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Rappresentanza sequestrata

Non c’è strada del centro, specie nella capitale, che non veda un presidio, una tenda, una protesta. Impossibile dar conto di tutte, si somigliano troppo. Poi capita quella che rivela una novità in corso. E conviene fermarsi.
Il presidio del sindacato di base Usb, venerdì, davanti a Federambiente (associazione che riunisce imprese che gestiscono servizi pubblici d’igiene e risanamento ambientale, dai rifiuti in su), possiede questa caratteristica. La denuncia aveva un linguaggio antico («un vergognoso protocollo sulle Rsu» confezionato con un accordo interconfederale «che impedisce di fatto la partecipazione dei sindacati di base alle elezioni per le Rsu e autorizza la schedatura delle opinioni dei dipendenti»), ma un nocciolo attualissimo. Questo «protocollo» è stato formalizzato solo dopo l’accordo «sulla rappresentanza» siglato il 28 giugno tra Cgil, Cisl e Uil con Confindustria.
La documentazione non lascia dubbi. Con una lettera unitaria (Cisl, Cgil, Uil, Fiadel) si chiede alle strutture territoriali di attivarsi per realizzare le «profonde modifiche» alle regole sulla rappresentanza sui luoghi di lavoro, anche se – «purtroppo» – in ritardo sui tempi rispetto alla firma del contratto nazionale del settore. Ritardo motivato dal fatto che era necessario «modificare prima gli accordi confederali stipulati con Confindustria» e altre associazioni datoriali. Dopo il 28 giugno, si può procedere, finalmente.
Se si trattasse soltanto di beghe concorrenziali tra sindacati, la questione non sarebbe molto interessante. Ma la rappresentanza è un nodo chiave della democrazia, ovvero del modo in cui i lavoratori associati possono far valere i propri interessi nei confronti dell’azienda; la libertà dei lavoratori di rivolgersi a un sindacato diverso, o fondarne addirittura un altro, è il punto dirimente.
E proprio questo viene messo in dubbio dall’accordo in questione. Si parte dal fatto che «la costituzione delle Rsu nelle unità produttive è iniziative delle organizzazioni stipulanti il presente contratto». Le sigle che non lo firmano possono presentare liste di candidati «purché abilitate ai sensi del regolamento che segue, a condizione che abbiano comunque espresso adesione formale al presente accordo». Sa un po’ di comma 22, perché se uno aderiva, lo firmava anche.
Ma andiamo a vedere cosa dice il regolamento. I sindacati non firmatari, ma sempre «a condizione che accettino espressamente e formalmente la presente regolamentazione», possono presentare liste se «sono in grado di corredarle con un numero di firme di lavoratori dipendenti dell’azienda pari al 20% degli aventi diritto al voto». I regolamenti attuali fissano il minimo al 5%; molti dei sindacati «firmatari», quel «20», se lo sognano; ma il fatto d’aver firmato il contratto garantisce loro di presentare candidati (oltre ad avere un terzo degli eletti, a prescindere dai voti).
Non basta. La «certificazione d’autenticità delle firme» – fin qui a carico della commissione elettorale (lavoratori o delegati sindacali) – viene ora affidata (dai sindacati stessi!) al «responsabile della gestione del personale». Ogni lavoratore, dunque, dovrebbe «autodenunciare» le proprie propensioni sindacali (quindi, in senso lato, anche «politiche») davanti all’azienda.
Non basta. «Non possono altresì essere presentate liste congiunte da parte di più organizzazioni sindacali, salvo il caso che esse abbiano costituito un nuovo soggetto sindacale». Decrittando: prima due o più sindacati «non firmatari» si devono unire a livello nazionale, poi devono prendere il 20% delle firme (davanti all’azienda!), solo alla fine possono presentare liste. L’esempio pratico viene dalla Agesp di Busto Arsizio, dove la Cisl prende 14 voti, la Cgil 12 (come la Fiadel) e la Uil 1; mentre Usb (16 voti) e Cobas (18) fanno decisamente meglio. Ma forse nessuno dei due «basisti», da solo, riuscirebbe più a presentare una lista. Insieme certamente sì, ma solo dopo una non semplice «fusione» a livello nazionale.
Impossibile, insomma, che gruppi di lavoratori, in un’azienda (stiamo oltretutto parlando di municipalizzate, non di imprese di dimensioni nazionali), possano candidare se stessi per fare i delegati di se stessi. Non c’è bisogno di mettersi gli occhiali per vedere che accordi «interconfederali» di questo tipo sequestrano la rappresentanza, consegnandola alla «certificazione» da parte dell’impresa.
Si chiamava sindacato corporativo, molti decenni fa.
da “il manifesto” del 2 luglio 2011

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