Stiamo vivendo in un paese devastato, in cui “la fermezza” vale come repressione solo dei più deboli o degli oppositori politici. Come dimostrano i casi di Nunzio, Luca, Paolo, “i quattro” della Val Susa, ecc. E’ questo il primo pensiero che dovrebbe venire in testa ai fautori – un tantinello ottusi – della “legalità” come unico criterio di valutazione della decisione e partecipazione politica. Almeno quando si trovano davanti a una notizia di questo tipo:
Sono state trovate “nuove prove” a carico del generale Mario Mori, presentate dal procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato all’apertura del processo d’appello per la mancata cattura del boss Bernardo Provenzano a Mezzojuso nel ‘95. Scarpinato ha chiesto la riapertura dell’istruzione dibattimentale e l’acquisizione di numerosi documenti, compresi alcuni atti “classificati” dei servizi segreti, sulla carriera di Mori e su diversi episodi dai quali emergerebbero pratiche investigative poco chiare.
Tra le circostanze contestate dall’accusa anche una condotta depistante che nel 1993 impedì l’arresto a Terme Vigliatore, nel Messinese, del boss catanese Nitto Santapaola. Secondo Scarpinato, Mori avrebbe operato per “finalità occulte”, e per “disattendere doveri istituzionali” in qualità di ufficiale di polizia giudiziaria, venendo meno “all’obbligo di lealtà” nei confronti dell’autorità giudiziaria. Nel corso del processo di primo grado il generale Mori e il suo braccio destro, Mauro Obinu, sono stati assolti “perché il fatto non costituisce reato”.
Naturalmente non entriamo nel merito degli atti di un processo complicatissimo, di cui ignoriamo molto (come tutti quelli che credono di farsene un’idea “tifando” per una o l’altra parte).
Constatiamo che sul banco degli imputati c’è un generale dei carabinieri ritenuto dal suo comando “uomo degno di fiducia” e del mantenimento di un comando importante per molti anni. Uno di quei personaggi al quale i cultori della “legalità” affiderebbero ad occhi chiusi le chiavi della politica e delle istituzioni.
Non ci metteremo qui a disquisire sulla differenza tra “legalità” e “giustizia”, che impegna da qualche millennio le migliori menti del genere umano. Ci limiteremo a ricordare che “legalità” è un concetto che designa semplicemente “la legge che esiste in questo momento”, che magari è la più infame del pianeta (do you remember le leggi razziali? erano leggi regolarmente votate da un Parlamento a disposizione di un governo, come quello in vigore grazie al “porcellum” e ancor più se verrà approvato l'”Italicum”). Una realtà labile, in perenne trasformazione, cui si è vincolati “per legge” ma che è mutabile in ogni momento. Non un totem, non “le tavole della legge”.
Soprattutto, ci limitiamo ad osservare che i “custodi della legge” – magistrati, polizie, carabinieri, ecc – sono uomini come gli altri. Ambiziosi, o solo avidi; quindi corruttibili, comprabili, come tutti gli altri. Non esiste “garanzia” che affidando a un gendarme il potere di decidere cosa si può fare e cosa no si faccia una scelta saggia, “equa”, uguale per tutti. Lo si vede negli Stati Uniti tutti i giorni, a Ferguson come a Los Angeles. E in Italia, ogni giorno.
Non c’è modo di delegare la giustizia. Quando lo si fa, si diventa schiavi.
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Le “nuove prove” nell’inchiesta del Corriere della sera di oggi:
Il protocollo segreto di Mori
Il generale a processo e le accuse sul sistema «Farfalla» del Sisde «Soldi ai parenti di boss al 41 bis per ottenere informazioni»
di Giovanni Bianconi
PALERMO Dalle carte del processo d’appello contro l’ex generale Mario Mori affiora uno dei segreti inseguiti più a lungo dalle indagini antimafia dell’ultimo decennio. Il cosiddetto Protocollo Farfalla, siglato dal Sisde e dalla Direzione delle carceri tra il 2003 e il 2004, quando Mori guidava il servizio segreto civile. Un patto per raccogliere informazioni a pagamento da detenuti di Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra, all’insaputa di investigatori e inquirenti. Che ora, per la Procura generale di Palermo, diventa una nuova prova a carico dell’imputato.
Dopo una vita spesa nei reparti antiterrorismo e anticrimine di servizi segreti e Arma dei carabinieri, a 75 anni Mori sembra un imputato più imputato degli altri. Chiamato a rispondere per la presunta trattativa tra Stato e mafia, dopo l’assoluzione definitiva per la perquisizione mai fatta al covo di Riina nel 1993 e quella di primo grado per la mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995. Ieri, al processo d’appello per quell’episodio, la Procura generale rappresentata in aula dal capo Roberto Scarpinato e dal sostituto Luigi Patronaggio ha chiesto l’acquisizione di nuove prove a carico di Mori. Con l’obiettivo di dimostrare che anche quando era ufficiale di polizia giudiziaria «ha sempre mantenuto il modus operandi tipico di un appartenente a strutture segrete, perseguendo finalità occulte, e per tale motivo ha sistematicamente disatteso i doveri istituzionali di lealtà istituzionale, traendo in inganno i magistrati».
