Menu

Il fantasma dei “derivati” di nuovo tra noi

Non c’è assolutamente nulla che possa cambiare un modo di sentire e ragionare fondato sull ricerca di profitto crescente, neppure una catena di fallimenti disastrosi. E questa affermazione vale non soltanto sui lunghi periodi, dove in fondo i soggetti cambiano (i vecchi affaristi sono morti, altri sono subentrati, le “lezioni della Storia” si smarriscono), ma anche su quelli brevi, dove i personaggi in commedia sono sostanzialmente gli stessi. E ripetono gli stessi movimenti.

Non appare strano che i primi a preoccuparsi di questa propensione sistematica per la “follia”siano proprio gli organi di stampa padronali. IlSole24Ore dedica da diversi giorni una serie di articoli molto documentati sul “ritorno dei titoli a rischio”. Un ramo “industriale” della finanza globale che ha avuto il suo momento di fama a cavallo tra il 2007 e il 2009, con l’esplosione della crisi globale, per tornare poi rapidamente sullo sfondo della “normalità”.

I “prodotti finanziari derivati” erano sulla bocca di tutti, a causa del disastro dei mutui subprime statunitensi; un innocuo – dimensionalmente – business che cartolarizzava i mutui concessi a gente che non poteva permettersi di comprare una casa. Eppure quella puntina fece scoppiare il grande pallone del debito, avviando la più grave crisi del capitale dal 1929. Ne sanno qualcosa gli 8 milioni di americani che hanno da allora perso lavoro e i 9 milioni (quasi sempre coincidenti con i neodisoccupati) che si sono visti pignorare casa.

Ora sembra che ci siamo – quasi – di nuovo. Perché?

Le ragioni sono abbastanza semplici. La politica delle banche centrali – tutte, in Europa come negli Stati Uniti – è stata “molto accomodante”. Tassi di interesse bassissimi (addirittura tra 0 e 0,25%, negli Usa), acquisto di titoli di stato per sostenerne il valore, acquisto di titoli “tossici” (o accettazione di essi come controvalore per prestiti) per consentire al mercato di rifare un prezzo e renderli scambiabili. Risultato: un oceano di liquidità in cerca di buone occasioni per crescere di valore. Il problema è che però queste occasioni mancano. L’economia reale è ancora in pessimo condizioni ovunque (tranne che nei paesi “ex emergenti”, come Cina, India o Brasile). E persino le materie prime (commodities) sono poca roba rispetto alla montagna di denaro in cerca di valorizzazione. «Le banche di investimento hanno bisogno di mettere a frutto i soldi ma mancano i business. Quindi stanno rientrando in settori difficili e pericolosi. E poiché c’è molto liquidità non si vagliano adeguatamente i rischi». In fondo, non ci hanno salvato già una volta gli stati?

I business pericolosi sono eminentemente finanziari, giochi di fantasia per creare denaro per mezzo di denaro. Oggi come cinque anni fa, l’idea più lucrosa per i grandi soggetti finanziari (soprattutto banche) è quella di utilizzare più volte lo stesso denaro come collaterale per emettere titoli da vendere. Un trucco che a chiunque di noi costerebbe la galera: in pratica, si dice che un certo “prodotto finanziario” che viene messo in vendita è garantito da una certa cifra di denaro messa a garanzia. Ma quella stessa cifra viene posta a garanzia anche di altri prodotti. Come se potessimo ipotecare casa non una, ma dieci o cento volte. Non c’è dubbio che ognuno di noi – se proprietario di una casa – diventerebbe immediatamente molto ricco. E subito dopo un detenuto.

Per le banche, invece, ciò non avviene. Specie per quelle Usa, le più grandi, importanti e “fantasiose” del mondo. Qualcuno sospetta che tanta libertà di truffare sia in qualche modo “garantita” non tanto da ricchezze reali quanto da solidissime testate nucleari. Solo invidia, riponderebbero loro.

Vero è che il Congresso statunitense ha varato una riforma molto severa del sistema finanziario – con la legge Dodd-Frank – ma si è dimenticato di varare i relativi “decreti attuativi”. Risultato: tutto continua come prima, in modo molto deregolamentato, ma con una disponibilità di liquidi molto più alta di prima.

