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Michele Ferrulli, analisi di una sentenza classista

La sentenza di assoluzione dei quattro poliziotti che hanno “arrestato” Michele Ferrulli nel luglio del 2011 conta ben 212 pagine. Pagine che scagionano con ferrea convinzione l’operato dei quattro agenti, e attaccano senza pietà, a volte con malcelato disprezzo, la linea processuale scelta dalla pubblica accusa e dai difensori di parte civile.

Francesco Ercoli, Michele Lucchetti, Roberto Piva e Sebastiano Cannizzo erano accusati di omicidio preterintenzionale e falso ideologico. Secondo il giudice Piffer, le accuse non sussistono e la formulazione dei reati non è assolutamente compatibile con la realtà di ciò che è accaduto quella sera.  Il giudice parte dall’inizio, ovvero dalla diffusione del video che mostra i momenti dell’ammanettamento di Michele Ferrulli steso a terra supino, probabilmente già in fin di vita.

Si vedevano i gesti dei poliziotti che lasciavano pensare a pugni e manganellate, e si sentivano le grida di Michele Ferrulli che chiedeva ripetutamente “aiuto”. Tutto falso: i tre pugni e poi gli altri sette erano il legittimo tentativo da parte dei tutori dell’ordine di sbloccare il braccio di Ferrulli che si opponeva all’ammanettamento.

Le urla “aiuto, basta” e il residuo vocio indistinto dei presenti sulla scena non aggiungono né tolgono nulla, anzi potrebbero ulteriormente smentire la tesi del pestaggio. Nessuno può escludere che Michele Ferrulli urlasse “aiuto” e “basta” per un motivo qualsiasi: per opporsi, per fare scena, per simulare.

Inoltre, secondo il giudice Piffer, le varie perizie hanno dimostrato che le lesioni trovate sul corpo di Michele Ferrulli non sono compatibili con un pestaggio e non hanno alcun nesso causale con la morte. Chi parla di colpi inferti con oggetti contundenti, presumibilmente manganelli, ignora il fatto che i quattro poliziotti intervenuti quella sera non avessero in dotazione alcun manganello.

Le (blande, a detta del giudice) lesioni riscontrate sul corpo della vittima sono irrilevanti nell’aver determinato la morte del soggetto. Michele Ferrulli non è morto perché massacrato di botte, ma per la condizione di stress dovuta al fermo, che ha portato poi al cedimento del cuore per un attacco ipertensivo. Le botte non ci sono state e se pure ci fossero state, la causa della morte sarebbe da individuare in ciò che è avvenuto in seguito.

Da segnalare che in molti altri casi, si è spesso giunti alla conclusione che se muori durante un pestaggio, la colpa è del cuore che si ferma, non di ciò che lo fa fermare. Sottigliezze consentite da un sistema giuridico evidentemente in perfetta salute.

Lo spiegava chiaramente l’avvocato di Lucia Uva, Fabio Ambrosetti, delineando la tesi del “trigger”, il grilletto, la causa scatenante dell’evento morte: se ti accoltello, probabilmente il cuore si ferma per l’emorragia. La causa di morte è l’emorragia, il trigger è l’accoltellamento. E si va a giudizio per omicidio volontario.

Nel caso di Federico Aldrovandi l’insieme di cause che determinarono la morte del ragazzo si chiamava excited delirium syndrome, nome mutuato dalla letteratura medica statunitense, consistente in una sorta di stato di agitazione psicomotoria determinato da più cause. La stessa agitazione psicomotoria tirata in ballo per Giuseppe Uva e per tanti casi di malapolizia, e che spesso fa il paio con presunti episodi di autolesionismo estremo. Si muore di tutto, ma mai di botte. E se botte ci sono state non c’entrano nulla con la morte delle vittime.

