Joseph Halevi
Il cul de sac della crisi europea
Il contesto dell’eurozona è invece diverso. Dall’apertura del fronte greco da parte della Germania nel novembre del 2009 (ricordiamo che fu lo sbraitare di Berlino ad aizzare le agenzie di rating contro la Grecia e poi contro gli altri paesi più vulnerabili), un nuovo strato di titoli tossici si è accumulato nel sistema finanziario europeo per via del tutto istituzionale. Si tratta dei buoni statali del debito pubblico. La formazione di tale strato è tanto più grave quanto più le autorità di Bruxelles e la Bce fanno di tutto per negare la presenza della montagna di titoli privati tossici che riempiono le casseforti delle banche tedesche e francesi. Ne consegue che lungi dall’aver affrontato la crisi bancaria europea, governi nazionali, Bruxelles e la Bce ne hanno aggiunta un’altra, intricatissima, fabbricata con le proprie mani. Il fenomeno di queste ultime settimane in cui le società finanziarie, a partire dalle banche, scommettevano contro se stesse scaricando titoli pubblici, mandando in fibrillazione le scatole cinesi dei credit default swaps ed ulteriori derivati, è spiegabile senza dover ricorrere allo spauracchio della speculazione in agguato. Nei portafogli delle banche i titoli pubblici hanno sempre figurato come una componente forte e come elemento di stabilità. Il loro acquisto è stato favorito dalle stesse autorità di controllo e di regolamentazione perché si considerava che i buoni del tesoro fossero facilmente convertibili in denaro in caso di crisi. Con la rottura del circuito tra Tesoro nazionale e Banca centrale avvenuta con la creazione dell’Unione monetaria europea, il titolo pubblico non ha più le caratteristiche ora descritte. Esso assume un grado di rischio che può, al suo aumentare, diventare tossico. Lo zoccolo duro diventa estremamente friabile e le banche sono portate a svendere.
Il passaggio da una situazione potenziale a quella reale di oggi è avvenuto con l’istituzione nella primavera del 2010 del fondo di salvataggio Efsf. Come notato da Yanis Varoufakis l’attivazione del fondo aumenta il rapporto debito/pil dei paesi solventi. Ogni incremento delle dotazioni dell’Efsf viene addebitato ai paesi da cui vengono attinti i fondi. È evidente che l’Italia, non essendo un piccolo paese, non potrà mai essere «salvata» con questo meccanismo. Un eventuale tentativo di salvataggio dell’Italia comporterebbe un addebitamento di fondi addizionali alla Francia e alla Germania tale da rendere il loro rapporto debito/pil tanto «brutto» quanto quello italiano. Nel perverso sistema attuale non c’è alternativa al suicidio: cercare la solvibilità attraverso terrifficanti tagli di bilancio che comprimendo il pil aumenteranno il rapporto di indebitamento portando così il paese allo sfascio più completo.
Guido Ambrosino
La sinistra tedesca per gli eurobonds Angela Merkel non vuole saperne
Socialdemocratici, socialisti della Linke e verdi criticano i diktat «caporaleschi» della cancelliera
Nicolas Sarkozy, nel suo incontro del 16 agosto a Parigi con Angela Merkel, potrà contare sull’appoggio dell’opposizione tedesca su uno dei punti che gli stanno a cuore: gli eurobonds, strenuamente osteggiati da Merkel. Titoli di credito garantiti in solido dagli stati di Eurolandia, ridurrebbero i costi del finanziamento del debito per i paesi-porcelli (i soliti Piigs, Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna), lo modererebbe per quelli a rischio di declassamento come la Francia, ma comporterebbe un costo aggiuntivo per la Germania.
Il saggio di interesse degli eurobonds dovrebbe orientarsi sulla media di quelli pagati dai singoli stati, e sarà quindi superiore a quello attuale dei Bund tedeschi. Tuttavia, secondo l’opposizione, ne varrebbe la pena, perché consentirebbe di uscire dalla crisi dei debiti statali europei. La Germania, che piazza in Europa metà delle sue esportazioni, ha bisogno di vicini in grado di comprare le sue merci, con un euro stabile. Per fortuna in Germania l’idea degli eurobonds non viene identificata con Tremonti: l’accostamento con un ministro dello screditatissimo governo Berlusconi l’avrebbe messa fuori gioco. I media tedeschi la collegano piuttosto al lussemburghese Jean-Claude Juncker, stimato presidente dell’eurogruppo, e ciò facilita la discussione.
