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Chi vince e chi perde sulla giostra della crisi finanziaria

È caccia all’untore tra ribassi e hedge fund. Ecco chi (e come) guadagna dai ribassi in Borsa

Walter Riolfi

Con il clima di caccia all’untore che si respira di questi tempi, figuriamoci se si trova qualcuno disposto a confessare d’essere andato al ribasso sui Btp o sui titoli delle banche italiane. Proviamo con il gestore di un hedge fund, che sapevamo pessimista da mesi sulla questione dei debiti sovrani. «Ho semplicemente venduto dei titoli in portafoglio, ma non sono andato “corto” (allo scoperto)», dichiara. Sarà. C’è un importante broker, le cui analisi scritte due mesi fa appaiono oggi la perfetta ricostruzione di quanto è accaduto sul debito e sui titoli bancari italiani. Tanta lungimiranza deve sicuramente avergli fruttato. «Non ho mosso un titolo, il mio lavoro è semmai di consigliare gli investitori», risponde. Sarà vero?

La cosa migliore è provare con chi gestisce i fondi di fondi hedge. Loro sanno parecchio, visto che ne tengono sotto controllo almeno un centinaio sparsi in tutto il mondo. Proviamo con una grossa società svizzera e con una di Londra. C’è qualche fondo che ha guadagnato vendendo allo scoperto? «Non ne ho idea», dice il gestore della prima. «E chi lo sa? Bisogna attendere almeno una settimana per vedere le performance del mese scorso», risponde diplomaticamente il secondo. A rigore, ha ragione. Quando Lipper o altre società che monitorano il settore pubblicheranno i risultati del mese di luglio, capiremo anche chi ha venduto allo scoperto.

Saranno gli unici ad aver guadagnato. Essendo sceso tutto, non solo in Italia ma anche nel resto del mondo – tutto dalle azioni alle materie prime – a far soldi possono essere stati solo gli investitori che sono andati al ribasso. Oppure, quelli che, in portafoglio hanno solo bond e titoli di Stato “virtuosi”: soprattutto americani, tedeschi e svizzeri. L’impressione, però, è che la gran parte degli hedge fund, e la quasi totalità dei fondi, abbiano subìto perdite più o meno consistenti. Tra gli operatori internazionali girano voci piuttosto attendibili che anche un guru come John Paulson – quello che tra il 2006 e il 2008 fece guadagni stratosferici vendendo allo scoperto la carta costruita sui mutui casa – abbia perso il mese scorso il 10% circa. E in Europa si racconta che Algebris stia pagando a caro prezzo la fiducia che aveva riservato all’Italia.

Eppure qualcuno avrà pur guadagnato in questa tempesta che ha squassato i Btp e Piazza Affari. «Due mesi fa ci sono stati hedge fund che hanno operato al ribasso sulle attività finanziarie italiane, ma ora il gioco è diventato rischioso», ammette un terzo gestore (londinese) di fondi hedge. C’è del vero, perché questa categoria di investitori è solita muoversi prima delle altre e non può essere tacciata di quel conformismo che invece contraddistingue l’azione dei fondi comuni e dei fondi pensione.

In effetti, a vendere sono stati soprattutto i grandi investitori istituzionali. Per lo più hanno liquidato direttamente i titoli (Btp e azioni bancarie). Se invece hanno semplicemente cercato di proteggere il loro portafoglio obbligazionario, avevano essenzialmente due opzioni: vendere il future sul Btp o assicurarsi comprando un credit default swap. In entrambi i casi avevano messo altri nella condizione di vendere i titoli al ribasso. Sulle azioni, nonostante le cadute abissali subite dai titoli delle banche italiane (e, un po’ dopo, anche del resto d’Europa), non pare vi sia un enorme scoperto. Diversamente dagli Usa, le autorità di borsa europee non tengono sotto controllo l’entità delle posizioni short (ribasso). Oltre ai future sugli indici, l’unica finestra per spiare in questo senso il mercato è attraverso le opzioni sui singoli titoli: e da questa non pare proprio che lo scoperto sia così grande, visto che le call (opzioni in acquisto) superano le put (in vendita).

 

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Finanza e derivati otto volte più forti dell’economia reale

di Morya Longo


Quando i politici ribadiscono che l’attacco all’Europa e all’Italia è ingiustificato perché i fondamentali economici sono sani, ricordano un po’ il vecchio Priamo. Anche il mitologico re di Troia pensava che le mura della sua città fossero forti per resistere all’attacco degli achei. E in effetti lo erano: il problema è che un gigantesco cavallo di legno, con l’inganno, le varcò comunque. Oggi il rischio è lo stesso: i moderni cavalli di Troia non sono più di legno e hanno nomi ben meno mitologici: si chiamano credit default swap, spread, Etf, Borse, derivati, volatilità. Ma rischiano di avere lo stesso effetto distruttivo: insinuarsi nell’economia reale e, alla lunga, minarne le fondamenta. Come cavalli di Troia. O, per cambiare paragone, come Ufo pronti ad invadere la Terra.