Le stesse banche che sono state salvate dal fallimento soltanto grazie a costosissimi interventi pubblici sono oggi protagoniste dell’assalto speculativo al debito pubblico dei paesi più deboli (Portogallo, Grecia, Irlanda, per ora; in attesa dei “bocconi grossi” come Spagna e Italia). In una catena senza soluzioni di continuità in cui il ruolo di creditore e debitore viene scambiato più volte. Ma “in economia non esistono pasti gratis”, diceva un vecchio teorico conservatore; a qualcuno prima o poi viene presentato il conto. E come sempre – se non interviene la sana rivolta popolare – finanzieri e stati scaricato i debiti da loro contratti sulle popolazioni. La litania la conosciamo bene: tagli (di pensioni, occupazione pubblica, sanità, istruzione, università, servizi vari) e aumento delle imposte indirette (tariffe, accise, sanzioni, contravvenzioni, ecc).

I difensori del capitale ripongono sempre grande fiducia nella definizione di “regole nuove” e guardano con grande speranza al Financial Stability Board (Fsb) presieduto dall’italiano Mario Draghi, primo candidato alla presidenza della Banca Centrale Europea, che ha presentato diverse proposte senza però grandi conseguenze pratiche. Anche perché la parte regolata del mercato finanziario è solo una parte – e nemmeno maggioritaria – del sistema del credito.

Il “sistema bancario ombra” è una filiazione diretta di quello ufficiale, ha gli stessi protagonisti – o, come dice Nicola Borzi, “ogni banca getta un’ombra” – e rigenera continuamente nuovi modi di sottrarsi a ogni regolazione. E qui vale riportare per intero un brano dello stesso Borzi che illumina su alcune modalità di funzionamento di questa zona d’ombra:

“Ma cos’è il sistema bancario ombra? Secondo l’Fsb è un sistema di intermediazione del credito attivo sin dagli anni 50 che coinvolge entità e attività esterne ai sistemi regolari. La Federal Reserve Bank di New York (la banca centrale Usa, ndr) l’anno scorso ha spiegato che sistema ufficiale e ombra hanno gli stessi attori: creditori, debitori e intermediari. Le banche ombra sono fondi e operatori che investono negli strumenti emessi da veicoli societari, differenti per garanzie, duration, rischio e rendimento. Il sistema ombra, come il suo gemello, intermedia il credito, ne trasforma le scadenze e aumenta la liquidità, ma non in operazioni regolate: con suddivisioni, trasformazioni, impacchettamenti e rivendite successive, in una catena di passaggi granulari. Che, negli Usa, sono di solito sette: si acquisiscono prestiti, li si impacchetta, poi si usano i pacchetti come garanzia per emettere titoli strutturati (Asset Backed Securities), che vengono a loro volta impacchettati.

Sui pacchetti di Abs si emettono Collateralized debt obligation (Cdo) che vengono venduti. I ricavi rifinanzieranno altri prestiti.
Vi siete persi? Siete in buona compagnia. Lo stesso Fondo monetario internazionale – non un nome qualsiasi – ha appreso solo a luglio 2010 che le stime sullo shadow banking Usa andavano riviste al rialzo. Un suo economista, Manmohan Singh, e un consulente, James Aitken, avevano scoperto una tecnica (la rehypothecation) usata in silenzio dalle banche ombra: l’utilizzo per più volte dello stesso denaro come collaterale per emettere titoli da vendere. Per l’ingegneria finanziaria è la moltiplicazione degli zecchini nel campo dei miracoli”.

Stando così le cose, l’unico elemento di incertezza è quando – non se – esploderà la nuova crisi finanziaria globale. E l’unica certezza è che, stavolta, gli stati nazionali non avranno soldi da buttare dentro il calderone dei “salvataggi”. Ma proveranno a trovarli, portando il tasso di spremitura della cittadinanza inchiodata al lavoro dipendente (anche quello travestito da partita iva monocommittente, e a qualsiasi grado di precarietà contrattuale) oltre i limiti della sopravvivenza. O, marxianamente, al di sotto del costo di riproduzione della forza lavoro.

Un’occasione supplementare, per verificare che il superamento dell’ordine di cose esistente è di nuovo all’ordine del giorno.

 

*****

Da “Il Sole 24 Ore” del 29 aprile 2011

28 aprile 2011

Banche Ue e derivati: una mina da 4mila miliardi. Il peso degli asset tossici sui bilanci

inchiesta di Fabio Pavesi

A Francoforte ne vanno orgogliosi. Quel premio asssegnato a Deutsche Bank come miglior “House of Derivatives of the year” è un vanto e non giunge inaspettato. Sono anni che la prima banca tedesca incassa il riconoscimento. Del resto è il suo mestiere: produrre, confezionare e vendere, in giro per il mondo, strumenti di finanza strutturata è nel suo Dna ed è tra l’altro fonte di lauti guadagni.