Per primi l’hanno fatta propria i socialisti della Linke. Poi si sono associati i Grüne. Cem Ödzemir, figlio di immigrati turchi che dirige il partito verde con Claudia Roth, ammette che a breve termine i saggi d’interesse aumenterebbero per la Germania, ma aggiunge che «a medio termine con gli eurobonds verrebbe a crearsi un mercato più largo, con più liquidità, e ciò porterà a minori oneri per tutti gli stati», Germania compresa. Tuttavia, per non incoraggiare gli stati a indebitarsi, per Ödzemir sarebbe opportuno porre un tetto alla loro possibilità di ricorrere agli eurobonds: non oltre il 60% del Pil.
È ormai della partita anche Sigmar Gabriel, presidente della Spd. L’8 agosto ha confermato che i socialdemocratici vogliono gli eurobonds: «Alla fine dovrà esserci una garanzia comune per una parte dei debiti». Per Gabriel non si può uscire dalla crisi con «caporaleschi» tagli alle spese: occorre un piano di investimenti da finanziare con un’imposta europea sulle transazioni finannziarie, con un gettito di 100 miliardi di euro.
Ancora più decisi in questa direzione i socialisti della Linke. Per Gregor Gysi, capogruppo al Bundestag, «Angela Merkel deve al più presto recedere dalla sua ostilità agli eurobonds». Gysi, oltre a tassare le transazioni finanziare, vorrebbe un’imposta patrimoniale europea: «Solo con un’equa partecipazione della crescente schiera di ricchi, e non con sempre nuovi tagli imposti per diktat, si potranno ridurre i debiti in Europa».
Le scelte assurde di S&P’s
di Paul Krugman
Si è creata una situazione strana dopo che S&P’s ha dato seguito alla sua minaccia di declassare gli Usa.
Da un lato è legittimo affermare che la follia della destra ha reso l’America una nazione fondamentalmente fragile. Sì, proprio la follia della destra: se non fosse stato per l’estremismo anti-tasse dei repubblicani non ci sarebbe stato nessun problema a raggiungere un accordo che assicurasse la solvibilità della nazione sul lungo periodo. Dall’altro lato si fa fatica a immaginare entità meno qualificate delle agenzie di rating per emettere un giudizio sull’America.
Le stesse persone che avevano valutato positivamente i titoli garantiti da mutui subprime ora si ergono a giudici della politica di bilancio dello Stato? Siamo seri.
Tanto per raggiungere la perfezione, è venuto fuori che Standard & Poor’s ha sbagliato i conti di 2mila miliardi di dollari, e dopo lunghe discussioni lo ha ammesso; dopo di che ha confermato il declassamento.
Ma non basta: tutto quello che ho sentito sulle richieste di Standard & Poor’s spinge a pensare che sulla situazione dei conti pubblici statunitensi stiano raccontando solo sciocchezze. L’agenzia di rating ha lasciato intendere che la ragione del declassamento sta nelle dimensioni della riduzione del disavanzo federale concordata per i prossimi dieci anni: il numero magico apparentemente è 4mila miliardi di dollari. Ma quello che succede sul breve o sul medio termine ha scarsissima influenza sulla solvibilità degli Stati Uniti: mille miliardi di debito pubblico in più aggiungono solo uno ‘zero virgola’ di prodotto interno lordo agli oneri per interessi, perciò un paio di migliaia di miliardi in più o in meno conta ben poco.
Quello che conta sono le prospettive di lungo periodo, che a loro volta dipendono principalmente dai costi della sanità. Ma allora di che sta parlando Standard & Poor’s? Probabilmente la loro teoria è che stringere o meno la cinghia adesso rappresenta un indicatore di tendenze future, ma non c’è nessun motivo valido per prestare fede a questa teoria, e sicuramente Standard & Poor’s non ha alcuna autorità per pronunciare giudizi politici tanto vaghi.
Insomma, l’agenzia di rating sta rigirando le cose a modo suo, e dopo la figuraccia che ha fatto sui mutui non ne ha davvero il diritto. Il declassamento è uno scandalo, non perché l’America sia impeccabile e inattaccabile, ma perché queste persone non sono nella posizione di emettere giudizi.
Il circolo vizioso del downgrade non è scontato, ma c’è il rischio che si sviluppi un meccanismo del genere.
