Mattinata di martedì 15 dicembre. Mentre in Corte di Cassazione si chiude il primo processone per la morte di Stefano Cucchi, in procura si lavora alla nuova indagine. Situazione paradossale: la prima tranche vede protagonisti al Palazzaccio i sei medici e i tre infermieri che ”accolsero” il ragazzo nell’ottobre del 2009 all’ospedale Sandro Pertini di Roma e tre agenti di polizia penitenziaria. Stamattina nella sua requisitoria il procuratore generale Nello Rossi davanti alla V sezione penale della Cassazione, ha chiesto di annullare con rinvio la sentenza di assoluzione di cinque dei sei medici accusati di omicidio colposo – e quindi di rifare per loro il processo d’appello – e di confermare invece quella dei tre agenti della polizia penitenziaria e dei tre infermieri imputati nel processo.
L’inchiesta bis avviata dal procuratore capo Giuseppe Pignatone e condotta dal sostituto Giovanni Musarò, intanto, ha già prodotto ben cinque indagati: si tratta di carabinieri e i reati ipotizzati nei loro confronti sono quelli di lesioni personali aggravate, abuso d’autorità e falsa testimonianza. «Tutti i carabinieri che ebbero modo di vedere Stefano Cucchi nella mattinata del 16 ottobre nei locali del comando di Tor Sapienza hanno concordemente riferito che il giovane geometra era sofferente, aveva il viso gonfio ed evidenti difficoltà di deambulazione», sostiene la procura nella sua richiesta di incidente probatorio fatta al Gip. Nelle carte vengono anche elencati i nomi di 20 carabinieri che sono stati sentiti come testimoni. I particolari più inquietanti, poi, vengono fuori dalle intercettazioni.
L’ex moglie di uno degli indagati, ad esempio, nel settembre scorso diceva al telefono: «Non ti preoccupare… Che poco alla volta ci arriveranno perché tu come mi hai raccontato a me… Lo hai raccontato a tanta gente quello che hai fatto… Hai raccontato la perquisizione… Hai raccontato di quanto vi eravate divertiti a picchiare quel drogato di merda». L’indagato, a questo punto, avrebbe perso «totalmente il controllo, urlando in modo forsennato e ripetendo la frase “cosa vuoi da me?”».
Sempre secondo l’accusa, il pestaggio sarebbe avvenuto in un arco temporale successivo alla perquisizione avvenuta nell’abitazione dei genitori di Stefano. Il perché è presto detto: «Il pestaggio fu originato da una condotta da resistenza posta in essere dall’arrestato al momento del fotosegnalamento presso i locali della compagnia carabinieri Roma Casilina», dove il ragazzo era stato condotto in un primo momento. Musarò affonda ancora il colpo: «Fu scientificamente orchestrata una strategia finalizzata a ostacolare l’esatta ricostruzione dei fatti e l’identificazione dei responsabili per allontanare i sospetti dai carabinieri appartenenti al comando stazione Appia», e ancora: «il nominativo dei due militari [che parteciparono all’arresto, ndr] non compariva nel verbale d’arresto di Cucchi pur avendo partecipato a tutti gli atti successivi». Un comportamento quantomeno strano, e l’ipotesi del tentativo di cancellare le prove viene sottolineata ancora una volta dalla procura: «Fu cancellata inoltre ogni traccia di passaggio di Cucchi dalla compagnia Casilina per gli accertamenti fotosegnaletici e dattiloscopici al punto che fu contraffatto con bianchetto il registro delle persone sottoposte a fotosegnalamento».
Nel verbale d’arresto, infine, non si parlava proprio del mancato fotosegnalamento: Cucchi «non fu arrestato in flagranza per il delitto di resistenza a pubblico ufficale perpetrato presso i locali della compagnia carabinieri di Roma Casilina» e «non fu denunciato per tale delitto, omissione che può ragionevolmente spiegarsi solo con il fine di non fornire agli inquirenti alcun elemento che potesse spostare l’attenzione investigativa sui militari del comando stazione carabinieri di Roma Appia».
In pratica, i fatti della Casilina furono «taciuti agli altri carabinieri che avevano partecipato all’arresto di Stefano Cucchi». Di materia per riaprire il processo ce ne sarebbe, e parecchia.
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