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L’impero del silenzio nel Sahel

Il silenzio, in qualunque modo usato e applicato, è pericoloso tanto quanto la parola. D’altra parte, a ben pensarci, uno non sta senza l’altro perché sono entrambi figli dell’esitazione originale.

Il compito di dare un nome alle cose, nell’affresco biblico del libro della Genesi, è parte costitutiva dell’opera creatrice dell’umanità. Parola e silenzio, ciascuno a modo loro, creano o sottraggono qualcosa di inedito alla realtà. Così come per la parola anche il silenzio si presenta sotto variegate e talvolta opposte forme.

C’è, ad esempio, il silenzio complice di chi vede e sa ma, per opportunismo o vigliaccheria, tace quanto avrebbe dovuto essere gridato dal tetto.

Questo tipo di silenzio si apparenta a quanto, anni or sono, scriveva il giornalista di investigazione del Burkina Faso Norbert Zongo, trovato ucciso il 13 dicembre del 1998 in un’auto … ‘La cosa peggiore non è tanto la cattiveria dei malvagi quanto il silenzio dei buoni’

Il silenzio complice in questione sembra avere una lunga vita nel Sahel e, con ogni probabilità, anche in altre zone.

La cultura del silenzio, di cui si parla con allusioni più o meno esplicite, a popoli e tradizioni ancestrali, si riferisce ad un silenzio che protegge, custodisce, conserva e salvaguarda l’onore e il buon nome della famiglia, della persona o del gruppo. Le popolazioni di origine contadina sviluppano una particolare capacità nell’assumere e creare impenetrabili barriere allo sguardo esterno e molesto di chi appare come ‘straniero’.

La violenza famigliare, simboli culturali, iniziazioni rituali, ma anche efferati delitti o strategie di dominazione potranno perpetuarsi anche grazie a questo tipo di silenzio. In positivo esso permette di ‘resistere’ e ‘dare una ragione’ all’insensatezza di aspetti della realtà che sfuggono ad ogni tentativo di comprensione.

Evidentemente questo non giustifica affatto un tacere, il silenzio appunto, che in definitiva, viene come a ratificare lo stato ‘naturale’ delle cose e dei rapporti sociali. Esso ha, in particolare, caratterizzato l’attitudine di generazioni di donne che hanno sofferto in silenzio l’oppressione e la violenza.

C’è, poi, un silenzio forse unico nell’esperienza umana che è quello del dolore. E’ il silenzio che, spesso, segue il grido di dolore o di rabbia. Come se non esistessero parole in grado di dire, spiegare o semplicemente balbettare l’immensità del dolore di cui si fa l’esperienza.

La malattia, la fame, la guerra, le persecuzioni, l’ingiustizia patita, la riduzione dell’umano a cosa mercantile, il tradimento e l’improvvisa scomparsa di una persona cara.

Questo e molto altro, da mettere sotto il capitolo infinito della sofferenza, proprio per la sua radicale appartenenza al singolo, diventa indicibile. Solo il silenzio, un silenzio denso e, per certi versi, fecondo, può in qualche misura comunicare l’incomunicabile.

E’ il silenzio del testimone dei campi di sterminio dell’epoca nazista che i ‘sopravvissuti’ , tra di loro Elie Wiesel e Primo Levi, hanno vissuto e patito per anni. Hanno avuto bisogno di tempo per tentare di tradurre, spesso ad increduli, il dramma innominabile che li ha cambiati per sempre. I campi continuano in Libia e, lo sappiamo, ‘rimane solo l’Urlo’.

Potremmo infine citare il silenzio che, in assoluto, tutti li contiene e che, a suo modo, li esprime: il silenzio di Dio. Potremmo definirlo come il silenzio assoluto perché oltre e prima del quale tutto rischia di cadere nell’assurdo. Un silenzio attribuito a Dio oppure frutto di coloro che hanno dimenticato ciò che attraversa ogni umana esperienza.

In realtà, contrariamente a quanto si dice, all’inizio di tutto ciò che costituisce la vita e cioè l’amicizia, il lavoro, la morte, il male, la violenza, la sopraffazione, le persecuzioni e l’amore, non troviamo la parola ma il silenzio! Esso è portato via dal vento e, per una misteriosa opera della creazione, lo trasforma in polvere che, del silenzio, è l’immagine più fedele.

 Niamey 27 gennaio, giorno della memoria

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