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L’anno che verrà: note a margine dell’assemblea nazionale dei delegati USB della Logistica

Sono stato invitato all’assemblea nazionale dei delegati USB della logistica che si è tenuta a Roma sabato 19 dicembre. Mi ero preparato un intervento sulla legislazione relativa agli appalti e ai suoi limiti. L’ho stracciato.

La qualità e intensità degli interventi che mi avevano preceduto (come di quelli successivi) rendevano impossibile qualunque approccio “professorale”. È stata un’assemblea a cui non c’era nulla da insegnare e da cui c’era tutto da imparare. La sensazione è stata quella di trovarmi davanti al punto più avanzato e consapevole del sindacalismo italiano, non solo oggi ma da decenni. Troppo forte per resistere all’impulso di analizzarla. E allora iniziamo a contestualizzare.

Il 19 dicembre si stava concludendo il 2020, un anno in cui – grazie anche all’anestetico blocco dei licenziamenti con connessa cassa integrazione a pioggia e all’ansiolitico telelavoro da casa (in milanese moderno detto “smart working”) – il capitale ha portato a casa una ristrutturazione per la quale (senza l’opportunità del virus) avrebbe avuto bisogno di un ventennio.  

Così come accaduto per il vaccino “genico”, le competenze tecniche necessarie già esistevano, serviva solo l’occasione giusta per testarle su larga scala. E il capitale, costretto a fare questa sperimentazione di massa, ha capito in poche settimane che ciò che lo aveva spinto a raggruppare sotto il suo occhio la forza lavoro impiegatizia (e cioè la necessità dello stringente comando di impresa e del relativo controllo), poteva ancor meglio realizzarsi tramite la macchina, che gli ha peraltro consentito di sfondare i limiti all’orario della giornata lavorativa costruiti in due secoli di lotte.

E ciò non solo ha aumentato di fatto la servilizzazione del lavoro, ma ha consentito lo spostamento sulle famiglie di molti costi d’impresa (costo dei locali, sicurezza sul lavoro, postazione ergonomica e salubre, pulizie, riscaldamento, corrente elettrica, carta, toner, eccetera eccetera). Il tutto senza trovare alcuna resistenza anche perché il lavoro a distanza riduce il rischio di “contagio” tra i dipendenti (così come tra gli studenti) del desiderio di autorganizzarsi in contropotere collettivo.

Ma oltre a ciò – che pure non è poco – la smaterializzazione del lavoro intellettuale è stata la grande occasione per smembrarlo lungo faglie gerarchiche e di competenze: il “core” è rimasto sempre in azienda, il primo anello a riporto ha iniziato a lavorare al 50% da casa, il secondo anello con 5/10 accessi in azienda al mese, il resto sempre da casa (più o meno suddiviso fra una metà iperspremuta da una tecnologia onnipresente e l’altra metà abbandonata a se stessa).

L’esito è davvero evidente: 1) i primi vedranno aumentare potere e introiti; 2) i secondi resteranno a bagno anche dopo le fine del Covid (le sedi si ridurranno sempre più e  la loro presenza in azienda rimarrà intermittente ma sempre più asservita e controllata dalla tecnologia); 3) i terzi verranno esternalizzati a qualche “campioncino nazionale” o sciolti nel mondo del lavoro parautonomo; 4) i quarti sterminati  con l’automazione o con la trasmigrazione dell’attività smaterializzata in paesi a bassissimo costo della mano d’opera.

Ma non solo i lavoratori sono stati allontanati dalle grandi aziende (con il conseguente crollo dei servizi connessi, a partire dall’indotto delle mense), ma il virus è stata l’occasione per il capitale di sbarazzarsi anche della piccola e media distribuzione (con l’eccezione dei generi alimentari) che è stata ridimensionata in modo probabilmente definitivo essendone immaginabile la sopravvivenza solo in nicchie ecologiche favorevoli (piccoli comuni montani, zone ad altissimo tasso di anziani, prodotti di super lusso ecc.).

E ugualmente il grande capitale ha riportato a casa le fette del mercato dei servizi che le erano state sottratte dalle “uberizzazioni” (passeranno anni prima che ci si fiderà a prenotare una stanza all’interno di un appartamento abitato o a condividere un viaggio in macchina).