Il motivo è presto detto: sono, come si vede nella grafica, molto più grandi dell’economia reale. Se il Prodotto interno lordo del mondo intero nel 2010 è stato di 74mila miliardi di dollari, la finanza lo surclassa: il mercato obbligazionario mondiale vale 95mila miliardi di dollari, le Borse di tutto il mondo 50mila miliardi, i derivati 466mila miliardi. Tutti insieme (e stiamo escludendo valute e quant’altro), questi mercati sono otto volte più grandi della Terra: della ricchezza prodotta da industrie, agricoltura, servizi. È per questo che, con mille meccanismi, riescono a condizionare con il loro isterismo il mondo reale. La teoria insegna che i mercati finanziari dovrebbero riflettere i fondamentali economici, ma non è più così: ormai li determinano.

Il posizionamento
Per capire come funzionano bisogna fare un passo indietro. Tutto inizia quando la Grecia entra in crisi, seguita da Irlanda e Portogallo. Questo mina ben presto la fiducia degli investitori internazionali: non tanto per il peso di questi Paesi (che contano poco nell’economia europea), ma per la totale incapacità dell’Unione europea di reagire. I grandi fondi e le grandi banche mondiali iniziano così ad alleggerire i loro investimenti su questi paesi, ma risparmiano in parte l’Italia: il Belpaese è abbastanza periferico per consentire loro di tenere un’esposizione sul Sud Europa, ma abbastanza solido per non rischiare troppo.

Per fare tutto questo, e per guadagnarci anche, ci sono mille modi. Tanti giochetti finanziari. «Uno era di vendere Spagna sui mercati dei titoli di Stato e di comprare Italia», spiega un operatore. Un altro – ben più popolare – era di vendere Italia e comprare Germania. Questo si poteva e si può fare con i titoli di Stato veri e propri, oppure con i loro “cloni”: i credit default swap (Cds), polizze che servono per assicurarsi contro il crack di un Paese. Un’altro giochino è quello chiamato carry trade: i grandi investitori prendono in prestito denari a tassi bassi per comprare titoli (anche BTp) con tassi più elevati. Oppure ci sono gli Etf: strumenti che replicano pedissequamente gli indici azionari o obbligazionari, con la possibilità di ampliarne i movimenti. Se si azzecca l’intuizione, si può guadagnare il doppio o il triplo. Su tutti gli investimenti, infine, si può sempre costruire una “leva”: un ulteriore moltiplicatore di guadagni e di perdite. Le vie della finanza sono infinite.

L’invasione
Il problema è che poi il clima è peggiorato in Europa. Alla crisi di Grecia, Portogallo e Irlanda, si è aggiunta un’aggravante: l’economia ha iniziato a rallentare. Questo ha fatto scattare il panico in molti investitori: se la congiuntura frena, per gli Stati (Italia in primis) sarà più difficile rimborsare i debiti. Subito sono iniziate le vendite: in Borsa, sui bond, sui derivati. Chi in precedenza aveva imbastito giochi speculativi ha dovuto subito smontarli: chi, per esempio, vendeva Spagna e comprava Italia ha iniziato a fare l’opposto. E ha continuato a comprare Germania, cioè Bund.

Mercati finanziari così grandi permettono di aggiustare il tiro in poco tempo. Chi può, vende titoli di Stato. Altrimenti scarica azioni, per esempio quelle italiane: qualunque titolo è ormai considerato rischio-Stato. Altrimenti fa lo stesso attraverso i credit default swap: compra polizze assicurative e si protegge dal rischio Italia. Oppure usa i futures. O i cari amici Etf. Morale: neanche il tempo di accorgersene e crolla tutto.

Le conseguenze
Tutto questo ha effetti diretti sul destino di interi Paesi. Se i rendimenti dei titoli di Stato salgono troppo, che sia giusto o sbagliato non importa: per i Governi in ogni caso diventa prima oneroso, poi difficile infine impossibile rifinanziare il proprio debito. E se i Governi non riescono più a collocare titoli di Stato, vanno in default perché non possono più rimborsare i debiti in scadenza: evento già sfiorato da Grecia, Portogallo e Irlanda. Se accade, significa che il primo cavallo di Troia ha varcato le mura. Anche perché subito dopo crollano le banche. Se i titoli in Borsa precipitano troppo, il problema è invece serio per le imprese: il Paese perde ricchezza, i consumi calano, le imprese fatturano meno, dunque licenziano. Se accade, significa che il secondo cavallo di Troia ha fatto centro.

E così via: mercati finanziari immensi e volatili, con la loro capacità di amplificare l’isterismo, hanno alla fine un impatto enorme sull’economia reale. Chi vede il bicchiere mezzo vuoto pensa che tutto questo possa distruggere Paesi interi. Chi preferisce vedere il bicchiere mezzo pieno, invece, pensa che alla fine i mercati spingeranno i Governi a prendere velocemente decisioni difficili ma necessarie. Comunque li si guardi, i cavalli di Troia stanno entrando. E non possiamo neppure arrabbiarci non Ulisse: li abbiamo costruiti noi – uomini di finanza con il tacito consenso dei politici – non fantomatici nemici.

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