Non è una recessione, e non è nemmeno una semplice crisi. Quello che si sta consumando nei Territori Palestinesi Occupati è un collasso sistemico che le Nazioni Unite, nel loro ultimo rapporto rilasciato in questo novembre 2025, non esitano a definire come un passaggio “dal sottosviluppo alla rovina totale“.
Si tratta di un’analisi condotta dalla Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD), che fotografa una realtà devastante: l’escalation delle ostilità seguita all’ottobre 2023 ha agito come un acceleratore per una distruzione generalizzata, che si è innestata su di un tessuto già fragile. In soli quindici mesi, Israele ha cancellato oltre vent’anni di sforzi per lo sviluppo economico e sociale.
Ovviamente, la Striscia di Gaza è l’area più colpita. I numeri dell’ONU descrivono un territorio che, nei fatti, non ha più un’economia. Tra il 2023 e il 2024, il PIL gazawo si è contratto dell’87%, riducendosi alla cifra irrisoria di 362 milioni di dollari. Parallelamente, il PIL pro capite è crollato a 161 dollari, uno dei livelli più bassi al mondo, ma anche nei confronti della Cisgiordania. Il reddito di un abitante della Striscia è ormai il 4,6% di quello di un palestinese della West Bank, mentre nel 1994 le due economie si trovavano su piani comparabili.
La distruzione fisica è quasi assoluta. Le immagini satellitari analizzate dall’ONU mostrano un calo del 73% delle luci notturne, simbolo di attività che sono state spente con la forza e che lasciano solo un’atmosfera spettrale. Il 92% delle abitazioni è stato danneggiato o distrutto, lasciando un milione e mezzo di persone senza un tetto sopra la propria testa. Il sistema scolastico è collassato, con gli studenti privi di istruzione formale da quasi due anni, mentre il 50% degli ospedali non funziona più.
Ciò non significa che la Cisgiordania se la passi meglio, a dimostrazione di come il problema, per Israele, non è mai stata Hamas, ma i palestinesi stessi, e qualsiasi ipotesi di loro autodeterminazione. L’onda d’urto è arrivata anche in questa regione: il PIL si è contratto del 17% nel solo 2024.
Qui il terrorismo sionista, che usa comunque continua a uccidere indiscriminatamente e a perpetrare una violenza sistemica, utilizza anche altri mezzi, come ad esempio delle soffocanti restrizioni alla mobilità. Posti di blocco e barriere hanno frammentato il territorio della Cisgiordania, rendendo un miraggio qualsiasi continuità territoriale necessaria alla formazione di uno stato palestinese.
Ci sono poi le azioni dei coloni: tra l’ottobre 2023 e il luglio 2025 si sono registrati quasi 3.000 attacchi contro palestinesi, e la distruzione di oltre 2.800 loro strutture. Solo a Jenin, ad esempio, 8 mila imprese palestinesi hanno dovuto chiudere i battenti. E una reazione da parte delle autorità palestinesi è resa impossibile anche dal ricatto continuo sui proprio fondi.
L’UNCTAD parla della “peggiore crisi fiscale della storia” dell’Autorità Nazionale Palestinese. Il governo è strangolato finanziariamente. Israele, che controlla i confini, riscuote le imposte sulle importazioni per conto dei palestinesi, ma trattiene unilateralmente quote sempre maggiori di questo denaro.
Dal 2019 ad oggi, le somme trattenute o dedotte da Israele hanno superato 1,76 miliardi di dollari, una cifra enorme che vale quasi il 13% dell’intero PIL palestinese del 2024. Senza queste risorse, il governo palestinese non riesce a pagare gli stipendi pubblici, e il sistema sanitario sopravvive solo accumulando debiti con i fornitori privati.
Le prospettive delineate dall’organismo ONU sono preoccupanti. La sola ricostruzione materiale di Gaza richiederebbe, secondo stime preliminari, oltre 53 miliardi di dollari. Ma i tempi sono la vera incognita: anche nello scenario migliore, ipotizzando la fine immediata delle ostilità e una crescita a doppia cifra sostenuta dagli aiuti, serviranno decenni per riportare Gaza al livello di benessere pre-ottobre 2023.
Senza considerare che qualsiasi ipotesi di autodeterminazione per il popolo palestinese non può di certo essere costruita sul benestare filantropico degli aiuti umanitari. E proprio questo è un altro obiettivo perseguito coscientemente da Tel Aviv.
Dalle Nazioni Unite si alza un ulteriore monito: accanto a un cessate il fuoco davvero reale e stabile serve un piano di salvataggio che includa un reddito di base d’emergenza per la popolazione affamata. Chi dovrebbe pagare questa spesa? Sappiamo bene che dovrebbe essere Israele, ma sappiamo bene anche che i vertici sionisti preferiscono far morire di fame i palestinesi. Parola loro.
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