Persino il comando sul tempo libero è stato riacchiappato grazie al Covid: musei e impianti sportivi chiusi (pure gli scavi archeologici all’aperto e lo sci di fondo) e centri commerciali aperti. E ciò a fronte dell’indebolimento di ogni capacità di resistenza dalla forza lavoro del comparto industriale in drammatica flessione (con l’eccezione del farmaceutico) a cui aggiungersi (in particolare per i servizi e il pubblico impiego) la creazione della nuova arma di disciplinamento coatto del lavoro subordinato: l’accusa di renitenza nella guerra al virus (condotta ritenuta lecita invece per qualsivoglia altra categoria di cittadini, in particolare per gli opinionisti che incitano al linciaggio) con conseguente pena da infliggere in flagranza, e cioè il licenziamento in tronco.

Ma veniamo alla logistica. Per realizzare in tempi così rapidi questa ristrutturazione il capitale ha dovuto procedere ad una rapidissima proletarizzazione di sacche residue di lavoro qualificato. Il flusso delle merci non può essere fermato e se il consumatore non va più nei luoghi del consumo, sono le merci che devono arrivare a casa sua.

E questa ristrutturazione è avvenuta all’interno di un doppio movimento: da un lato una distribuzione atomizzata casa per casa che (stante l’assenza di magazzino del consumatore finale) deve essere quotidiana; dall’altro la fragilizzazione delle arterie transnazionali di distribuzione da cui la necessità di implementare lo stoccaggio negli hub nazionali che sono divenuti sempre più grandi. 

Ed ecco che il comparto del terziario che produceva ceto medio (con mansioni di commesse, camerieri, cassieri, maitre, direttori di negozi, vetrinisti, ecc.) ha iniziato a produrre a pieno regime nuova classe operaia: driver, ciclofattorini, magazzinieri, facchini. E questo ha però prodotto un doppio effetto convergente, il primo noto, il secondo inaspettato.

Quello noto attiene alla insuperabile contraddizione per cui la classe dei gestori del lavoro astratto deve continuamente razionalizzare le forme della propria gestione al fine di dominare sempre nuovamente quelle classi di proletari, che però il suo stesso processo di concentrazione riproduce ed allarga (in questo caso gli addetti alla logistica). Nuove classi popolari che poi debbono essere battute politicamente tramite inevitabili concessioni che a loro volta le organizzano e riunificano in un continuo rilancio (finché non si esaurisce il paradigma e il capitale non crea una nuova classe).

Più interessante l’aspetto non scontato. E infatti la logistica ed il suo indotto di forza lavoro non sono certo invenzioni dello scorso anno. Il 2020 è stato, però, l’anno dell’ibridazione tra forza lavoro autoctona con la forza lavoro migrante che – come accaduto al mercato di Wuhan – ha prodotto un sindacalismo “mutato”, rispetto a cui il fronte padronale non ha ancora tutti gli anticorpi. E ciò, a propria volta, ha creato un’elite sindacale di delegati “meticci” che hanno iniziato a prendere progressiva consapevolezza del proprio potere.

Ciò che traspariva dalle parole, dagli sguardi, dalla postura e dall’intonazione degli interventi all’assemblea del 19 dicembre è che sono ad un passo dal capire che possono molto più loro di Renzi e che – se riuscissero ad esprimere appieno il loro potenziale – potrebbero costringere imprese e governo ad aprire un “tavolo” su qualunque richiesta.

Il sistema infatti può sostituire (o corrompere) i 18 senatori di Italia Viva, ma ad oggi non riuscirebbe a reggere neppure un giorno di blocco delle merci.

Ma il capitale si è spinto a dare questa arma in mano all’antagonista che ha creato sentendosi sufficientemente tranquillo, perché ha inserito la logistica dentro una camera sterile: quella degli appalti!

