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Con Trump anche l’Aukus ci rimette, ma per avvicinare il “fronte” alla Cina

Negli ultimi anni gli Stati Uniti hanno sviluppato dei patti strategici e di difesa che sono andati oltre il perimetro dei tradizionali alleati del Patto Atlantico, guardando alla situazione dei propri interessi negli altri due oceani. L’area indo-pacifica è diventata il centro del confronto internazionale, e di conseguenza anche il centro dell’attenzione di Washington.

Il risultato è stata la creazione, rispettivamente nel 2017 e nel 2021, del QUAD (Australia, Giappone, India e USA) e dell’AUKUS (Australia, Regno Unito, USA). Si tratta di due patti per la sicurezza che vedono in maniera abbastanza esplicita Pechino come il nemico principale da combattere nei prossimi decenni.

Questa transizione verso l’indo-pacifico è dunque un processo che dura da anni, ma che con Trump ha fatto un balzo in avanti, tanto da mettere in discussione l’utilità e così anche l’esistenza stessa della NATO (appena una settimana fa Musk ha scritto su X che gli USA dovrebbero uscirne).

Ora non solo i paesi europei, ma anche un altro storico alleato di Washington nel Pacifico deve fare i conti con la velocizzazione delle dinamiche di crisi in cui si dimena l’imperialismo occidentale. Infatti, l’Australia – parte sia del QUAD che dell’AUKUS – potrebbe non ricevere più i sottomarini stelle-e-strisce che le erano stati promessi.

Gli accordi presi nella cornice dell’AUKUS prevedevano una maggiore presenza nelle acque australiane di ‘Sottomarini da attacco a propulsione nucleare’ (SSN), con l’obiettivo di inaugurare una nuova classe di vascelli che dovrebbe prendere proprio il nome di SSN-AUKUS. Il primo dovrebbe essere costruito in Australia dal Regno Unito all’inizio degli anni Trenta.

Nel frattempo, Washington aveva promesso a Canberra la vendita, nel prossimo decennio, di tre sottomarini classe Virginia, per rafforzare la Royal Australian Navy. Ora, però, questa parte dell’accordo sembra a rischio, stando alle parole del sottosegretario alla Difesa Elbridge Colby, di fresca nomina trumpiana.

Il politico statunitense ha detto di essere “scettico” sulla vendita dei tre sottomarini all’Australia, perché ciò potrebbe indebolire la marina stelle-e-strisce, con il rischio che quelle imbarcazioni non si trovino “nel posto giusto al momento giusto“. Quel posto è a ridosso della Cina, e il momento non è molto lontano, a suo avviso.

Infatti, in una testimonianza al Senato, Colby ha affermato che esiste “una minaccia molto reale di un conflitto nei prossimi anni” che potrebbe coinvolgere la Prima linea di isole. Con questa definizione si intende un concetto strategico elaborato in ambito statunitense riguardante il contenimento delle minacce che potrebbero arrivare dal Pacifico.

Si tratta di quell’arco insulare che va dal Borneo fino alle Isole Aleutine, da Singapore all’Alaska passando per le isole di Formosa e quelle giapponesi. Colby ha detto esplicitamente che i sottomarini Virginia “sono assolutamente essenziali per la difesa di Taiwan“, e non per zone meno prossime alle coste cinesi.

Washington sta insomma parlando di una sorta di razionalizzazione delle capacità militari che può mettere in campo, per dispiegarle lì dove risulta più utile. Gli Stati Uniti devono fare i conti con il proprio debito e questo riguarda anche  la spesa militare. Tagli da cui però sembrano essere stati esentati proprio i vascelli Virginia.

Ma poiché la flotta di sottomarini statunitense risulta essere di un quarto al di sotto degli obiettivi prefissati, con i cantieri navali che non riescono a stare al passo delle richieste, sembra logico ai nuovi inquilini della Casa Bianca di evitare la vendita di mezzi così importanti verso zone di minor priorità strategica.

Poco più di un mese fa, l’Australia ha versato una prima rata di 500 milioni di dollari agli USA come parte di un accordo del valore totale di 3 miliardi, che dovrebbero andare a sostenere la cantieristica statunitense. Motivo per cui è difficile che Trump voglia far davvero saltare l’AUKUS, anche perché è ciò di cui ha bisogno nel confronto con la Cina.

Il messaggio inviato dalla nuova amministrazione di Washington è che le necessità strategiche verranno calcolate nella maniera più stringente possibile, con il mantra dell’America First. Nessuno si salverà dalla riorganizzazione avviata da Trump, e gli alleati devono mettersi in testa che è questo il nuovo scenario in cui dovranno muoversi.

Ma ciò che davvero preoccupa – ovviamente – non è tanto che l’Australia “dovrà pensare di più da sola alla propria difesa”, e non potrà contare sugli USA. Quanto che Colby abbia esposto candidamente la possibilità di un prossimo scenario di guerra aperta, che vedrebbe la questione Taiwan al centro.

La difesa dello stato insulare che Pechino considera parte integrante della Cina (e gli Usa lo avevano in qualche misura riconosciuto fino a qualche anno fa) sembra cozzare con il riconoscimento formale della politica di “Una sola Cina“. Le contraddizioni della competizione globale macinano terreno, ricordiamocelo la prossima volta che parleranno di una guerra “per difendere la democrazia”.

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