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Congo. Il fronte della guerra e… quello della pace

Lunedi 23 gennaio a Doha avrebbe dovuto aver luogo, su facilitazione del Qatar, l’incontro tra il presidente della Repubblica democratica del Congo (RDC), Félix Tshisekedi, con il suo omologo del Ruanda, Paul Kagame.

Annullato all’ultimo momento dal primo, il meeting era stato programmato al fine di ristabilire il contatto e il confronto tra i capi di due Stati divisi da pericolose tensioni, su cui si profila la minaccia di una nuova guerra nella regione africana dei Grandi Laghi.

Prospettiva confermata dal rifiuto di Tshisekedi di recarsi a Doha, a cui hanno fatto eco le dichiarazioni – riportate ieri mattina dalla stampa locale – del generale Constant Ndima, governatore militare del Nord-Kivu, provincia orientale della RDC confinante con il Ruanda. Il quale ha affermato: “Tutti i segnali della guerra son visibili, noi dobbiamo prepararci…”.

In realtà, dal mese di novembre 2021, una guerra è già in corso nell’Est della RDC tra il governo di Kinshasa e il movimento del 23 Mars (M23), che si batte per il ritorno dei 75.000 Congolesi rifugiati nei paesi vicini (Uganda, Ruanda, Tanzania, Kenya) e per la pacificazione delle province orientali (Ituri, Nord-Kivu, Sud-Kivu), infestate dalla presenza di 130 gruppi armati tribali, in buona parte emanazione dei politici locali ed alleati dell’esercito, le Forze armate della RDC (FARDC).

Le autorità congolesi lanciano da tempo l’accusa a Kigali, la capitale del Ruanda, di sostenere l’M23. Ma non sono però mai state in grado di fornirne le prove fattuali di fronte alle smentite drastiche del governo ruandese.

Tanto più che queste accuse non sono prese in considerazione dagli altri Stati della regione, i quali si sono invece impegnati – mettendo in piedi il Processo di Nairobi(Kenya) e il Processo di Luanda (Angola) – ad annodare i fili di un Dialogo tra l’M23 e il governo di Kinshasa, e tra quest’ultimo e il Ruanda. Scontrandosi però con la volontà contraria della RDC che, come dimostra il rifiuto di Tshisekedi di recarsi a Doha, mantiene un atteggiamento bellicoso e sembra più propensa a una soluzione militare della crisi.

Ragione per la quale, e fino ad ora, le sue autorità si sono intestardite nel rifiuto del Dialogo, imponendo l’esclusione dell’M23 dal tavolo delle trattative di Nairobi e di Luanda.

In questo quadro, il gioco delle grandi potenze, che hanno integrato nella loro diplomazia la tesi congolese dell’«aggressione ruandese», complica gli sforzi dei paesi africani alla ricerca di una via d’uscita pacifica al conflitto in corso.

Alla testa del «Fronte della guerra», la Francia ha fatto votare il 20 dicembre scorso dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite (CSNU) la Risoluzione 2667 per facilitare l’acquisto d’armi da parte della RDC.

Stati Uniti, Russia e Cina hanno applaudito. La Turchia da parte sua, ha inviato armi e cooperanti, tanto per mettere altra benzina sul fuoco.

Sono queste delle strane convergenze – se si considerano gli schieramenti formatisi dopo che è scoppiata la guerra in Ucraina a febbraio dello scorso anno – certamente dettate dall’appetito per le immense riserve di risorse naturali strategiche del Congo, e di cui il suo governo è il fornitore…

Il sostegno militare alla RDC non si è limitato al voto della 2667 perché, due giorni dopo la sessione del CSNU, due gruppi di mercenari sono arrivati a Goma, capitale provinciale del Nord-Kivu, confinante con il Ruanda e vicinissima al teatro degli scontri con l’M23.

Il primo è costituito dai soldati della società privata russa Wagner, che si sono già distinti in Mali e in Centrafrica per delle gravi violazioni dei diritti dell’uomo, e il cui padrone è uomo di fiducia del presidente Putin; il secondo è quello della società Agemira, formato da ex militari della Legione Straniera francese, in parte originari dell’Europa dell’Est e diretti da un uomo d’affari francese, Olivier Bazin, detto «il colonnello Mario», personaggio sinistro dell’altrettanto sinistra Françafrique, già distintosi per le sue opere non certo caritatevoli in altre crisi del continente (Chad, Costa d’Avorio, Congo-Brazzaville).

In questa “globalizzazione della crisi”, che sposta perniciosamente il corso degli avvenimenti sul piano militare – e che alcuni analisti considerano come un sabotaggio delle iniziative di pace di Nairobi e Luanda, che invece insistono sul Dialogo – non bisogna dimenticare la presenza delle Forze speciali americane, presenti da tempo nell’Est della RDC.

