui Apurímac, Cusco, Puno –  le diverse popolazioni sono giunte nella capitale.

I punti di concentramento dei manifestanti sono tra gli altri Plaza 2 de Mayo, Plaza San Martin, Ate (Ceres).

Manifestanti e polizia si sono scontrati in più punti del centro della capitale dal pomeriggio fino a notte fonda in prossimità dei palazzi del potere con un bilancio a metà serata – stando a quanto riferisce la polizia – di 26 poliziotti feriti, e 16 manifestanti a Lima e nelle altre regioni.

Ad Arequipa, nel tentativo di occupare l’aeroporto è morto Jhancarlo Condori Arcana.

Intanto il Paro continua nella capitale, a La Libertad, Puno, Arequipa, Cusco, Ica, Lamayeque.

Un salto di qualità annunciato e preparato da tempo, contestualmente alla ripresa delle mobilitazioni, il 4 gennaio, dopo una breve tregua per le festività.

É stata la riedizione della storica “Marcha de Los 4 suyos” che ad inizio del nuovo millennio suonò le “campane a morto” per il regime di Alberto Fujimori, dopo la sua fraudolenta rielezione e aprì la strada ad cambiamento che da allora non si è effettivamente compiuto fino in fondo, nemmeno con l’elezione di Pedro Castillo.

Il Comitato Politico di Perú Libre in un comunicato del 18 gennaio: «saluta la lotta di tutti i popoli del Perù Profondo, che conducono una lotta dura, asimmetrica e prolungata contro il governo usurpatore e dittatoriale, sostenuto dalla grandi imprenditori peruviani, dai banchieri, l’esercito, la polizia, gli organi di giustizia, il clero e gli Stati Uniti, che hanno violentato la democrazia attraverso il Colpo di Stato del 7 dicembre del 2022».

I manifestanti chiedono cose chiare che sono nel sentito comune della popolazione, così come registrato anche ultimamente dai sondaggi: la liberazione del presidente Pedro Castillo “defenestrato” il 7 dicembre, praticamente sequestrato ed in custodia cautelare preventiva per 18 mesi per volontà del potere giudiziario;  le dimissioni della presidente usurpatrice e assassina Dina Boluarte e del suo nuovo governo che continua a perdere pezzi – con le recenti dimissioni di due ministri; lo scioglimento del Congreso con le elezioni anticipate nel più breve tempo possibile e la possibilità di cambiare la costituzione fujimorista, vera architrave della democradura neo-liberale peruviana.

Secondo un recente sondaggio di Estudios Peruanos (EP) il 69% dei peruviani è a favore dell’elezione di una Assemblea Costituente, mentre un sondaggio precedente, di domenica scorsa, condotto da l’Instituto Estudios Peruanos (ISP) mostrava che il regime della Boluarte aveva un tasso di disapprovazione del 77%, tasso che saliva all’88% per il Parlamento.

Mar Pérez, avvocata della Cndh del Perù – collettivo che raggruppa diverse istituzioni della società civile che operano nella difesa, nella promozione, nell’educazione e nella diffusione dei diritti umani – ha spiegato in questi giorni come il potere giudiziario e quello esecutivo lavorino insieme per placare qualsiasi forma di opposizione ai mezzi repressivi di questo regime: “stiamo di fronte ad una dinamica autoritaria che risulta gravissima per i diritti umani”.

In una precedente intervista aveva reso bene il livello di criminalizzazione contro il dissenso al nuovo corso politico peruviano: “si è edificata una struttura istituzionale che cerca di processare i leader sociali come se fossero terroristi”, quando non li assassina direttamente com’è accaduto a Remo Candia Guevara, dirigente contadino di Anta, ucciso da una pallottola che l’ha colpito al torace, durante le marce di protesta a Cusco l’11 gennaio. Remo era presidente della comunità contadina di Anta, una delle 13 province di Cusco.

Uno dei casi più eclatanti di criminalizzazione con l’utilizzo dell’arbitrario profilo penale del “terraqueo” – derivazione della guerra sporca contro l’insorgenza maoista di Sendero Luminoso – è il caso della detenzione e della stigmatizzazione del Frente de decenza del Pueblo de Ayacucho (Fredepa), una delle organizzazioni più attive nelle proteste.

