Nel 2021, dopo la fase emergenziale del Covid-19 e con la tensione internazionale già vicina a un punto di rottura, la presidente della Commissione Europea von der Leyen lanciò un nuovo programma economico dal nome Global Gateway. Lo scopo dichiarato era quello di investire 300 miliardi di euro in progetti nel Sud del mondo, per favorirne lo sviluppo.
In un clima di piena competizione globale, questo impegno veniva presentato come una risposta alla Nuova Via della Seta cinese, considerata come uno strumento di proiezione delle mire del Dragone. La narrazione che sentiamo da tempo è che i progetti finanziati da Pechino creino una trappola del debito e stiano strozzando i paesi poveri.
La realtà sottolineata da studiosi e organizzazioni internazionali è tutt’altra (nonostante si tratti pur sempre di affari, dove nulla viene fatto se non secondo una logica di guadagno; bisogna vedere se unilaterale o reciproco). Mentre dopo tre anni dal lancio del Global Gateway si possono fare le prime valutazioni, visto che era stato pensato e sviluppato senza ascoltare i paesi interessati.
Un rapporto da poco redatto da Oxfam, Counter Balance ed Eurodad ha analizzato 40 progetti, di cui molti considerati ‘flagship’, ovvero strategici e dunque finanziariamente e scientificamente più rilevanti degli altri. Il verdetto è così riassunto: il Global Gateway dà priorità “alle opportunità per le imprese europee nel Sud Globale rispetto allo sviluppo di obiettivi come la riduzione della povertà“.
Il Global Gateway era stato presentato come “il terzo vettore della politica economica estera” della UE, in cui “38 milioni di posti di lavoro dipendono dal commercio internazionale“. Gli investimenti dovevano aiutare nella lotta alle disuguaglianze, nella protezione dei diritti umani, nello “sviluppo sostenibile“.
Una retorica, questa, che spesso accompagna le politiche neocoloniali occidentali, e anche stavolta il copione è lo stesso. Le azioni concrete della UE “rischiano di contraddire l’impegno a sostenere alti standard di diritti umani, sociali e dei lavoratori, la trasparenza, a creare relazioni eque invece che dipendenze, e a offrire un’agenda di investimento democratica“.
Le tre organizzazioni che hanno redatto il rapporto si chiedono nel titolo “Chi guadagna dal Global Gateway?“, di cui i 225 progetti ‘flagship’ ad oggi si suddividono così: 49% nel settore del clima e dell’energia, 22% nei trasporti, 13% nel digitale, e solo il 9% nella sanità e il 7% nell’istruzione. La risposta è, ovviamente, il grande capitale su base continentale.
Dei 40 progetti esaminati, in 25 di questi sono coinvolte importanti imprese europee. Si potrebbe ribattere che siamo ancora in un’economia di mercato, e che tutto ciò è fisiologico, se solo non fosse che 7 di queste multinazionali (Moller Maersk, Enel, Meridiam, Orange, Nokia, Total Energies, Siemens) siedono anche nel “Global Gateway Business Advisory Group”.
Si tratta di un gruppo di esperti che è stato istituito dalla Commissione Europea per consigliare le istituzioni sugli investimenti, e al suo interno vi sono i rappresentanti di 59 grandi aziende. In pratica, gli interventi finanziati dalla UE sono orientati da quegli stessi grandi agglomerati capitalistici, che poi partecipano ai bandi e si accaparrano i fondi.
Difficile trovare un esempio più lampante di un conflitto di interessi su scala gigantesca, e anche di come il “libero mercato” sia una favola che non corrisponde alla realtà. Inoltre, mostra la assoluta coincidenza tra gli orizzonti strategici della UE e gli interessi a medio termine delle multinazionali del Vecchio continente.
Sono due processi sempre più veloci – centralizzazione dei capitali e verticalizzazione delle decisioni politiche – che vanno a braccetto nelle stanze di Bruxelles. A risentirne è anche la presunta “democraticità” delle sue istituzioni: a governare sono i lobbysti, mentre i politici sono sempre più chiaramente gli esecutori delle loro volontà.
La Global Gateway Civil Society and Local Authorities Advisory Platform è una rete di 57 membri che dovrebbe aiutare a indirizzare i progetti verso gli obiettivi prefissati. 49 di questi membri sono organizzazioni della società civile, ma poiché una disposizione europea del 2012 considera anche le “associazioni legate al mondo imprenditoriale” come “società civile”, il risultato è paradossale.
Tra gli esempi evidenziati nel rapporto, vi è la Internet Society, che “promuove lo sviluppo di Internet come infrastruttura tecnica globale“. Tra i suoi partners vi sono Amazon, Google e persino Nokia, che è anche nel Global Gateway Business Advisory Group di cui si è già parlato e che “aiuta” la Commissione a prendere decisioni di investimento.
Viene dunque sottolineato il “deficit democratico del Global Gateway in assenza di ruoli vincolanti per i parlamenti del Sud Globale e dell’Europa“. Nero su bianco, si legge che i consessi eletti democraticamente non hanno voce in capitolo, e tutto è deciso tra i rappresentanti dei grandi gruppi capitalistici e i commissari europei.
Lo studio di Oxfam, Counter Balance ed Eurodad si conclude affermando che questo grande progetto europeo non è stato implementato in maniera trasparente, e rischia di avere addirittura un impatto negativo sia sull’ambiente sia sui diritti umani. Ma è il primo punto delle conclusioni che vale la pena di tradurre e riportare nella sua interezza.
“Il Global Gateway promuove gli interessi commerciali e geopolitici dell’UE, incoraggia la privatizzazione di infrastrutture e servizi pubblici nel Sud globale e rischia di aumentare l’onere del debito dei paesi partner. È lecito chiedersi se la priorità del Global Gateway sia quella di favorire gli investimenti dell’UE a livello globale o di combattere la povertà e la disuguaglianza nel mondo“.
La risposta sembra autoevidente, a leggere il rapporto e le scelte di Bruxelles.
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