Il testo completo della ricerca del Censis:
L’antagonismo è oggi «errante», ma ha ragioni
Francesco Piccioni
C’è vita su Marte. A scorrere le pagine dell’informazione mainstream si può godere di una soporifera sensazione di «pace sociale», di tranquilla – benché mugugnante – sopportazione delle misure decise da un governo piovuto da Bruxelles per «liberarci» dalla vergogna di averne uno covato a paperopoli.
La «lotta di classe» è finita, sentenziano i sentenziatori. Se qualcosa si muove – accade anche sotto morfina – c’è sempre il vecchio schema della criminalizzazione dei «movimenti violenti», che magari si son presi una paccata di bastonate (come a Besiano o in Val Susa) per aver osato protestare. Ma anche su questo pianeta marziano la vita scorre. Certo, c’è bisogno che ce lo certifichi un istituto di ricerca, per di più credibile come il Censis, guidato da un rispettabile scienziato sociale che non ha mai rinnegato l’origine democristiana e morotea.
E che ci restituisce intanto un dato: «la protesta sociale cresce», anzi esplode. 9 milioni di italiani hanno partecipato nell’ultimo anno a manifestazioni di protesta autorizzate: il 17,7% dei maggiorenni. Nel 2004, quando in tanti protestavamo contro Berlusconi, erano appena l’11,8%. È l’effetto dello strabismo massmediatico, per cui una «protesta» esiste solo se corrisponde agli interessi dell’editore di riferimento. Di più: i giovani, che vengono dipinti come meno pimpanti dei padri, sono invece molto attivi e anche scorbutici: il 7% ha preso parte a manifestazioni illegali. Non ditelo a Grillo…
Non è una protesta stile vecchi tempi, identitaria o solo rivendicativo-sindacale. Perché «si è dissipata la fiducia nei soggetti della mediazione», la quale d’altro canto è diventata impossibile da quando «i gradi di libertà con cui i poteri nazionali e locali» possono rispondere «alle domande del corpo sociale» si sono ristretti a quasi zero. Si sono «sfilacciati i meccanismi di veicolazione del consenso», e dallo «smarrimento dell’individuo-suddito» è venuto fuori un «antagonismo errante» che vive in «aggregazioni temporanee, orizzontali, magari labili».
L’effetto è dialettico, non paradossale: in questo modo c’è stata una «riscoperta della dimensione collettiva in soggetti che sperimentano processi di esclusione o integrazione debole». Secondo effetto: come protagonisti di questo antagonismo diffuso ma non debole crescono soprattutto sia i laureati (dal 16 al 24%) che «i meno istruiti (dal 4,9 al 9,3%). Insomma chi soffre di più per le condizioni immediate di vita e chi è più in grado, per livello culturale, di inquadrare i problemi e di impostare delle risposte mobilitanti. Anche qui, si tratta di una modernità piena, niente affatto sorprendente (quasi marxiana, diremmo).
Certo, queste «procedure antagoniste» hanno poche somiglianze con il più duraturo «antagonismo militante», spesso molto minoritario. Ma in qualche modo si ritrovano sulla stessa strada; anche se per ora non è la «dicotomia di classe» a dominare, a favore di quella più generica «inclusi-esclusi». In altre parole, «il malessere sociale rimane allo stato fluido fino a che non avviene qualcosa che ne consente il coagulo intorno a fatti di elevata specificità». Gli «inneschi» sono molto variabili. Si va dai «progetti di trasformazione territoriale» (che sollecitano i comitati «no qualcosa»), dove è in gioco uno spazio fisico esistenziale; alle normali crisi aziendali, fino a fatti di cronaca o proposte di legge.
È un malessere instabile, facilmente «declinabile» sotto retoriche perfino opposte. Un malessere che richiede visioni all’altezza dei problemi del presente, non slogan da esorcisti. Ovvero visioni e progetti politici, fuori da ogni «tecnicismo».
La «lotta di classe» è finita, sentenziano i sentenziatori. Se qualcosa si muove – accade anche sotto morfina – c’è sempre il vecchio schema della criminalizzazione dei «movimenti violenti», che magari si son presi una paccata di bastonate (come a Besiano o in Val Susa) per aver osato protestare. Ma anche su questo pianeta marziano la vita scorre. Certo, c’è bisogno che ce lo certifichi un istituto di ricerca, per di più credibile come il Censis, guidato da un rispettabile scienziato sociale che non ha mai rinnegato l’origine democristiana e morotea.
E che ci restituisce intanto un dato: «la protesta sociale cresce», anzi esplode. 9 milioni di italiani hanno partecipato nell’ultimo anno a manifestazioni di protesta autorizzate: il 17,7% dei maggiorenni. Nel 2004, quando in tanti protestavamo contro Berlusconi, erano appena l’11,8%. È l’effetto dello strabismo massmediatico, per cui una «protesta» esiste solo se corrisponde agli interessi dell’editore di riferimento. Di più: i giovani, che vengono dipinti come meno pimpanti dei padri, sono invece molto attivi e anche scorbutici: il 7% ha preso parte a manifestazioni illegali. Non ditelo a Grillo…
Non è una protesta stile vecchi tempi, identitaria o solo rivendicativo-sindacale. Perché «si è dissipata la fiducia nei soggetti della mediazione», la quale d’altro canto è diventata impossibile da quando «i gradi di libertà con cui i poteri nazionali e locali» possono rispondere «alle domande del corpo sociale» si sono ristretti a quasi zero. Si sono «sfilacciati i meccanismi di veicolazione del consenso», e dallo «smarrimento dell’individuo-suddito» è venuto fuori un «antagonismo errante» che vive in «aggregazioni temporanee, orizzontali, magari labili».
L’effetto è dialettico, non paradossale: in questo modo c’è stata una «riscoperta della dimensione collettiva in soggetti che sperimentano processi di esclusione o integrazione debole». Secondo effetto: come protagonisti di questo antagonismo diffuso ma non debole crescono soprattutto sia i laureati (dal 16 al 24%) che «i meno istruiti (dal 4,9 al 9,3%). Insomma chi soffre di più per le condizioni immediate di vita e chi è più in grado, per livello culturale, di inquadrare i problemi e di impostare delle risposte mobilitanti. Anche qui, si tratta di una modernità piena, niente affatto sorprendente (quasi marxiana, diremmo).
Certo, queste «procedure antagoniste» hanno poche somiglianze con il più duraturo «antagonismo militante», spesso molto minoritario. Ma in qualche modo si ritrovano sulla stessa strada; anche se per ora non è la «dicotomia di classe» a dominare, a favore di quella più generica «inclusi-esclusi». In altre parole, «il malessere sociale rimane allo stato fluido fino a che non avviene qualcosa che ne consente il coagulo intorno a fatti di elevata specificità». Gli «inneschi» sono molto variabili. Si va dai «progetti di trasformazione territoriale» (che sollecitano i comitati «no qualcosa»), dove è in gioco uno spazio fisico esistenziale; alle normali crisi aziendali, fino a fatti di cronaca o proposte di legge.
È un malessere instabile, facilmente «declinabile» sotto retoriche perfino opposte. Un malessere che richiede visioni all’altezza dei problemi del presente, non slogan da esorcisti. Ovvero visioni e progetti politici, fuori da ogni «tecnicismo».
da “il manifesto”
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