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Fast Fashion: Amazing prices, Amazing workers

Nel 1980 una famiglia italiana spendeva l’11% del proprio reddito in abbigliamento e calzature, una percentuale di gran lunga superiore a quella di altri paesi europei. Il culmine viene raggiunto nel 1989.

Tra il 1989 e il 1996 il consumo di abbigliamento cala del 10%. Se si considera il solo abbigliamento esterno uomo, il calo arriva al 20%.

Nel 1997 nella spesa per prodotti dell’abbigliamento l’Italia arretra dietro Austria, Belgio, Lussemburgo e Germania. Nello stesso periodo si registra un’impennata delle chiusure di negozi. Inizia l’attacco alla classe media, al bauscia milanese.

In sei anni, dall’89 al 95, i negozi indipendenti – le boutique – perdendo più del 13% del mercato, a favore dei centri commerciali e delle catene di Franchising (Giancola*). Negli anni successivi il trend negativo continua. A perderci sono ancora i bottegai, mentre a guadagnarci sono le catene del Fast Fashion, H&M, Zara, Primark.

Primark sbarca in Italia nel 2016, con un mega negozio all’interno del «Centro», l’Iper di Arese, costruito sulle ceneri dall’Alfa Romeo. I competitori di Primark non sono più le boutique, nel frattempo riposizionate su un segmento più alto di consumatori, ma sono H&M e Zara.

Nei mesi successivi all’apertura di Primark, anche il vicino AUMAI di Lainate, mercatone cinese di vestiti e casalinghi, è costretto alla chiusura.

Ad Arese lavorano 500 commessi, perlopiù giovani ragazze e ragazzi, organizzati in squadre, identificate da colori. Vengono mobilitati da un manager con un altoparlante. Si muovono sui due piani del negozio, intruppati in gruppi di 5 o 6. Con aste di due metri, ornate di bandierine, instradano torme di clienti, arrivati persino dal Canton Ticino, verso i camerini di prova, le casse o l’uscita. Nei fine settimana l’acceso al negozio è contingentato da addetti alla sicurezza.

I prezzi sono straordinariamente concorrenziali. Mai visti né da Zara né da H&M, e nemmeno da Aumai: T-shirt uomo €. 1,50, Snikers €. 9, felpa €. 7, slip Batman 5 paia €. 6, 3 camicie corallo estive da bimbo €. 7. Primark non vende online, perché il prezzo della spedizione supererebbe il costo della merce.

Nel 2017 c’è il primo sciopero. In Primark, dicono i sindacalisti (ilgiorno.it), ci sono contratti a termine fuori dalle percentuali di legge. Non vogliono che entri il sindacato. Da tempo stiamo cercando di organizzare le Rsu, senza nessun risultato. L’80% dei lavoratori è a tempo determinato. Otto, nove mesi di assunzione, due rinnovi e alla scadenza si viene scaricati. Primark si sta muovendo esattamente con lo stesso approccio di RyanAir: i sindacati non devono esistere.

Al lavoro, dice una dipendente su Facebook, è una continua lotta con i colleghi per cercare di «apparire» o spiccare in mezzo agli altri. Se non ti mostri simpatica a chi di dovere sei fuori, lasciata a casa senza nessuna spiegazione. Quando con fatica hai imparato come girano le cose nel negozio, e ti sei cucita il sorriso Primark in faccia, il 99% delle volte, alla fine, sarai lasciata a casa. È un peccato che, dice, trattino così migliaia di ragazzi.

Questi lavoratori, che vivono con i genitori o dividono l’appartamento con altri ragazzi, con i soldi di Primark, al massimo, possono prendere un volo RyanAir, e fare 3 giorni e 2 notti a Tangeri. Viaggiare è la promessa di felicità per aver dovuto rinunciare a una vita vera.

Quando entriamo da Primark non vogliamo vedere le facce dei lavoratori, perché quelle facce sono le nostre. Non siamo più negli anni Ottanta, non abbiamo gli stessi soldi in tasca. Non vogliamo vedere le facce perché esse sono le maschere di chi cuce i vestiti in Bangladesh.

Il Bangladesh è uno dei paesi più densamente popolati al mondo. I suoi abitanti, 164 milioni, abitano in uno spazio grande quando la Bulgaria, che ha meno di 7 milioni di abitanti. A Dacca, con una superficie appena il doppio di quella di Bologna, vivono 21 milioni di abitanti.

La maggior parte delle collezioni di H&M, Zara e Primark sono prodotte in Bangladesh, secondo paese al mondo per produzione di abbigliamento, dove questo settore copre l’84% delle esportazioni.

Per effetto del Virus sono stati annullati o rinviati ordini per $. 2,8 miliardi. Quasi tutti gli acquirenti occidentali si sono rifiutati di anticipare i salari ai lavoratori. Il 70% dei lavoratori sono stati licenziati e rimandati a casa. In molti si sono messi in marcia verso regioni e paesi diversi da dove lavorano, trascinandosi dietro un carico di miserie, fame e potenziali agenti patogeni.

Tutto ciò che chiediamo ai grandi Marchi, dice Rubana Haq, presidente della Export Association (BGMEA), è di accettare i capi che sono già in produzione nelle fabbriche, incluso lo stock finito. (forbes.com).

I 376 negozi Primark, sparsi in dodici paesi del mondo, sono chiusi. L’azienda accusa perdite per $. 807 milioni al mese. Gli ordini sono stati tutti congelati. Per loro, dice un imprenditore (nytimes.com), è una questione di sopravvivenza dell’impresa, per noi è una questione di sopravvivenza di 4,1 milioni di lavoratori.

Si tratta di lavoratori lasciati senza reddito, e senza scelta, se non tornare allo loro case di lamiera, senza servizi igienici o la capacità di isolarsi, senza risorse per combattere la pandemia.

Non si può vivere nell’illusione che il cattivo lavoro, esportato in questi paesi, non ritorni a casa e si presenti con la faccia dei nostri figli impiegati da Primark.

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