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Il coraggio del Venezuela davanti all’arroganza statunitense

Nel corso delle celebrazioni per il 105º anniversario dell’Aviazione militare bolivariana, il presidente Nicolás Maduro ha rivolto un appello al popolo venche suona come una chiamata alla difesa collettiva della patria: rimanere vigili, imperturbabili, pronti a rispondere a ogni minaccia esterna.

Maduro ha ricordato come ormai da 17 settimane gli Stati Uniti mantengano un dispiegamento militare imponente nei Caraibi, uno scenario che rievoca le pagine più buie dell’ingerenza imperialista nella regione. Tre navi da guerra, quattromila soldati e il pretesto – sempre più fragile – della “lotta al narcotraffico” hanno riportato la tensione a livelli che il Venezuela non affrontava da anni.

Un dispositivo navale che non convince né l’opinione pubblica statunitense né quella internazionale, e che appare per ciò che il governo di Caracas denuncia da tempo: una strategia di pressione e destabilizzazione contro una nazione sovrana.

Il presidente ha sottolineato che nessuna campagna di intimidazione può piegare la volontà del popolo venezuelano. Un popolo che, secondo i dati citati dallo stesso Maduro, respinge per oltre il 94 percento le minacce di intervento militare e che, nell’82 percento dei casi, si dichiara disposto a difendere la patria “con le armi in mano”. Numeri che raccontano una compattezza nazionale rara e che rendono evidente come la minaccia esterna stia generando l’effetto paradossale di rafforzare il tessuto patriottico interno.

Nel frattempo, gli attacchi condotti dal dispositivo militare statunitense contro imbarcazioni sospettate di narcotraffico hanno già provocato la morte di oltre 83 persone in soli due mesi. Caracas denuncia questi episodi come azioni letali e arbitrarie, violazioni dei diritti umani mascherate da operazioni di contrasto al crimine.

E mentre cresce l’indignazione internazionale, Washington continua nella sua escalation: la scorsa settimana, la USS Gerald R. Ford, la più grande portaerei del mondo, è entrata ufficialmente nelle acque caraibiche, a pochi giorni di navigazione dalle coste venezuelane.

Di fronte a questo scenario, il Venezuela ha risposto schierando l’intero suo sistema d’arma per attivare una nuova fase del Piano d’Indipendenza 200, un dispositivo strategico dedicato alla sicurezza globale del Paese e alla preservazione della sua sovranità. È una mossa che non nasce dalla volontà di alimentare la tensione, ma dal diritto fondamentale di qualsiasi nazione a difendere la propria integrità.

Diversi governi e organismi internazionali hanno già condannato il dispiegamento statunitense, ribadendo la necessità che l’America Latina e i Caraibi rimangano una “zona di pace”. È una presa di posizione che conferma quanto sia rischioso riportare la regione al centro di logiche militari che appartengono a un passato che si sperava superato.

In questo contesto, l’appello di Maduro non è soltanto un messaggio interno, ma un avvertimento rivolto al mondo: il Venezuela non si farà intimidire. La sua storia, la sua identità e la sua determinazione collettiva rimangono vive e vigili. E se la storia, come ha detto il presidente, domandasse ancora una volta al popolo venezuelano di dichiararsi “una repubblica in armi”, Maduro è convinto che il Paese saprebbe risorgere, compatto e indomito, per difendere la propria libertà.

Irina Smirnova – * da Il Faro di Roma

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Il Venezuela siamo noi

Di fronte all’ennesimo attacco proveniente dagli Stati Uniti contro la Repubblica Bolivariana del Venezuela, non possiamo che esprimere una condanna ferma, indignata, radicale. Ancora una volta, a Washington scelgono la strada del discredito, della calunnia, dell’ingerenza palese negli affari sovrani di un Paese che ha dimostrato, con una coerenza storica non comune, di voler camminare con le proprie gambe e di voler difendere la propria dignità.