Poi si passa all’analisi delle testimonianze, e le corpose pagine della sentenza virano su un tono degno dei migliori film noir. Un teste chiave, tale Alabanda, che durante la colluttazione si era affacciato a riprendere la scena con un telefonino, conferma le quattro versioni fornite dai poliziotti sia in aula sia nei verbali stilati immediatamente dopo. Ferrulli dopo aver insultato e minacciato i poliziotti in tutti i modi opponeva resistenza all’arresto e no, dice Alabanda, non c’è stato alcun pestaggio. Sostanzialmente l’assoluzione perché il fatto non sussiste, oltre che sulla lunga disamina tecnica e peritale sopra accennata, si regge sulla testimonianza di Alabanda e sulle quattro versioni dei poliziotti, assolutamente concordanti tra loro.

A corollario di ciò il giudice afferma con assoluta certezza che gli altri testimoni dell’evento siano stati condizionati dalle pressioni di Domenica Ferrulli, la figlia di Michele. Domenica aveva cominciato a raccogliere materiali e informazioni proprio sulla base delle presunte minacce ricevute dai testimoni chiave: i due rumeni che erano con Michele e altri residenti della via dove avvenne il fatto. Domenica ne era certa, i testimoni stavano ritrattando o addirittura negando le testimonianze, e bisognava correre ai ripari. 

Secondo Piffer tali pressioni hanno reso il teste Nicolae Milian, che era con Michele quella sera, assolutamente inattendibile: lo prova un colloquio registrato clandestinamente da Domenica in seguito al dissequestro della Salma di Ferrulli.

A ciò si aggiunga che Erminia Di Guglielmo – la “zingara italiana” che ha filmato i momenti dell’arresto – “non ricorda nulla”, né ricorda chi fosse la donna che era con lei.

Ciliegina sulla torta: il teste Alabanda ha dichiarato di aver subito pressioni e minacce di altro tipo, ovvero dai centri sociali, dai militanti, dagli occupanti di case e appartamenti della zona.

Anche Francesca Parlato, l’unica testimone che sul momento è andata ad avvisare la moglie di Ferrulli, l’unica che sin da subito affermava che la polizia stesse massacrando Michele Ferrulli, è ritenuta inattendibile perché animata da un’avversione alle forze dell’ordine, visti i precedenti penali del marito!

Infine il giudice setaccia il passato “movimentato” di Michele Ferrulli. Sì, Michele non era granché tranquillo. All’occorrenza sapeva menare le mani e provava un odio irriducibile per gli “sbirri”. Nella sentenza si ripercorrono i suoi trascorsi di attivista nei movimenti per le case occupate, i tafferugli, qualche rissa, qualche casino di quartiere del tutto normale in periferie difficili come quella in cui i Ferrulli vivevano. Questo e altri sporadici episodi portano il giudice al convincimento che il morto fosse sicuro di poter ottenere qualsiasi cosa con l’uso della violenza e della prevaricazione, e che quindi anche quella sera l’uso della forza si rendesse necessario per piegare il suo atteggiamento di ostentato disprezzo nei confronti delle divise.

Lo stigma sociale a carico della vittima è un argomento irrinunciabile in questi particolari casi. Aiuta a perorare certe tesi. A rendere i colpevoli meno colpevoli e le vittime meno vittime. Un tempo si chiamava classismo.

Ora con le differenti sfumature e con le dovute distinzioni che si devono operare caso per caso, chi abbia un minimo di dimestichezza con la lettura delle carte giudiziarie, provi per diletto a sostituire in queste motivazioni il nome di qualsiasi altra vittima di malapolizia, il cui processo si sia concluso in qualsiasi grado con un’assoluzione. La scelta è vasta. I morti non mancano.

* Per chi vuole approfondire, può scaricare la sentenza qui sotto:

pdfMotivazioni_sentenza_Ercoli_1.10.2014_Pages_45_-_100.pdf3.88 MB02/10/2014, 15:31

pdfMotivazioni_sentenza_Ercoli_1.10.2014_Pages_101_-_140.pdf2.58 MB02/10/2014, 15:29

pdfMotivazioni_sentenza_Ercoli_1.10.2014_Pages_141_-_184.pdf2.79 MB02/10/2014, 15:28

pdfMotivazioni_sentenza_Ercoli_1.10.2014_Pages_185_-_212.pdf2.78 MB02/10/2014, 15:32

 

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