Né, sul piano interno congolese, che le FARDC si avvalgono del supporto di una serie di milizie tribali specializzate nel dare la caccia ai civili sospettati di parteggiare per l’M23. Tra queste, le più pericolose sono le Forze democratiche di liberazione del Ruanda (FDLR), eredi di militari e miliziani responsabili del genocidio del 1994 in Ruanda e portatrici di un’odiosa propagande razzista contro le comunità ruandofone dei due Kivu.

Se le nubi che si addensano all’orizzonte non augurano nulla di buono, anche la Missione dell’ONU nella RDC (MONUSCO) ci mette del suo. Non solo ambiguo, il sostegno che apporta a questa coalizione di FARDC, FDLR, milizie tribali e mercenari di varia estrazione è assolutamente deplorevole se si considera che, nell’insieme, tutte queste forze sono storicamente inclini al crimine di massa perpetrato contro le popolazioni civili.

Solo per quello che riguarda l’esercito regolare, uno degli ultimi rapporti dell’Ufficio congiunto delle Nazioni Unite per i Diritti dell’uomo denuncia le FARDC come responsabili del 65% delle violazioni dei diritti umani per tutta l’annata 2022 e afferma che “in molte regioni della RDC, l’esercito nazionale è visto dalle comunità locali come il gruppo armato più pericoloso”.

Il tutto affermato dall’ONU e paradossalmente in contraddizione con quello che la stessa ONU fa nella RDC, dove collabora con un esercito responsabile reiterato di crimini. Ma le Missioni (dette) di pace dell’ONU son da sempre appannaggio della Francia e alla testa della MONUSCO si trova anche oggi un ufficiale francese, il generale Benoît Chavanat.

Sulle FARDC va anche precisato che, secondo diversi specialisti, testimonianze e altri Rapporti ONU, un cerchio di ufficiali d’élite ha fabbricato, manipola e teleguida altre bande armate che, in Ituri e Nord-Kivu, praticano le stragi di civili da circa 9 anni.

Se nella sua composizione, il «Fronte della Guerra» sembra approfittare di rapporti di forza favorevoli, il «Fronte della Pace» non va però neppure sottostimato; e il cui vantaggio, sul piano psicologico e simbolico, risiede nel suo essere interamente africano.

I paesi della Comunità dell’Africa dell’Est (EAC, secondo l’acronimo inglese) e quelli della Comunità internazionale della regione dei Grandi laghi (CIRGL), promotori del Processo di Nairobi e del Processo di Luanda, rappresentano poco meno della metà della nazioni del continente. Ed hanno un atout considerevole nel comportamento dell’M23, che si adatta a rispettarne condizioni e clausole, malgrado sia escluso dalle riunioni in cui le decisioni sono prese per via del rifiuto di Tshisekedi di aprire al Dialogo con questo movimento.

Sul terreno, le cose stanno evolvendo in maniera positiva. Come stabilito a Luanda, l’M23 ha cominciato a ritirarsi dalle posizioni occupate dopo averne espulso FDLR e altre bande armate tribali, come recentemente a Kibumba e a Rumangabo.

La Forza regionale della Comunità dell’Africa dell’Est (EACRF, secondo l’acronimo inglese, sotto il comando del generale kenyano Jeff Niagah) le prende in carico secondo la modalità di impedirne l’accesso alle FARDC e alle altre milizie, affinché il processo di pacificazione possa essere finalizzato.

Si tratta di una dinamica in movimento perché, nel frattempo, la coalizione riunita dalle FARDC continua ad attaccare le posizioni dell’M23 che si difende, lancia la controffensiva e si occupa di prendere altre località che, epurate dalla presenze delle forze violente, saranno poi cedute a loro volta alla EACRF.

Il percorso di pace s’annuncia lungo e complesso, mentre la diplomazia dei paesi protagonisti della «soluzione africana» resta attiva nel mettere la pressione sulla RDC affinché rinunci all’opzione guerriera e accetti il principio del Dialogo.

Principio postulato qualche settimana fa anche dalla voce autorevole del Santo Padre, costruttore di pace ed in procinto di recarsi in Congo.

In appoggio alla diplomazia di pace di Papa Francesco, i leader dell’EAC dichiarano periodicamente di voler privilegiare l’azione non militare. Anche di fronte alle proteste dei gruppuscoli estremisti manipolati dalle FARDC e pronti a mobilitarsi per imporre la partenza delle truppe dell’EACRF se continuano a rifiutarsi di attaccare l’M23…

La risposta del Segretario generale dell’EAC, Peter Mathuki è stata chiara: «La nostra intenzione non è quella di combattere (l’M23, ndr) e di far scoppiare una guerra che implicherebbe tutta la regione, ma di capire come ristabilire le condizioni del vivere in pace. La crisi nell’Est della RDC deve essere risolta attraverso un processo politico e la presenza del nostro esercito è funzionale al rafforzamento di questo processo», come riportato dal periodico indipendente The East African.