Dall’inizio delle mobilitazioni contro il golpe della destra oligarchica, sono state assassinate più di 50 persone, con due massacri che resteranno ben impressi nella memoria collettiva del Paese: uno nei pressi dell’aeroporto di Ayachuco il giorno del primo paro national – il 15 dicembre scorso – dove perirono una decina di manifestanti e  l’altro nello scalo aero-portuale di Juliaca, il 9 gennaio, dove sono state assassinate 16 persone.

Secondo le autopsie delle 10 persone morte il 15 dicembre 6 sono state colpite da spari al torace, 3 nell’addome ed uno alla testa: chiaro segno di come si spari per uccidere.

Le ultime morti prima del Paro National del 19 gennaio sono state Sonia Aguillar, di 35 anni, a Macusami, Carabaya nella regione di Puno – uno degli epicentri della protesta nella parte meridionale del Paese – il giorno prima della “Marcha de los quatros suyos” e Salomón Valenzuela, di 30 anni, ferito da pallottole al torace a causa della repressione nello stesso contesto, e deceduto il giorno successivo.

Nonostante questo costante bagno di sangue vi sono parti delle formazioni che appoggiano l’esecutivo che vorrebbero una ancora maggiore militarizzazione.

Tra i più intransigenti spicca Jorge Montoya che recentemente ha presentato un progetto di legge affinché i poliziotti possano sparare se le persone che protestano li superano di numero!

Aveva affermato in precedenza, l’8 di gennaio, che: “se non si ristabilisce il principio di autorità tutto sarà perduto, le forze dell’ordine devono essere autorizzate a sparare”.

Montoya appare come l’alfiere della legittimazione preventiva dei progressivi salti di qualità della militarizzazione del conflitto, così come i gruppi di estrema destra come “La Resistencia” ed i promotori delle varie “Marce per la Pace” (sic!) vogliono rappresentare una supposta mobilitazione reazionaria di massa, tesa a chiedere il ripristino della legge e dell’ordine costi quel che costi.

Dal15 gennaio è stato dichiarato lo stato d’emergenza per 30 giorni in alcune regioni – tra cui la capitale -, che da ampi poteri alla polizia (PNP) coadiuvata dalle Forze Armate, di fatto in continuità con la stessa misura presa un mese fa. Un atto teso a colpire i centri vitali della protesta e ad annichilire alcune incisive forme di lotta: i blocchi stradali e l’occupazione di siti strategici.

Sono state prese inoltre altre disposizioni “a macchia di leopardo” come divieto di circolazione e/o il coprifuoco.

Il braccio armato dell’oligarchia ha poi cercato di sbarrare la strada alle carovane provenienti da diverse parti del paese che hanno raccolto il sostegno delle popolazioni dei territori che attraversavano.

Hanno anche cercato di rendere impossibile l’ospitalità offerta ai manifestanti da parte delle università della capitale – come quella degli studenti dell’Universidad Nacional Mayor de san Marcos nonostante la rettrice abbia chiesto lo sgombero dei viajantes e richiesto l’intervento della polizia – o dell’Universidad Nacional de Ingeniería, in cui le autorità e gli studenti si sono offerti di ospitare le persone che giungevano nella capitale. Qui il rettore Alfonso López-Chau ha dichiarato: “benvenuti nella vostra casa”.

Proviamo a fare una cronaca sommaria di quello che è avvenuto in questa storica giornata per il Perù e per tutta l’America Latina.

Già dalle primissime ore della giornata alcuni siti della capitale venivano protetti da ingenti schieramenti delle forze dell’ordine – con lo spiegamento di più di 10 mila agenti della PNP nel centro di Lima utilizzando anche i blindati – , mentre nel paese iniziavano i blocchi stradali.

Tra i blocchi viari più importanti, la strada Panamericana Sur o Norte sono state bloccate in vari punti nel corso di tutta la giornata.

Alla metà del pomeriggio Provías National ha informato che vi erano 91 strade interrotte.

Oltre a questo è stato impedito l’ingresso di differenti città, come a Huancayo, ed attuato il blocco i trasporti urbani – come a Cusco – o delle attività commerciali fortemente perturbate come a Juliaca da parte degli stessi autisti e degli stessi esercenti commerciali.

