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Stefano Cucchi non aveva voluto “fare la spia”. Per questo è morto

L’uccisione di Stefano Cucchi non finisce di sollevare sipari chiusi su un mondo inqualificabile. Un nuovo processo è partito, sono cambiati gli imputati (cinque carabineri, invece degli agenti della penitenziaria). Sono usciti fuori nuovi testimoni, ci sono intercettazioni chiare. Eppure non finiscono le “cose strane” che costringono – soprattutto la famiglia e i suoi legali – a stare all’erta.

Lo si è visto in questi giorni con la nomina, da parte del giudice istruttore, del nuovo collegio di periti incaricati di riesaminare le cartelle cliniche di Stefano. Tra questi c’è infatti Francesco Introna, professore di medicina legale a Bari; grande professionista, certamente, che la famiglia considera non proprio super partes visti i suoi consolidati rapporti professionali con Cristina Cattaneo, del Labanof di Milano, incaricata della perizia nel processo precedente, di fatto smentita dalle nuove risultanze.

Ma l’elemento importante, che mancava fin qui, è il movente. Per quanto – giustamente – si possano considerare poco attenti e professionali gli uomini delle “forze dell’ordine” quando hanno a che fare con detenuti, per quanto siano abituali i pestaggi nelle caserme di ogni tipo di polizia, restava comunque abnorme il tipo di violenza subita da Stefano e provata dalle ecchimosi diffuse su tutto il corpo.

Perché tanta violenza su un corpo peraltro abbastanza gracile, ulteriormente indebolito da un passato di tossicodipendenza?

La nuova testimonianza – riportata oggi cul Corriere da Giovanni Bianconi, uno dei pochi giornalisti mainstream capace di andare spesso un po’ oltre la “verità ufficiale”, ci consegna il movente mancante: Stefano non aveva voluto “fare la spia”, ovvero fare i nomi delle persone con cui aveva avuto a che fare ai tempi dell’uso della droga.

Chi ha avuto a che fare con il cacere sa benissimo che “tenere il cecio”, non fare i nomi degli amici o dei conoscenti, è ormai comportamento raro, specie nel mondo dei “tossici”. Ma ci sono eccezioni.

E si sa anche che “gli agenti” rimangono sempre molto sorpresi quando qualcuno che per loro “non conta niente” – “un tossico di merda”, “uno che valeva un milione e trecentoquarantamila lire” (la somma erogata come risarcimento alla famiglia, si dice in un’intercettazione) – mostra di non voler seguire la regola dominante.

Chi conosce la galera sa anche che chi mette le mani addosso a “uno che non conta niente” non è mai un professionista della tortura, ma un banale improvvisatore a digiuno di anatomia, soglie del dolore, fisiologia, ecc. In questi casi, insomma, non ci sono gli esperti della fitness for interrogation, i medici pronti a fermare un “terzo grado” per rimettere in sesto il prigioniero, renderlo pronto a tollerare un’altra seduta di tortura senza però arrivare alle soglie della morte.

Improvvisatori del pestaggio, gente che probabilmente si arrabbia perché non ottiene quel che chiede; e che magari si incazza ancora di più se l’”oggetto” della sua ira osa rispondere male, si lascia scappare un insulto a mezza bocca invece che l’agognata “confessione”, quella che ti consente di fare qualche altro arresto e guadagnare encomi e promozioni…

Il movente, insomma, appare per un verso molto credibile e assolutamente ingiustificabile.

Storie da caserma, di basso livello e di nessuna grandezza, per quanto tragica. C’è solo la tragedia di una morte insensata, per futili motivi…

 

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