Passato dal servizio segreto militare tra il 1972 e il 1975, quando i vertici del Sid furono coinvolti in trame golpiste e despistaggi, nel 2001 Mori assunse la direzione del Sisde, il servizio segreto civile. E in questa veste attivò il Protocollo Farfalla, operazione «per la gestione di soggetti di interesse investigativo» che secondo il pg Scarpinato aveva un «punto critico»: «La mancanza di un controllo di legalità da parte della magistratura, unico organismo preposto alla gestione dei collaboratori di giustizia secondo severe e garantiste disposizioni di legge».
Alla fine di luglio il governo ha annunciato di aver tolto il segreto di Stato dal protocollo. Ai magistrati di Palermo è giunto dalla Procura di Roma, alla quale l’aveva consegnato il successore di Mori al Sisde, Franco Gabrielli. Un appunto del Servizio datato luglio 2004 dà conto di una «avviata attività di intelligence convenzionalmente denominata Farfalla, attraverso l’ingaggio di preindividualizzati detenuti». Da mesi gli agenti segreti avevano verificato una «disponibilità di massima» a fornire informazioni da un gruppo di reclusi al «41 bis», il regime di carcere duro, «a fronte di idoneo compenso da definire». L’elenco comprende una decina di nomi tra appartenenti alla mafia, alla ‘ndrangheta e alla camorra da cui attingere notizie. Con alcune particolarità: «esclusività e riservatezza del rapporto», nel senso che gli informatori non potevano parlare con altri, né altri dovevano sapere della loro collaborazione; «canalizzazione istituzionale delle risultanze informative a cura del Servizio», per cui solo il Sisde avrebbe deciso se e quando avvertire inquirenti e investigatori, e di che cosa; «gestione finanziaria a cura del Servizio», con pagamenti «in direzione di soggetti esterni individuati dagli stessi fiduciari». Familiari dei detenuti, presumibilmente.
Tra i detenuti contattati ci sono quattro appartenenti a Cosa nostra. Tre dell’area palermitana: Cristoforo «Fifetto» Cannella, condannato all’ergastolo per la strage di via D’Amelio; Salvatore Rinella, della mafia di Caccamo, considerato vicino al boss Nino Giuffrè, braccio destro di Provenzano che in quel periodo stava collaborando con la magistratura; Vincenzo Buccafusca. E poi il catanese Giuseppe Di Giacomo, del clan Laudani. Tra i calabresi viene indicato Angelo Antonio Pelle, mentre per i campani ci sono Antonio Angelino e Massimo Clemente, più qualche altro. I risultati dei contatti non si conoscono, né quanto siano costati. Per gli uomini dei Servizi è tutto legittimo, mentre per i pm palermitani è un ulteriore prova dell’attività «opaca e occulta» di Mori. Il quale, secondo il testimone Angelo Venturi (ex uomo del Sid oggi 84enne, coinvolto e prosciolto nell’indagine sul golpe Borghese), «gli propose di aderire alla loggia P2 di Licio Gelli e fu allontanato dai Servizi perché intercettava abusivamente il telefono d’ufficio del suo superiore Maletti (iscritto alla P2, ndr )». Uno degli informatori di Mori era Gianfranco Ghiron, fratello dell’avvocato Giorgio, difensore dell’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino.
Lo stesso Ghiron ha fornito un appunto del 1974, «nel quale si fa riferimento a Mori, indicato col criptonimo “dr. Amici”, per comunicazioni urgenti concernenti la fuga di Licio Gelli, indicato come “Gerli”». Lì si diceva che se l’allontanamento dall’Italia del Gran Maestro «danneggiava Mr. Vito» – probabilmente Miceli, l’ex capo del Sid, piduista, arrestato poco prima – «fate in modo di fermarlo, se è meglio che se ne va, lasciatelo partire». L’elenco delle nuove prove indicate da Scarpinato e Patronaggio è talmente lungo da sembrare già una requisitoria; Mori in aula ascolta e prende appunti, affiancato dagli avvocati Basilio Milio e Enzo Musco. «Quando toccherà a noi parleremo e replicheremo», si limita a commentare l’ex generale. Che ha rinunciato alla prescrizione del presunto reato, decorsa da tempo, con la volontà dichiarata di inseguire un’assoluzione piena.
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