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“I fondi russi o morte”

Il vertice dei leader europei, domani, rischia di diventare “storico” in diversi sensi a seconda del risultato finale.

Al centro della discussione l’ormai consumata questione del sequestro – in qualsiasi forma legale – degli asset russi depositati in istituti finanziari europei, per utilizzarli in armamenti e sostegno economico all’Ucraina. Un’idea non solo illegale dal punto di vista del diritto internazionale (neanche la Germania di Hitler venne espropriata dei suoi beni all’estero), ma soprattutto pericolosa per il sistema finanziario europeo.

Se il furto andasse in porto, infatti, sarebbe difficile convincere i titolari esteri di beni in Europa a mantenere qui i loro soldi. E stiamo parlando di circa 90 paesi diversi… E questo senza neanche calcolare il costo della ritorsione russa sugli asset europei da loro (più industriali che finanziari).

In più c’è la resistenza del Belgio – il paese in cui è depositata la gran parte dei soldi russi, tra 140 e 180 miliardi – perché sicuramente perderebbe la causa intentata dalla Russia (già iniziata con un ricorso a Mosca, per ora) e sarebbe obbligato a restituire una cifra che non avrebbe più in deposito. Per un paese così piccolo sarebbe il dissesto sicuro.

Non è finita. Nell’idea trumpiana di “pace” c’è anche quella di utilizzo congiunto, russo-statunitense, di quegli asset per affari comuni post-bellici. Il che ha fatto inalberare il governo tedesco, ma non solo…

Non si conosce ancora ufficialmente la posizione russa, ma la vicenda sembra già ridotta al tesoro dei pirati dei Caraibi, con diverse bande allupate intorno a un “baule” che però ha un legittimo proprietario in vita (e alquanto robusto…) nonché un custode legale magari debole ma “dei nostri” (il Belgio è tra i sei paesi fondatori della UE, tanto che la sede centrale è stata fissata a Bruxelles).

La questione, all’osso, è semplice: o l’Unione Europea agisce “da dittatore” imponendo il sequestro con una decisione a maggioranza invece che all’unanimità (con almeno sei paesi contrari: lo stesso Belgio, Ungheria, Malta, Bulgaria, Italia e Slovacchia), e creando un precedente pericoloso, oppure garantisce collettivamente la cifra sequestrabile, sollevando il solo Belgio dalla responsabilità del risarcimento.

La scelta è insomma tra terremotare gli equilibri interni alla UE facendo saltare alcuni princìpi fissati in trattati, oppure creare un “debito comune” di grande portata.

Sulla seconda ipotesi si sommano molti problemi, che vanno dalla contrarietà dei sedicenti paesi “virtuosi” (quelli del “Grande Nord”, paradossalmente tra i più guerrafondai) alla difficoltà di “piazzare” in breve tempo titoli di debito per oltre 1.000 miliardi di euro (vanno sommati gli 800 per il “riarmo” e quelli per altre iniziative straordinarie).

Il cancelliere tedesco Friedrich Merz ha sintetizzato a suo modo il problema: “Non inganniamoci. Se non riusciremo in questo [utilizzare i fondi russi, ndr], la capacità di azione dell’Unione Europea sarà gravemente compromessa per anni, se non per un periodo più lungo“. Affastellare impotenza strategica, disorientamento politico e nuovo debito insostenibile è la miscela giusta per rompersi le corna…

La proposta della Commissione Europea per ora resta quella di sbloccare un prestito da 210 miliardi di euro all’Ucraina ma finanziato e garantito con gli asset russi congelati. Una “mandrakata” da commercialisti fantasiosi che ha però sempre il problema irrisolto: quei soldi la Russia può richiederli indietro in qualunque momento e il Belgio glieli deve dare…

La cosa è così chiara che è riuscita a capirla persino il cosiddetto “alto rappresentante per la politica estera”, l’estone Kaja Kallas: “non sarebbe facile” ignorare il Belgio, dato che la maggior parte degli asset si trova in quel paese; ergo “Penso che sia importante che loro siano a bordo con qualunque cosa facciamo.”

Ma ogni tentativo di convincere il premier Bart De Wever a privarsi di quei fondi senza garanzie ferree è naturalmente andato fallito, anche perché sottoposto contemporaneamente alla scontata pressione di Mosca e a quella meno prevedibile di Washington, che sembra aver posto un’”opa” su quei conti.

La situazione appare dunque bloccata, ma in qualche modo avviata ad una disastrosa soluzione purchessia. A pesare, infatti, è la profondissima crisi economica tedesca – e dunque dell’intero continente, trasparente già dietro il discorsetto preoccupato di Merz citato prima.

A rafforzare il senso di drammatica urgenza è arrivato ieri anche il presidente della Bdi (la Confindustria tedesca), Peter Leibinger, con un’intervista alla Süddeutsche Zeitung: «È la crisi peggiore dal 1949, il nostro modello è al capolinea».

Il capo degli imprenditori sottolinea che non si tratta di una semplice flessione ciclica, ma di una “crisi strutturale profonda, che può portare a una deindustrializzazione irreversibile. Tra le ragioni indicate i costi energetici (la perdita del gas russo in seguito all’attentato al Nord Stream, organizzato dai servizi segreti ucraini insieme a quelli inglesi), la burocrazia, le “regole europee”, fino alla crescente competizione globale.

Il Pil tedesco chiuderà l’anno tra 0 e +0,1%, mentre l’istituto Ifo prevede quasi 3 milioni di disoccupati, con il settore manifatturiero che ha perso oltre 500mila posti di lavoro dai picchi pre-Covid.

Ed è risaputo che una crisi industriale tedesca significa crollo dell’apparato industriale europeo, in larga parte “contoterzista” della produzione teutonica.

In questo quadro, appare ancor più incomprensibile la scelta “europeista” di far proseguire la guerra in Ucraina nonostante gli stati Uniti abbiano deciso di sfilarsi in tempi anche rapidi. Tutte le ragioni economiche, infatti, premono per riaprire i canali commerciali con il resto del mondo, se non altro per compensare il colpo subito con i dazi statunitensi.

Ma “dio confonde coloro che vuol perdere”…

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