C’è una divertente storiella ebraica in cui gli esponenti delle tre religioni monoteiste si confrontano sui miracoli. Il cristiano racconta di quando, andando in Terrasanta, si imbatteva   in una tempesta ma (miracolo) mentre tutto intorno infuriava il mare attorno alla nave si apriva una striscia di calma che la conduceva in porto. E così il musulmano raccontava di quando durante una tempesta di sabbia nel deserto (miracolo) si apriva un corridoio senza vento che lo conduceva alla Mecca. Parlava poi un rabbino di New York che raccontava di aver avuto il fortissimo desiderio di compiere un’azione che però le regole religiose gli vietavano di fare il sabato, ma (miracolo) tutto intorno era sabato ma solo nell’esatto punto in cui lui si trovava era improvvisamente venerdì.

Ebbene per i lavoratori degli appalti endoaziendali, e quindi per la logistica, vale la stessa regola miracolistica: tutto intorno nell’azienda del committente in cui lavorano c’è il diritto del lavoro, ma (miracolo) solo attorno agli addetti all’appalto è il 1950!

Questo risultato, francamente eccezionale, il capitale lo ha ottenuto svitando i quattro bulloni che dovrebbero tenere insieme la scocca dell’appalto sul pianale del diritto del lavoro. E quindi, se si vuole esprimere a pieno la capacità di conflitto della logistica occorre quanto prima riavvitarli il più stretto possibile. In particolare:

  • Occorre innanzitutto sbarazzarci dalla nozione “giuslavoristica” di appalto introdotta dalla legge Biagi, per cui esso oggi è sempre lecito purché il reale datore di lavoro affitti non solo gli operai ma anche il “caporale” che li recluta e guida il pulmino; ed è necessario ribadire che è possibile un appalto endoaziendale esclusivamente a seguito della rigorosa verifica della reale organizzazione dei mezzi e della assunzione effettiva del rischio tipico di impresa da parte dell’appaltatore, e ciò va fatto anche ripristinando le presunzioni contenute nell’art. 1 della legge 1369/60 (abrogata dalla Legge Biagi) per cui “è considerato appalto di mere prestazioni di lavoro ogni forma di appalto o subappalto, anche per esecuzione di opere o di servizi, ove l’appaltatore impieghi capitali, macchine ed attrezzature fornite dall’appaltante, quand’anche per il loro uso venga corrisposto un compenso all’appaltante”.
  • Ugualmente va cancellata la normativa (sempre introdotta in origine dalla legge Biagi) che esclude o affievolisce per i lavoratori degli appalti l’applicazione delle tutele in caso di cessione d’azienda aprendo ad ogni cambio appalto un orrendo mercato per cui le riassunzione sono sempre al ribasso per i lavoratori e gli introiti al rialzo per i mediatori (a partire dai “compensi” per i sindacalisti complici); ed è quindi necessario affermare che il subentro in un appalto “labour intensive” implica sempre il passaggio automatico del rapporto al nuovo datore senza necessità di nuovi contratti e quindi con conservazione di tutti i diritti economici e normativi, a cui aggiungere la responsabilità solidale per i crediti pregressi da parte del committente per l’intero periodo prescrizionale degli stessi (e cioè 5 anni per i crediti retributivi e 10 anni per ogni altra pretesa);
  • Va poi cancellato dall’ordinamento ogni residuo trattamento deteriore del socio lavoratore di cooperativa che dovrà quindi avere un corredo di diritti in tutto identico ad ogni altro lavoratore subordinato;
  • E infine andrà affermato l’obbligo per qualunque committente – quale ulteriore condizione di liceità dell’appalto – di pretendere dall’appaltatore che applichi il contratto collettivo più rappresentativo del settore e che comunque garantisca ai propri dipendenti la partirà di trattamento retributivo rispetto a quelli dell’appaltante;

E mentre si batte per rimbullonare gli appalti al telaio del diritto, il lavoro operaio dovrà  (come molte alte volte accaduto nella storia) salvare se stesso, il Paese e, al contempo, risvegliare il lavoro intellettuale dal torpore che l’ha indotto ad infilare la testa nel cappio dello smart working e a guardare l’imminente fine del blocco dei licenziamenti con gli stessi occhi ipnotizzati con cui un coniglio in mezzo alla strada guarda ingrandirsi sempre più i fari di un autotreno in arrivo.

Questo è il programma minimo del 2021. E se a qualcuno non sembra realistico è solo perché non è venuto all’assemblea dei delegati USB della logistica del 19 dicembre.

*presidente Forum Diritti Lavoro

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