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Polizia. Il “mestiere” tra retorica e realtà

I rapporti tra comunisti e polizia non sono mai stati dei migliori, specie in Italia. Quindi, al leggere questa lettera inviataci da Rosanna S., ci siamo interrogati sulla possibilità di pubblicarla senza creare equivoci nel rapporto con i nostri lettori.

Alla fine, ci siamo convinti a farlo in base a due considerazioni, una esterna al testo e l’altra del tutto interna.

La prima: Rosanna dice di aver inviato – sia pur “timidamente” – questa lettera ai sindacati di polizia, ma di non aver avuto neppure un cenno di riscontro. Può esser capitato per disattenzione, come si fa per un fax o una mail di troppo. Può esser capitato per l’eccesso di attenzione che una lettera come questa richiede, specie se si avverte fastidio per le complicazioni. Può darsi insomma che qui sia rinvenuta proposta una visione della “funzione delle forze dell’ordine” decisamente diversa da quella praticata quotidianamente in strade, questure, piazze e celle.

Paradossalmente, questa visione ha molti punti in comune con quella offerta dalla retorica di cui fanno grande sfoggio i ministri dell’interno o il presidente della Repubblica nei discorsi ufficiali. Ma cozza violentemente con i morti – tanti, tutti ingiustificati e ingiustificabili – provocati dalla “disinvoltura” con cui parecchi poliziotti concreti ricorrono alla violenza nei confronti dei fermati. Ne diamo notizia quasi ogni giorno, ed anche noi facciamo fatica a tenere il conto.

Paradossalmente ancora, corrisponde persino – in piccola misura – alla stessa retorica sfoderata nei comunicati con cui i “sindacati di polizia” difendono “i colleghi” indagati (qualche volta, mica sempre…) per l’omicidio di un cittadino temporaneamente nelle loro mani.

La seconda ragione è altrettanto semplice e radicale, e la spiega Rosanna stessa quasi en passant:

Il vecchio motto “divide et impera” è il modo migliore per far crescere generazioni di poliziotti convinti che l’uniforme sia un mezzo per prevaricare e non un modo per rendersi immediatamente riconoscibili al cittadino.

Qui riposa l’essenza stessa della modalità con cui – nel mondo trasformato dal capitalismo – i “detentori del monopolio della forza pubblica” vengono selezionati tra gli strati più poveri della popolazione, opportunamente addestrati, stipendiati (non tantissimo, ma comunque più del lavoratore medio), “protetti” dagli inconvenienti del mestiere e quotidianamente utilizzati contro quella stessa fascia di popolazione da cui provengono.

Non è una novità, certo. Ma soltanto i capitalisti anglosassoni potevano esprimere questo concetto con la sincera brutalità terroristica di cui sono capaci. Si ricorda infatti nel libro “Senza patto né legge” (Filippo Manganaro, Odradek):

Posso assumere metà dei lavoratori perché uccidano l’altra metà”. J. Gould, costruttore e proprietario di ferrovie, nel 1886, affrontava così uno sciopero dei suoi dipendenti. La battuta non era evidentemente frutto di un occasionale momento di rabbia, se Martin Scorsese, 115 anni dopo, trova ancora necessario metterla in bocca a uno dei protagonisti del suo Gangs of New York. Rivelatrice di un rapporto sociale, dunque, e di una “costituzione materiale” che non è neppure in aperto conflitto con quella “formale” (privilegio esclusivo, questo, dell’Italia del dopoguerra)…

Questa sostanza, nella lettera di Rosanna, resta molto nascosta tra le pieghe dei suoi ricordi di infanzia, all’interno della famiglia – ci par di capire, e senza alcuna intenzione negativa – di un “poliziotto di paese”. Ovvero di un contesto quasi a-conflittuale in cui “lo Stato in armi” cede il passo a un ruolo di moderazione-mediazione in rapporti sociali comunque semi-pacificati. Finché non arriva qualche cataclisma storico a sconvolgerne gli equilibri.

Il suo passato, dunque, non somiglia granché al nostro. Nelle metropoli – o anche nelle città “medie” – la polizia di 50, 40 o 30 anni fa non agiva in modo molto diverso da ora. Raccoglievamo spesso i nostri morti dal selciato; e molti altri – normalissimi cittadini colpevoli solo di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, davanti alla pistola o al mitra di un poliziotto che sapeva di non correre rischi legali per quel che faceva – sono rimasti a terra sotto il fuoco della polizia o dei carabinieri. Erano gli anni della “legge Reale”, dell’impunità garantita agli agenti dalla pistola facile.

