La decisione di Macron, questo lunedì, di scartare l’ipotesi di nominare un governo con a capo Lucie Castets scelta unitariamente dal Nuovo Fronte Popolare – ovvero la coalizione che ha ottenuto più deputati alle elezioni politiche anticipate francesi – ha inasprito la crisi politica apertasi con la decisione del Presidente della Repubblica di chiamare i francesi alle urne, comunicata la sera delle elezioni europee del 9 giugno.
La decisione di non nominare la Castets è stata giustificata con la motivazione piuttosto discutibile della “stabilità istituzionale”, perché un possibile governo del NFP sarebbe di minoranza, e potrebbe essere esposto ad una “mozione di sfiducia”. Una decisione politica, quella di Macron, che non ha nulla a che fare con il dettame costituzionale.
In primis, bisogna ricordare che gli esecutivi succedutisi dopo la rielezione di Macron – ottenuta grazie ai voti del “fronte repubblicano”, che non voleva vedere Marine Le Pen alla presidenza del paese – erano governi di “minoranza” che hanno preso decisioni importanti (come l’allungamento dell’età pensionabile od una legge sull’immigrazione) appoggiandosi fondamentalmente ai voti dei gollisti di LR, ma anche quelli di RN della Le Pen.
Colui che voleva sbarrare la strada all’estrema destra, gli ha invece aperto un’autostrada, come dimostra l’exploit di RN.
Secondariamente, Macron non avrebbe infatti avuto alcun problema a conferire l’incarico alla coalizione di estrema destra imperniata sul Rassemblement Nationale, e che comprendeva la componente dei gollisti che aveva seguito il presidente di LR Eric Ciotti e l’ex transfuga del RN Maréchal, se la coalizione fosse stata la più votata dai francesi anche senza i 289 deputati necessari per avere la maggioranza in parlamento.
Terzo, ma non ultimo, è abbastanza surreale che un Presidente che ha minato la stabilità con una scelta presa senza consultazioni, neanche con il proprio campo rispetto, ad elezioni politiche anticapate, sacrifichi sul piano della governance la rappresentanza democratica.
Certo Macron “rompe” con il costume politico francese instaurato sull’architettura istituzionale della 5° Repubblica costruita nella seconda metà degli Assi Cinquanta, quando la Francia era in piena “guerra d’Algeria” in una situazione molto vicina alla guerra civile anche in territorio metropolitano.
Però è lo stesso Macron – che la sinistra per il suo comportamento ha cominciato ad etichettare “Mac-Macron” in riferimento a Mac Mahon – che alla fine si allinea al modus operandi della élite politica continentale con una verticale del potere che mette al primo posto la governabilità e l’immutabilità della cabina di comando, qualsiasi messaggio provenga delle urne.
É, mutatis mutandis, l’ ”output democracy” di Mario Draghi, e di fatto la continuazione dei consigli che la Trilateral dava già da metà degli Anni Settanta a quello che di fatto dichiarava essere un surplus di democrazia in Occidente in un momento di crisi di legittimità delle sue élite.
Oltre ad escludere un governo del NFP, nelle consultazioni, Macron ha deciso di escludere La France Insoumise dopo che era stata proprio la LFI – tramite il suo fondatore Jean-Luc Mélenchon – ad aprire ad un governo della Castets senza ministri o ministre insoumis/es: una strategia attuata illo tempore dal PCF, durante il Fronte Popolare della seconda metà degli Anni ’30.
Questo anche per bypassare i veti incrociati annunciati dai macronisti fino l’estrema destra passando per i gollisti, che avrebbero spinto ad una “mozione di sfiducia” rispetto ad un governo del NFP con ministri de La France Insoumise.
Ma è chiaro che il problema essenziale non è la presenza o meno di LFI nella compagine governativa, ma il programma economico del Nuovo Fronte Popolare che stabilirebbe una “rottura” con la politica liberista degli esecutivi precedenti, almeno degli ultimi sette anni, in un momento in cui il collare a strozzo della UE suggerisce il “congelamento” dei conti pubblici ed un mantenimento di una politica fiscale fortemente regressiva, nonostante un’economia che oscilla tra la stagnazione e la vera e propria recessione.