Il recente annuncio del Dipartimento di Stato, che tenta di associare il Venezuela a una presunta “rete di narcotraffico”, è una mossa che non solo manca di qualunque fondamento, ma che appare parte di un copione ormai logoro, criminalizzare chi non si piega all’ordine imperiale. È un meccanismo ripetuto, prevedibile, eppure ogni volta più pericoloso, perché alimenta l’escalation di una politica estera statunitense che non ha altro strumento se non la coercizione, l’embargo, la destabilizzazione.

Questa operazione non è un episodio isolato, né un incidente diplomatico. È il tassello di una strategia sistematica volta a minare la sovranità venezuelana e a rovesciare il legittimo governo del presidente Nicolás Maduro. La volontà è chiara, spezzare un modello politico che, con tutte le sue contraddizioni, ha messo al centro il protagonismo popolare, la giustizia sociale, l’integrazione latinoamericana e la lotta contro la povertà imposta dalle vecchie élite oligarchiche.

Non è un caso che la comunità internazionale, quella davvero autonoma, non allineata a Washington, abbia reagito con indignazione. Da più parti si denuncia una politica ostile che compromette la pace e la stabilità regionale, una politica che usa il linguaggio della guerra anche quando finge di parlare di sicurezza. Il mondo conosce bene queste dinamiche, prima le bugie sulle armi di distruzione di massa, poi il blocco economico come arma non dichiarata, quindi il golpe giudiziario, il lawfare, la manipolazione mediatica, la costruzione artificiale di nemici interni. È sempre la stessa ricetta, sempre lo stesso tentativo di generare caos per imporre il proprio ordine.

In questo contesto, il Venezuela sta dimostrando, ancora una volta, una resistenza che merita tutto il nostro rispetto. Il popolo venezuelano non solo sopporta il peso enorme delle sanzioni, ma risponde con un coraggio civile che negli ultimi anni ha assunto i contorni di una vera epopea collettiva. Non si tratta di retorica, chi ha messo piede nei barrios, nei comuni popolari, nelle organizzazioni di base, lo sa. Lo sa perché vede ogni giorno una popolazione che difende il diritto a esistere, a scegliere, a non essere colonizzata.

E non meno significativo è il ruolo del suo leader, Nicolás Maduro, che negli anni più duri ha scelto la via del dialogo, della fermezza istituzionale e del ripudio della violenza come strumento politico. Si può non condividere ogni scelta, si può discutere tutto, ma non si può negare che la sua guida sia stata un elemento decisivo nel preservare l’unità dello Stato e la stabilità sociale in un momento in cui molti, fuori e dentro il Paese, scommettevano sul crollo del processo bolivariano.

La domanda che oggi dobbiamo farci, però, è un’altra, basterà questo coraggio? Basterà la determinazione di un popolo e dei suoi dirigenti a fermare la spirale aggressiva degli Stati Uniti? Basterà la solidarietà internazionale, pur crescente, a impedire che l’imperialismo apra un nuovo fronte di destabilizzazione nel cuore dell’America Latina?

Io voglio sperarlo. Voglio sperare che questa resistenza, politica, morale, storica, sia sufficiente. Perché non possiamo permetterci un’altra tragedia costruita a tavolino, un altro Paese trasformato in laboratorio di destabilizzazione, un’altra società costretta a pagare con fame, isolamento e migrazione forzata gli appetiti geopolitici delle grandi potenze.

Il Venezuela, oggi, parla a tutti noi. Parla alla dignità dei popoli del Sud globale, alla loro volontà di non subire. Parla anche all’Europa, che dovrebbe smettere di seguire ciecamente le strategie statunitensi e tornare a un ruolo autonomo, capace di guardare al mondo con occhi non subalterni. E parla alle nuove generazioni, chiamate a capire che il linguaggio dei diritti, della pace e della cooperazione non è compatibile con i ricatti e la prepotenza di chi si proclama arbitro del pianeta.

Il messaggio che viene dal Venezuela è limpido, un popolo che non si inginocchia è più forte di un impero che pretende obbedienza. La speranza, nostra e loro, è che questo basti. Che il coraggio espresso finora sia sufficiente a fermare la mano di chi vorrebbe, ancora una volta, decidere il destino degli altri. E che il diritto all’autodeterminazione torni a essere un principio, non un crimine.

Luciano Vasapollo

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