Dopo dieci mesi di picchetti, blocchi, denunce, trattative e accordi non rispettati, la lotta dei 51 facchini licenziati da Sgb, un consorzio di cooperative che lavora in subappalto per Granarolo e Cogefrin, sembra essere arrivata ad una svolta. Venerdì 28 febbraio, in contemporanea allo sciopero generale della logistica, il Si Cobas ha incontrato in Prefettura a Bologna Legacoop che con Giuliano Poletti al ministero del lavoro è diventata pilastro del governo. Le cooperative si sono dette disposte ad accettare tutto o quasi: riassunzione dei lavoratori entro giugno, ricollocamento o soluzione economica per i lavoratori di Cogefrin, ritiro delle denunce.
Aldo Milani, coordinatore nazionale S. I. Cobas, la strana armata di lavoratori migranti, sindacalisti di base, collettivi militanti, studenti e precari è a un passo da una straordinaria vittoria?
I giornali parlano di nostra euforia dopo l’incontro di venerdì, ma non è così. Però è un risultato politico forte. Su questa decisione ha influito il fatto che hanno Poletti come ministro del lavoro. Legacoop ci riconosce sulla base della lotta e dei rapporti di forza che abbiamo costruito. Il piano del conflitto è ora nazionale e non più solo aziendale.
Quando avete percepito che era in arrivo una svolta?
Già nei giorni precedenti, dall’incontro in prefettura della settimana scorsa, avevamo avuto l’impressione che le cose maturassero in questa direzione, avevano cioè grande difficoltà a non trovare alcuna soluzione. Abbiamo fatto un comunicato in cui dicevamo che la lotta andava avanti in modo duro e i padroni hanno fatto le loro valutazioni. Sono ormai dieci mesi di lotta: c’è stata una radicalizzazione e un allargamento, ci sono anche le fatiche e le difficoltà dei lavoratori che la stanno facendo, quindi dobbiamo tenere conto di tutto. In un incontro recente alcuni compagni ponevano il problema di riuscire a chiudere la vertenza velocemente; anche all’interno del nostro sindacato c’era chi metteva in evidenza l’attacco duro, pure sul piano amministrativo. Possiamo essere condannati economicamente per i danni che provochiamo all’azienda, alla faccia del diritto di sciopero. Io ho insistito sul fatto che c’erano le condizioni per vincere, quindi bisognava fare uno sforzo ulteriore: alla fine abbiamo deciso di andare avanti.
Quali sono i principali elementi di questo ciclo di lotte della logistica?
È stato il risultato di un concatenarsi di elementi, dalle relazioni soggettive alle concrete situazioni territoriali. Ci siamo caratterizzati per aver fissato le lotte non su risultati immediati nell’azienda, ma facendole girare tra diversi ambiti di lavoratori, riprendendo così i tratti positivi di alcune esperienze storiche: dagli Industrial Workers of the World (Iww) agli anni Sessanta. Noi arriviamo da una cooperativa all’altra per informazioni e contatti che ci danno gli stessi lavoratori. I lavoratori immigrati si sentivano abbandonati, parecchi erano entrati in contatto con i confederali per il permesso di soggiorno o come tramite dell’ufficio di collocamento. Noi abbiamo dato quello che loro chiamano la dignità, che poi ha pagato anche nei risultati contrattuali. È bastato stappare la situazione che è fuoriuscito questo liquido di lotta.
Qual è stato il ruolo del sindacato di base?
Il Si Cobas è un sindacato che, pur partendo dalla formazione leninista di alcuni, è il più anarchico dal punto di vista del suo sviluppo, perché non abbiamo strutture troppo formali. Nella logistica abbiamo incontrato una condizione particolare, con una volontà soggettiva radicale dal punto di vista politico e sindacale. Questo settore è caratterizzato dal sistema della cooperative, con ipersfruttamento della forza lavoro e basso investimento tecnologico. Alcuni grandi gruppi,ovviamente non Legacoop, ma Tnt o Dhl, si pongono il problema che le cooperative diventano ora un costo più che una possibilità. Non possono però superarlo per i rapporti stretti con un sistema gestito da mafia, camorra e ’ndrangheta. Tra noi e l’Adl-Cobas organizziamo 10 mila lavoratori, mentre i dipendenti della logistica sono 150 mila. Tocchiamo quindi il nucleo centrale, ma il settore è molto stratificato. Bisogna dunque avere una motivazione politica strategica per spingere avanti, creando anche le condizioni affinché altri soggetti si mobilitino, dai precari agli studenti. Teniamo conto che si tratta di lotte in controtendenza, dentro la recessione e non in una fase di sviluppo.
La lotta alla Granarolo ha toccato un ganglio centrale. Se si riesce a vincere qui, quanto si può determinare un effetto a cascata?
Qui si rompe un quadro consolidato di relazioni politiche e sindacali: la lotta entra a gamba tesa in una realtà che sembrava controllata da salde strutture di potere. Si può così davvero determinare un processo di allargamento e generalizzazione. È un grande risultato aver costretto i padroni di questo colosso a un “armistizio”, in cui il “forte” concede tutto; abbiamo cioè mostrato la debolezza della controparte.
In che modo queste lotte si sono intrecciate con quelle all’Ikea?
All’Ikea abbiamo sbloccato la situazione quando è stato colpito il brand, perfino con iniziative in Svezia. Poi, a differenza di altre fasi, gli immigrati che arrivano qui hanno livelli di scolarizzazione, competenze e formazioni intellettuali spesso elevate, anche dal punto di vista comunicativo. I padroni pensano di avere a che fare con schiavi ignoranti e restano spiazzati di fronte a figure in grado di sostenere il confronto. I luoghi di lavoro e di vita dei soggetti delle lotte della logistica sono nelle periferie urbane, ma nella misura in cui stanno accerchiando le città e si stanno generalizzando, possono diventare un elemento di traino.
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