In questo quadro, l’incontro recente di Uhuru Kenyatta, ex presidente del Kenya e inviato come facilitatore del Processo di Nairobi, con 4 dirigenti dell’M23, tra cui il presidente Bertrand Bisimwa, è una legittimazione di questo movimento come facente parte del processo di pace e un messaggio inviato al presidente Tshisekedi perché accetti finalmente di dialogare con l’M23.

Sul posto, vicino al teatro delle operazioni, le cose si susseguono secondo questa stessa ottica. «La priorità è la soluzione politica che include i processi di Nairobi e di Luanda, ha affermato il generale Nyagah. Talora, la guerra non è necessaria per apportare la pace. Poi, perché alcuni si focalizzano sull’M23, quando nell’Est della RDC operano 130 gruppi armati?».

Tra i due fronti della pace e della guerra, la partita è serrata. La presenza del sovrano primario, il popolo congolese, stanco di 30 anni di guerre, nel primo potrebbe essere risolutivo per spostare l’ago della bilancia a favore del Dialogo e voltare una pagina lunga e tragica della storia del Congo e dell’Africa centrale versante Grandi Laghi.

Sulla situazione in Congo vedi anche:

Il ruolo delle Nazioni Unite nel teatro delle ombre congolese

Congo. Il blocco occidentale, con in testa la Francia, sceglie la soluzione militare 

Sicurezza e pace contro imperialismi e tribalismi

Dossier Congo. Il dramma di una guerra imperiale e di una comunicazione deviante    

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1 Commento


  • Gianni Sartori

    AFRICA E MINERALI STRATEGICI: CONTRADDIZIONI O INCONGRUENZE?

    Gianni Sartori

     Non ho proposte, tantomenosoluzioni (tranne forse quelle – troppo drastiche? Fuori tempo massimo?…del “secolo breve”, tipo radicale superamento del capitalismo e dell’imperialismo). Ma non posso fare a meno di cogliere l’incongruenza. Praticamente in sintonia temporale, su riviste già benemerite e notoriamente specializzate sull’Africa (originariamente di matrice missionaria, poi in parte “deturnate” verso aspetti affaristici, finanziari, turistici – anche ufficialmente con intenti umanitari) da un lato ci si straccia le vesti per l’estrazione selvaggia dei “minerali strategici” (rame, cobalto, litio, manganese, platino, coltan…), causa di sfruttamento e degrado ambientale, ma indispensabili per la “transizione energetica”, il soidisant  settore green” (le “fonti rinnovabili – batterie al litio per veicoli elettrici, pannelli solari … che di green a mio avviso ultimamente  hanno ben poco, altro esempio di termine “deturnato”). Dall’altro (ossia su altre testate comunque abbinate alle prime, rivolte agli stessi abbonati) si auspica il corposo finanziamento (oltre 700 miliardi di dollari si ipotizza da parte della Standard Bank Group) delle attività estrattive. Le quali, par di capire, andrebbero ulteriormente sviluppate. Ufficialmente per rendere partecipi dei benefici le popolazioni africane. Anche se poi è assai probabile che a guadagnarne saranno al solito i detentori del potere politico e militare, le classi benestanti…(quelle a cui si rivolge l’export del design, del vino, della cosmetica, della moda e del lusso italici, v. il solito Camerun).

    Mentre, ripeto, ai diseredati e agli ecosistemi toccherà pagarne il prezzo salatissimo.

    Quasi un “procedere” sparsi” verso il medesimo obiettivo. Che – a mio modesto avviso – non sarebbe altro che una forma edulcorata, camuffata, rivestita…di neocolonialismo (sia a livello economico che culturale).

    Non ho ripeto, proposte o alternative, ma qualcosa mi sfugge, non mi quadra….

    Sia infine detto per inciso. Stando alla mia modesta esperienza, l’elettrico attualmente sembra operare anche in ambiti assai poco “green” . Vedi il proliferare delle MB elettriche che scorrazzano su percorsi dove sarebbe corretto procedere con il “cavallo di San Francesco”. Rovinando sentieri collinari e montani e mettendo a repentaglio la sicurezza degli escursionisti tradizionali.
    Per non parlare di Suv e fuoristrada elettrici. Ci manca solo una riedizione della  Parigi-Dakar in versione “ecosostenibile”…
    Ma questa è già un’altra storia. Ne riparleremo.

    Gianni Sartori

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