Ad Arequipa alcune migliaia di manifestanti hanno cercato di occupare l’aereoporto Alfredo Rodríguez, scontrandosi con la polizia, così come a Juliaca con la polizia che cerca di respingerli con l’uso di gas lacrimogeni.

Intanto nel primo pomeriggio, sono iniziati gli scontri tra manifestanti che cercano di arrivare dall’avenida Abancay al Congreso.

Il 19 giugno segna un “tornante” nelle mobilitazioni in Perù in cui la crisi politica non può che avere due esiti: o la sconfitta dei golpisti  ed il cambio del corso politico o un ulteriore inasprimento del regime in una situazione di insurrezione di massa, pressoché permanente.

Tertium non datur.

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1 Commento


  • Gianni Sartori

    Atlanta (USA): Manuel Teran (Tortuguita) è stato ucciso durante le proteste contro l’abbattimento degli alberi di Gresham Park dove dovrebbe sorgere “Cop City”.

    GRESHAM PARK (ATLANTA): MORTE DI UN MILITANTE AMBIENTALISTA

    Gianni Sartori

    Come (quasi) sempre del tragico episodio esistono almeno due versioni.
    L’infermiere ecologista Manuel Esteban Paez Teran conosciuto come Tortuguita, tartarughina) ha perso la vita il 18 gennaio durante lo sgombero degli accampamenti (circa una trentina) a difesa di una foresta pubblica (Gresham Park, una quarantina di ettari nella regione di Atlanta) in procinto di essere abbattuta per costruire un grande centro di formazione alla pubblica sicurezza. Un manufatto che i dissidenti hanno già soprannominato “Cop City” ritenendo che diventerà un luogo per “l’addestramento alla guerra urbana” (ossia per reprimere manifestazioni e proteste). Causa della morte del venticinquenne, stando al comunicato del Georgia Bureau of Investigation (GBI), un colpo di arma da fuoco esploso dalla polizia.

    Inevitabile ricordare un caso simile, quello di Berkin Elvan , a Gezi Park.
    Colpito da un lacrimogeno, il quindicenne turco era morto dopo 9 mesi di coma (266 giorni) nel marzo 2014. Anche a Gezi Park  la protesta era sorta per protestare contro l’abbattimento di alberi secolari.
    Nel momento cruciale dell’intervento (con utilizzo di cani, bulldozer, lacrimogeni, proiettili di plastica…) Teran si trovava all’interno di una tenda dopo essersi rifiutato di obbedire all’ordine di sgombero.

    Sempre secondo il GBI, il giovano avrebbe colpito e ferito un militare, presumibilmente un membro dell’unità speciale di polizia SWAT (Special Weapons And Tactics) e a questo punto gli altri agenti avrebbero reagito abbattendolo. Ma questa versione non sembra aver convinto gli altri ambientalisti presenti sul luogo.

    Teran, attivo in un gruppo di “mutuo soccorso”, aveva partecipato alla costruzione di piattaforme sugli alberi e di tunnel per almeno rallentare, se non proprio impedire, l’abbattimento delle piante. Nella convinzione che ”questo progetto da novanta milioni di dollari comporta l’abbattimento di un numero talmente alto di alberi da determinare seri danni ambientali”.

    Il soldato rimasto ferito avrebbe subito un primo intervento chirurgico e sarebbe in terapia intensiva in attesa di un ulteriore intervento.

    Durante lo sgombero degli accampamenti sarebbero stati rivenuti “petardi, fuochi artificiali potenzialmente pericolosi, armi bianche, maschere anti gas, fucili ad aria compressa, torce…”.

    Sette persone (tutte di età compresa tra i venti e i 34 anni) sono state arrestate con l’accusa di “terrorismo interno” (avendo – secondo il GBI – appiccato incendi che hanno messo in pericolo le comunità locali) e di occupazione illegale. Per un’altra ventina di ambientalisti, accuse di minore entità.

    Altri arresti c’erano stati nei mesi scorsi quando le forze dell’ordine che rimuovevano le barricate erano stati fatti oggetto del lancio di pietre.

    Da segnalare che da tempo i manifestanti (consapevoli di come la tensione andasse crescendo e dei rischi connessi) avevano chiesto che la polizia non intervenisse portandosi appresso armi da fuoco.

    Gianni Sartori

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