La France Insoumise aveva già minacciato di proporre una mozione di “destituzione” del presidente qualora non avesse nominato la Castets – una proposta non condivisa dai socialisti; ora la ripropone come uscita dalla crisi politica vista la chiara contrapposizione tra il potere rappresentativo dell’Assemblea e quello presidenziale, insieme ad una prima mobilitazione il 7 settembre, sostenuta anche dal PCF e dagli ecologisti di EELV.
Bisogna ricordare che di fronte all’esclusione de LFI dalle consultazioni, gli altri componenti della coalizioni hanno risposto compatti, decidendo di non presentarsi alla convocazione, suscitando comunque il “malpancismo” della destra socialista da tempo sul piede di guerra contro la direzione di Olivier Faure, che accusano di essere subordinato a Jean-Luc Mélanchon.
La fronda socialista è sostenuta “dall’esterno” dall’euro-deputato Glucksman, che sogna una riconfigurazione di un polo politico socialista che rompa ogni rapporto con la LFI e “sostituisca” Macron.
E proprio dal regolamento di contri all’interno del PS, e dalla possibile nomina di Macron di una figura proveniente dalla destra socialista come Primo Ministro, con la composizione di un governo “tecnico” di coalizione benvoluto dalle élite politiche continentali e dal padronato europeo di origine francese, che potrebbe scaturire una exit strategy all’attuale impasse politica senza risolvere la grave crisi democratica che sta attraversando il paese.
Un paese che ha votato sia per non avere un governo d’estrema destra che per superare la macronie.
Il Piano B sarebbe “un patto legislativo” proposto dai gollisti che darebbero appoggio esterno ad un esecutivo di minoranza di Ensemble, e che traghetti il paese fino alla prossima estate, quando si potranno convocare nuove elezioni politiche, bypassando il voto dell’Assemblea su alcune questione strategiche come già fatto con la precedente legge finanziaria e la riforma pensionistica, appoggiandosi all’estrema-destra sui temi più reazionari.
Insomma, mutatis mutandis, sembra che si riapra uno scontro come quello che contrappose alla fine degli anni Settanta dell’Ottocento Mac Mahon – che uscì con le ossa rotte dallo scontro con l’Assemblea Nazionale – e Gambetta.
“Quando la Francia avrà fatto intendere la sua voce sovrana, credetelo, bisognerà sottomettersi o dimettersi”, tuonò il 15 agosto del 1877 Gambetta contro Mac Mahon, che portava avanti una forzatura politica per avvantaggiare la destra monarchica, fregandosene della volontà popolare.
É chiaro che la capacità di creare dei rapporti di forza favorevoli attraverso la mobilitazione di piazza, a cominciare dal 7 settembre, coinvolgendo quell’arco di forze che si sono mobilitate per sostenere il NFP alle recente elezioni politiche, sembra essere l’unica chance per sfuggire alla morsa che le élite continentali stanno stringendo attorno alla volontà di cambiamento – e non semplice alternanza – espressi con il voto delle politiche anticipate.
Nei giorni precedenti la segretaria della CGT – Sophie Binet – sindacato che aveva sostenuto il NFP, aveva già annunciato per fine settembre/inizio ottobre una “ripresa offensiva”, cui sta lavorando, su vari temi posti da tempo dall’organizzazione sindacale: dalla preparazione della finanziaria per il 2025 all’”abrogazione della riforma delle pensioni, i salari, i servizi pubblici, la re-industrializzazione, la parità tra i sessi, ecc.”, denunciando che “sulle nostre lotte, non abbiamo alcun interlocutore, sono i pieni poteri padronali”.
Insomma, dopo le urne, parleranno le piazze.
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Tiberio
Macron non rinuncerà alla nuova Campagna di Russia… ne va del suiprematismo francese.