Vero è che nella violenza poliziesca degli ultimi anni c’è un “di più” di protervia, di assenza di una pur pallida giustificazione. Molti vengono uccisi a botte: segno certo di assenza di autocontrollo, odio fisico per “l’altro”, presunzione di “essere la legge” e non “servitori della legge”. Lo si legge ogni volta nei comunicati iracondi dei “sindacati di polizia”. È trasparente fino all’insulto nella autentica persecuzione “ad personam” messa in atto nei confronti di Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi, ucciso di botte a 18 anni senza motivo alcuno in strada, la sera del 25 settembre del 2005, in via Ippodromo a Ferrara.

È il “di più” messo in mostra a Genova 2001, quando centinaia di ragazzi fermati durante una manifestazione vennero pestati e torturati in caserma come fin lì era avvenuto soltanto nei confronti dei guerriglieri degli anni ’70 (ed anche in quel caso, negando l’evidenza della tortura).

Ma questo “di più” – che ha sua rilevanza politica nei tempi attuali – non cambia la natura della cosa. Qui sta dunque la nostra specifica differenza rispetto alla visione di Rosanna. Che va comunque conosciuta e apprezzata per quel che – con molta sincerità e empatia – esprime.

*****

UNA POLIZIA PULITA E’ SICUREZZA PUBBLICA

In questi giorni mi capita di fare il gioco del “come sarebbe stato se” e , spesso, la mente mi porta al futuro come sarebbe stato se fossi diventata una poliziotta.

Oggi, a distanza di tanti anni trascorsi dal giorno del concorso, per altro passato con un punteggio non spregevole, e poi bloccato per fare spazio ad assunzioni per così dire “semplificate” da parte del Ministero, continuo a domandarmi quali siano i criteri di ingresso nelle forze di polizia per le donne.

Non scrivo per recriminare, anche perché della mia vicenda di vita, poco importa; anzi il mio profondo dispiacere per non essere riuscita a diventare una “collega” mi fa guardare alla Polizia di Stato come ad un sogno mai realizzato, come ad una persona cara che non vedi da molto ma non per questo eviti di guardare con disappunto e senso critico proprio perché gli vuoi bene.

Stasera mi preme una riflessione su quello che, da civile, mi pare significhi essere un poliziotto nel 2014.

Mi sembra esserci una frattura insanabile tra generazioni della vecchia guardia e gli odierni tutori dell’ordine; sinceramente preferivo il passato, o meglio l’arco di tempo tra il passato remoto pre riforma degli anni ottanta e l’attualità. Credo infatti che l’evoluzione e la spinta propositiva di questa figura professionale ad un certo punto abbiano subìto una involuzione. Mi spiego meglio.

Ho quarantadue anni e sono figlia di un uomo che ha fatto il poliziotto tutta la vita onorando la divisa che indossava, ma al contempo cercando di modificare gli aspetti negativi di una professione che si portava sul groppo il fardello di una immagine violenta e negativa, l’ultima cosa, quindi, che mi interessa è criticare a vuoto.

I miei ricordi d’infanzia sono legati ad una piccola questura di provincia; ricordo i “telefononi” neri e i pannelli con tanti bottoni dove arrivavano le richieste d’aiuto dei cittadini e partivano le spedizioni della cavalleria in soccorso; ricordo l’evoluzione, negli anni, dello spazio d’uso della tecnologia e i volti dei colleghi di papà. Mi sembravano tutti eroi e vederli in mensa, tutti blu, alle prese con questioni banali come pasta scotta, broccoli e caffè mi faceva sorridere e al tempo stesso sentivo di essere privilegiata e al sicuro. Certo le mie orecchie di bimba sentivano anche frasi di profonda amarezza legate a mancanze di ogni tipo divise, benzina, turni incongrui, senso di abbandono e non curanza da parte dei superiori; ma c’era anche tanta voglia di riscatto, di dare il meglio di se e c’erano poliziotti che ascoltavano, scrivevano e portavano a chi di dovere le rimostranze di tutti. Erano gruppo, ma non complici di scorrettezze.

Ricordo,dopo la riforma tanto caldeggiata dalla parte più democratica della polizia, la festa che si organizzava ogni anno per noi figli di poliziotti il giorno della befana, le difficoltà organizzative e di gestione dell’evento, l’impegno profuso da molti; la gioia di essere lì a condividere anche se magari all’ultimo momento rimanevi senza regalo perché c’erano figli di colleghi di papà che avevano più bisogno di te.

Da ragazza leggevo spesso “Polizia tra la gente” la rivista del sindacato che ho visto nascere e crescere anche in casa mia, anche con il mio sacrificio, rinunciando al tempo che mi poteva essere dedicato da papà che invece veniva investito per una causa comune al corpo di polizia. Per me quindi è assolutamente normale e naturale considerare il poliziotto un uomo comune ma con un ruolo speciale, la tutela dell’altro; attuata magari alle volte con metodi rudi ma mai brutali.

Purtroppo questo “poliziotto novus” si è sgretolato nel tempo, s’è perso la possibilità e, in parte gliela hanno fatta perdere procrastinando riforme e adeguamenti finanziari, di completare un processo di democratizzazione che lo avvicinasse alla gente.