E per una banca d’investimento i profitti sono tutto. Così ecco che l’allarme sulla rinascita della finanza speculativa travalica i confini di Wall Street per giungere dall’altra parte dell’Atlantico. In una finanza globalizzata è inevitabile. E la Goldman o la Citigroup di turno diventano in Europa la Deutsche Bank o la Ubs o, perché no, Royal Bank of Scotland o Barclays e, in terra transalpina, Crédit Agricole o Société Générale.

Il fenomeno della finanza speculativa, dove con un derivato amplifichi d’incanto volumi e valori, perdendo piano piano il nesso con il valore reale degli asset, è vivo e vegeto anche nel vecchio Continente. Basta guardare il peso dei prodotti derivati nei bilanci della grande finanza europea, come ha documentato di recente R&S Mediobanca.

Protagonista di spicco è, guarda caso, la banca guidata da Josef Ackermann. Deutsche Bank vantava, a fine giugno 2010, ben 800 miliardi di derivati su un attivo di bilancio di 1.925 miliardi. Una montagna di denaro in prodotti strutturati che vale ben il 40% dell’intero bilancio del colosso tedesco. Non che l’anno prima, il 2009, e cioé un anno dopo lo scoppio della mina Lehman, le cose andassero tanto diversamente. I derivati assommavano all’epoca a meno di 600 miliardi. Meno certo, ma su un attivo della banca più basso a quota 1.500 miliardi. Quindi con un peso relativo analogo intorno al 40%. A fine del 2010, il peso, secondo le rilevazioni di R&S Mediobanca, è sceso. Di parecchio, ma sempre (vedi tabella) con un valore pari a oltre un terzo delle attività.

Ma se Deutsche è primattore in Europa, anche le altre banche non scherzano. Nel campione dei grandi colossi selezionato da R&S Mediobanca il peso dei prodotti derivati vale in media il 20% del valore delle attività. Un quinto degli asset delle maxi-banche d’Europa poggia sugli strutturati. E quanto vale questa potenza di fuoco? La bellezza di 4mila miliardi di euro. La più grande crisi finanziaria del dopoguerra, innescata dall’uso spregiudicato della turbo-finanza, pare non aver insegnato nulla. Quel produrre, vendere e comprare prodotti ad alto grado di ingegneria finanziaria non si è placato. Anzi, è andato incrementandosi. Solo nel primo semestre dell’anno scorso il peso dei derivati nei conti delle banche europee è salito del 26% a quota 4mila miliardi dai 3.200 del 2009. Oltre a Deutsche Bank ha i portafogli gonfi di derivati Ubs che vanta 380 miliardi di strutturati su mille miliardi di attivo. Con percentuali vicine al 30% degli asset spiccano Royal Bank of Scotland e Barclays. Più sotto le francesi: Société Générale e Crédit Agricole viaggiano sulla media europea: un quinto del valore del bilancio è composto da prodotti strutturati.

Tanto per fare un confronto, ecco la finanza dove – come efficacemente ha tratteggiato Tremonti – non si parla inglese e per questo si è evitato il peggio. I due big italiani, UniCredit e Intesa Sanpaolo, mantengono fede alla loro natura di banche tradizionali. Credito alle imprese e alle famiglie e poco trading di finanza speculativa. Il peso dei derivati sul bilancio si aggira intorno a un decimo delle attività. Che dire? Tanti derivati uguale tanto rischio? Non è detto. Finché il mercato gira e si fissano prezzi plausibili di questi prodotti, nessun problema. I derivati attivi e passivi si compensano e in molti casi fanno pure guadagnare. Il problema si pone se il mercato improvvisamente si dovesse bloccare: allora sì quei derivati perderebbero valore, si avviterebbero e si aprirebbe un buco nei conti delle banche.

Quanto grande? Lehman insegna
Può essere devastante. E qui entra in gioco il tema della leva. Ancora oggi in Europa, in media, l’attivo vale 30 volte il capitale netto delle banche. Per ogni euro della banca 30 sono a prestito. E se l’attivo (leggi anche derivati) dovesse svalutarsi anche solo di pochi punti percentuali, il capitale verrebbe eroso. E di molto.
Lehman insegna.

28 aprile 2011

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *