E due. Anche la Corte di Giustizia Internazionale ha emesso una sentenza con cui ordina ad Israele di fermare immediatamente l’offensiva su Rafah, ultimo ridotto per i civili nella Striscia di Gaza, nonché di mantenere aperto il valico di Rafah per favorire l’ingresso degli aiuti umanitari e consentire l’ingresso degli investigatori nella Striscia di Gaza.
La risposta di Tel Aviv, dopo appena un’ora, è stato un bombardamento proprio su Rafah.
Ancora più deliranti, se possibile, le dichiarazioni dei principali esponenti del governo sionista, compreso quello che viene presentato come una “speranza di pace”, vale a dire Benny Gantz.
Ma andiamo con ordine.
Intanto il tribunale. La Corte di Giustizia Internazionale ha sede a L’Aja, nel Palazzo della Pace. Quella che sta invece esaminando la causa avviata dal Sudafrica contro Israele per genocidio è la Corte Penale Internazionale, che ha sede a tre chilometri di distanza dalla prima.
Le differenze tra le due corti sono sostanzialmente di competenza. Quella “di Giustizia” è chiamata a pronunciarsi sui comportamenti degli Stati, e quindi su contenziosi internazionali, prima o dopo che siano sfociati in guerre aperte.
Quella “penale” esamina invece gli atti commessi da individui – anche se alla guida di governi – e può emettere mandati di cattura internazionali che obbligano i diversi paesi ad arrestare coloro che vengono indicati.
Netanyahu e il ministro della difesa Gallant ne hanno ricevuto uno nei giorni scorsi, a riprova del fatto che l’accusa di genocidio (o per alcune delle condotte qualificabili come tale) è tutt’altro che campata in aria (qualcuno deve dirlo ai media italiani, che ancora non se ne sono accorti).
La seconda differenza importante riguarda la dimensione del riconoscimento internazionale delle due corti. Quella “penale” è riconosciuta da 124 Stati – tutti quelli dell’Unione Europea e di gran parte del mondo, praticamente due terzi di quelli esistenti, meno Usa, Cina, Russia, India, Ucraina e la stessa Israele.
La Corte di Giustizia, invece, è un organo delle Nazioni Unite e dunque è riconosciuta da tutti gli Stati membri. Senza alcuna eccezione. Anche da Israele.
Le sentenze di quest’ultima sono “definitive, inappellabili e vincolanti”. Ergo lo Stato che ne diviene oggetto deve attenersi a quanto ordinato altrimenti verrà perseguito nei termini decisi dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
E qui casca l’asino del “diritto internazionale”… Per eseguire le sentenze c’è bisogno della “forza” e nel Consiglio di Sicurezza ci sono cinque paesi (sui quindici componenti) che sono membri permanenti e dispongono del diritto di veto. Gli Stati Uniti vi fanno regolarmente ricorso ogni volta che una decisione sgradita riguarda Israele.
Sul piano pratico-militare, insomma, la sentenza di ieri non può avere effetti concreti, come Tel Aviv ha voluto precisare subito bombardando ancora una volta. Ma sul piano delle relazioni internazionali è chiaro che si va stringendo il numero dei paesi disposti a chiudere un occhio sullo sterminio dei palestinesi in atto.
Solo nell’ultima settimana tre paesi europei hanno deciso di riconoscere lo Stato di Palestina (Spagna, Irlanda e Norvegia); Francia e Belgio hanno deciso di rispettare il mandato di cattura per Netanyahu e Gallant (che dunque non dovrebbero poter più andare a Parigi o Bruxelles).
Il “fronte occidentale” che fin qui ha garantito a Israele la totale impunità si va insomma sfaldando. E il resto del mondo da decenni considera quello sionista alla stregua di uno “stato canaglia”.
La novità della sentenza della Corte di Giustizia sta comunque nella reazione israeliana, che va ormai assumendo i lineamenti del delirio suprematista e millenarista.
Il portavoce di Netayahu ha infatti dichiarato che «nessun potere al mondo fermerà Israele dal proteggere i suoi cittadini». Il che equivale a mettere Tel Aviv fuori da qualsiasi consesso internazionale e contro tutto il mondo.
Il ministro della sicurezza interna, Itamar Ben Gvir, è andato un passo più in là: «L’ordinanza irrilevante della corte antisemita dell’Aja dovrebbe avere una sola risposta: l’occupazione di Rafah, l’aumento della pressione militare e della completa distruzione di Hamas, fino al raggiungimento della completa vittoria nella guerra».
Dare dell’”antisemita” anche alla Corte chiarisce che il termine, ormai, non significa più nulla. Serve solo a tentare di marchiare chi critica, in qualsiasi modo – foss’anche con una sentenza giuridicamente ineccepibile e presa con tutti i crismi (e le mediazioni) del diritto internazionale – le follie di Israele.
Non paradossalmente, un uso così abnorme del termine finisce per agevolare la semina d’odio degli antisemiti storici (fascisti e nazisti), che – guarda caso – sono oggi ovunque politicamente “al fianco di Israele”, riservando gli slogan classicamente antisemiti ai discorsi da osteria o ai cori da stadio.
Soprattutto, queste “risposte” chiariscono che i sionisti si ritengono al di sopra del resto dell’umanità. Intoccabili dalle leggi e dalle convenzioni che obbligano ogni essere umano che voglia vivere insieme agli altri. “Superuomini” che possono calpestare a proprio piacimento gli “untermenschen”. Discorsi già sentiti e pratiche già sconfitte. L’esito è prevedibile…
Il suprematismo – fondato sulla “razza” o sulla fede religiosa – va espulso definitivamente dalla storia umana. Possibilmente utilizzando il potere della Ragione, che a Tel Aviv sembra non avere più cittadinanza…
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Maurizio
Israele non si può spostare in Patagonia?
Anto Usai
Aggiungo che il ministro delle finanze di Israele ha annunciato il blocco delle rimesse ai cittadini palestinesi ed ala Autorità palestinese, nuovi insediamenti di colo in Cisgiordania ed intensificazione dei posti di blocco come ritorsione all’ annunciato riconoscimento della Palestina da Spagna, Irlanda e Norvegia: in pratica vengono scaricate sui palestinesi le rappresaglie rabbiose dello stato ebraico con un chiaro messaggio: chi sostiene i palestinesi sappia che lo facciamo scontare a loro più che a voi con una solare criminale perfidia che induce a trovare la identità con la condotta di quei serial killers che minacciavano ritorsioni su un sequestrato se la polizia cercava di catturarli.