Che fine hanno fatto gli insegnamenti della vecchia guardia magari meno scolarizzata ma sicuramente più preparata al mestiere?

I fiumi di parole e inchiostro, per non parlare di conseguenze ben più serie che alcuni di loro hanno sostenuto con la lotta sindacale, sono persi per sempre?

Questi nuovi colleghi di oggi hanno idea delle difficoltà dei loro predecessori? Non penso, non lo sanno e nessuno si prende la briga di raccontarglielo. Nessuno spiega loro che essere parte delle forze dell’ordine vuol dire aderire ad una storia, non coprirsi con una divisa ma onorarla quella divisa, opponendosi a meccanismi che tendono ad isolare e sfruttare il singolo lavoratore poliziotto e facendoli sentire uniti solo nella sfortuna di un lavoro che richiede tanto e dà poco.

Il vecchio motto “divide et impera” è il modo migliore per far crescere generazioni di poliziotti convinti che l’uniforme sia un mezzo per prevaricare e non un modo per rendersi immediatamente riconoscibili al cittadino.

Mi è stato insegnato che l’esempio è il primo strumento che abbiamo per farci capire, stimare; ecco perché ho apprezzato il gesto dei poliziotti che a Dicembre 2013 hanno tolto il casco nel momento stesso in cui si sono resi conto che la situazione non lo rendeva più necessario e, mi piace pensare, anche un po’ in segno di solidarietà con i manifestanti.

Forse non è tutto perso.

Si rende necessario, secondo me, modificare comportamenti di protezione che scattano nei confronti dei poliziotti violenti,impreparati a gestire lo stress e le provocazioni. Sarebbe un segno di estrema democrazia e assunzione di responsabilità evitare che il cittadino identifichi ormai i poliziotti con l’immagine dei pochi (e sottolineo pochi) che commettono reati, abusi, violenze, pestaggi e ogni sorta di angheria coperti da un casco. La stessa Corte definisce tali soggetti “schegge impazzite”.

Non so come, però è indispensabile una riflessione sull’argomento ed occorre farla subito dato il periodo estremamente critico che l’Italia attraversa. Ritengo che un ruolo fondamentale debba essere ricoperto dalle segreterie dei sindacati di polizia, ponte tra le migliaia di singoli poliziotti e una politica distante e spesso inefficiente. Credo che un dibattito serio sull’adeguamento alle normative europee fornendo un codice identificativo alle divise e ai caschi si renda necessario in periodi dove non si strilla alla televisione su casi di violenza e scontri, evitando quel carattere di urgenza dettato dall’emotività e dal prendere inevitabilmente una posizione corporativa e poco lucida. Sono passati troppi anni e troppi incidenti dalla prima iniziativa parlamentare avanzata alla Camera dei Deputati il 24 settembre 2001 con Atto Camera 1639 e 1639-A. Ecco perché da cittadina che ha una profonda fiducia nelle istituzioni, nella giustizia e nelle forze dell’ordine, provo un profondo malessere leggendo dei casi di violenza perpetrati da poliziotti insensati ed egoisti che non si fanno scrupolo di rovinare l’immagine di un corpo che non merita di averli al proprio interno e che dovrebbe punirli,allontanarli, come si fa con un virus e non coccolarli e scusarli come si fa con dei monelli.

Perché una Polizia pulita è Sicurezza; una vera PS nei fatti e non nelle parole.

 

 

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1 Commento


  • alexfaro

    Tanto x dovere di cronaca,i tanto”famigerati”(qui in occidente)Berkut del”violento dittatore”Yanukovich,un dittatore ben strano che ma guarda un pò,era stato eletto democraticamente nel 2010.
    Ebbene,i Berkut(come anche i normali poliziotti)durante le prime fasi degli scontri con gli oppositori,questo prima della comparsa dei “misteriosi “cecchini(che tanto misteriosi poi non lo erano!)sia chiaro x tutti come BEN EVIDENZIATO dai numerosissimi filmati TV ed anche dalle migliaia di foto comparse in tutto il mondo,oltre ad essere muniti del numero identificativo ben visibile erano anche totalmente disarmati,cioé senza alcuna arma da fuoco(pistola)in dotazione,ma solo dotati di caschi,manganelli e scudi(credo di durallominio)di protezione,infatti solo dopo i primi scontri a fuoco,ed i primi morti anche tra loro,si videro i poliziotti Ucraini(quasi sempre Berkut)armati anche di Kalashnikov,rispondere al fuoco dei (mica tanto)misteriosi cecchini(forse della società Academy ex Black-Water)legati a doppio filo con il governo USA?
    Ma si sa in Ucraina c’era il classico”sanguinario dittatore”satrapo ed amico dello Zar Putin,mica il democratico PdC Italiano(attuale)Renzi.
    un saluto
    Alexfaro

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