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Morire di musica: la vita massacrante di facchini e tecnici dei concerti

Lavorano abbarbicati su grandiose strutture in ferro che possono innalzarsi fino a 30 metri d’altezza o trasportano valigioni con centinaia di chili di materiale. Sopportano turni di servizio massacranti, che arrivano a toccare le 14 ore consecutive . Percorrono centinaia di chilometri al giorno e presto imparano a dormire quando capita, dove capita e se ce n’è il tempo. E quando le luci sul palco danno il via al boato del pubblico, loro già attendono, stremati, che tutto finisca per ricominciare a far guizzare muscoli e ingegno. Benvenuti nel mondo dei lavoratori dello spettacolo. Un universo multiforme e scarsamente conosciuto, popolato da tecnici altamente specializzati come da facchini sottopagati, che sbarcano il lunario in attesa di una migliore occupazione . E che per anni si sono mossi in una zona grigia fatta di norme di sicurezza vaghe e rispettate a fasi alterne, lavoro nero e scarsa rappresentanza sindacale.

C’è voluta una serie di incidenti mortali, tra il 2011 e il 2013, per accendere i riflettori sulla questione: da allora, tra blitz della Finanza e controlli serrati dell’Ispettorato al lavoro, qualcosa ha iniziato a muoversi. Ma non ovunque e non abbastanza in fretta, a quanto pare; visto che l’ultimo infortunio risale alla scorsa settimana, quando a Firenze un facchino è stato travolto dalla pila di casse acustiche che stava trasportando su un muletto. Appena qualche giorno prima, a Milano, nove operai romeni avevano annunciato un’azione legale contro la Company service international , società che li aveva assunti per lavorare ai concerti di Bruce Springsteen, Lady Gaga, Shakira e Vasco Rossi. E che li avrebbe pagati 4 euro l’ora, invece delle 7,5 pattuite su un contratto che due di loro affermano di non aver neanche firmato, lavorando di fatto in nero. 

“A questo proposito – spiega Enrico Massaro, delegato Slc-Cgil, il principale sindacato dei lavoratori dello spettacolo – va fatta una distinzione tra tecnici specializzati e facchini. Con i primi oggi non si può più sgarrare: i controlli sono frequenti e il lavoro nero è molto raro, specialmente in eventi di grandi dimensioni o che abbiano un risvolto mediatico. Attualmente sono in pochi ad agire ancora in questo modo, ed è gente che si occupa principalmente di piccoli eventi”. La situazione, però, cambia radicalmente quando si parla facchini : “Su queste figure – continua Massaro – c’è una corsa al ribasso e allo sfruttamento che è davvero oscena . Stiamo parlando di operai che nel 2014 sono fuori da qualsiasi logica di rappresentanza o di contrattazione collettiva . Ben vengano, quindi, le cause legali come quella di Milano”. Proprio il divario tra tecnici e facchini rende difficile fare una stima complessiva di quanti siano in Italia i lavoratori dello spettacolo: secondo Massaro, i primi sarebbero circa 30mila, “mentre è quasi impossibile quantificare i secondi”.

Anche i tecnici, comunque, sembrano avere i loro grattacapi : il tasto dolente, per loro, sembra sia soprattutto la sicurezza, come l’Italia ebbe a scoprire tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012. “Questo lavoro ho iniziato a farlo sei anni fa – spiega Michele, 35 anni e una qualifica da rigger (il cui lavoro consiste nel montare e trasportare le parti superiori del palco, appeso a un’imbracatura) -e, soprattutto all’inizio, ne ho viste di tutti i colori. Ho iniziato nel sud Italia, dove l’improvvisazione, il lavoro nero e l’assenza di regole erano all’ordine del giorno . Parlo di gente che svolgeva mansioni pericolose e specialistiche senza possedere brevetti o abilitazioni; di misure di sicurezza inesistenti o applicate con leggerezza, spesso per una paga da fame. Dopo un paio d’anni mi sono trasferito al nord, e qui le cose erano già molto diverse: il lavoro nero era quasi inesistente ed è stata proprio la cooperativa che mi ha assunto a obbligarmi a prendere il brevetto per i lavori in quota. Dopo gli incidenti, poi, le cose sono cambiate ulteriormente. Oggi, negli spettacoli di grandi dimensioni, i controlli scattano quasi in automatico. Gli ispettori ci chiedono addirittura di mostrargli i numeri di matricola delle attrezzature di sicurezza, come scarponi, caschi e imbragature, per verificarne il ciclo di vita”.

Più sicurezza, dunque, ma non abbastanza: perché di musica c’è chi continua a morire . Il primo incidente a destare lo sdegno nazionale fu quello in cui perse la vita Francesco Pinna, triestino travolto, con altri sette operai, dalla struttura che di lì a qualche ora avrebbe dovuto ospitare il concerto di Jovanotti. Il 5 marzo del 2012, poi, un altro crollo si è portato via Matteo Armellini, tecnico calabrese rimasto ucciso mentre lavorava alla data reggina di Laura Pausini. Un copione che, a dispetto di controlli ormai più frequenti e rigorosi, si è riproposto nel giugno scorso, quando Khaled Farouk Abdel Hamid, facchino 35enne di origine egiziana, è morto nel crollo del palcoscenico che aveva appena ospitato il concerto milanese dei Kiss. Dopo il quale, la comunità dei lavoratori dello spettacolo è insorta, cercando di unirsi per far pressione sul ministero del Lavoro. (ams)

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