1. Il debito americano viene declassato, innescando richieste sconsiderate di ancora più rigore nei conti pubblici.
2. I timori che questo rigore affossi l’economia fanno scendere la Borsa.
3. Politici e opinionisti dichiarano che la colpa è dei timori sulla solvibilità del Governo federale, nonostante il drastico calo dei tassi d’interesse sui titoli di Stato.
4. Si innescano nuove richieste sconsiderate di ancora più rigore nei conti pubblici, e si ricomincia dal punto 2.
Guardate quanta forza riesce ad avere una vicenda assurda, apparentemente impermeabile ai dati di fatto. (Traduzione di Fabio Galimberti) © 2011 NEW YORK TIMES
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L’alternativa a dollaro-euro? Titoli globali legati al Pil
di Barry Eichengreen *
Per oltre mezzo secolo il dollaro non è stato solo la moneta degli Stati Uniti, ma la moneta del mondo intero, la divisa usata nelle transazioni internazionali e il bene di riserva più utilizzato da Banche centrali e Governi.
Già prima del recente pasticcio sull’innalzamento del tetto del debito, però, il biglietto verde aveva cominciato a perdere smalto. La sua quota sulle riserve in valuta estera delle Banche centrali, ad esempio, era scesa a poco più del 60 per cento, contro il 70 per cento di dieci anni fa. La spiegazione è semplice: gli Stati Uniti non dominano più l’economia mondiale come in passato. È più che logico che il sistema monetario internazionale segua la strada dell’economia diventando più multipolare. Così come ora gli Stati Uniti devono spartire il palcoscenico mondiale con altre economie, così il dollaro dovrà fare spazio ad altre valute internazionali. Nel mio recente libro, Exorbitant Privilege: The Rise and Fall of the Dollar, descrivevo un futuro in cui le valute dominanti a livello mondiale saranno il dollaro e l’euro. E sbirciando più avanti, di una decina d’anni o più, prefiguravo un potenziale ruolo internazionale anche per la valuta cinese, lo yuan renminbi. Escludevo un possibile ruolo per i Dsp (Diritti speciali di prelievo), l’unità contabile emessa dal Fondo monetario internazionale. I Dsp, essendo un paniere di quattro valute, possono risultare interessanti per Banche centrali e Governi desiderosi di cautelarsi dagli imprevisti, ma il processo di emissione è farraginoso e non ci sono mercati privati in cui possano essere scambiati. La conclusione a cui giungevo era che non esisteva nessuna alternativa realistica a uno scenario che vedesse dollaro ed euro continuare ad avere un ruolo dominante nelle transazioni internazionali.
La differenza adesso è che tutte e due le monete sono state colpite da un virus. Il penoso spettacolo del braccio di ferro sull’innalzamento del tetto all’indebitamento negli Stati Uniti spinge le Banche centrali a interrogarsi sull’opportunità di detenere riserve in dollari, mentre l’incapacità dell’Europa di risolvere la sua crisi del debito sovrano continua ad alimentare dubbi sulle chances di sopravvivenza dell’euro. Un tempo (meno di un anno fa) era possibile immaginare uno scenario con dollaro ed euro a interpretare la parte del leone nelle riserve valutarie mondiali; oggi le Banche centrali sono affannosamente alla ricerca di alternative ai due grandi malati.
Il problema è che queste alternative non ci sono. Il mercato dell’oro è limitato e volatile. I titoli di Stato cinesi restano inaccessibili. Le valute di seconda fascia, come il franco svizzero, il dollaro canadese e il dollaro australiano, anche sommate insieme fanno la figura di un nanerottolo. Ora che le Banche centrali sono alla ricerca di un’alternativa a dollari ed euro, non sarebbe il momento perfetto per potenziare i Dsp? Non è forse un’opportunità irripetibile per farla finita con un sistema che consente alla Fed e alla Bce di dettare legge sull’offerta di liquidità a livello internazionale? La risposta, sfortunatamente, è negativa: i Dsp rimangono un’opzione poco allettante per le Banche centrali deluse da dollaro ed euro. La ragione è evidente: le due monete rappresentano l’80% del paniere di valute che compone i Dsp. Espandere il paniere includendo le monete dei mercati emergenti aiuterebbe, ma fino a un certo punto, perché Usa ed Europa rappresentano ancora metà dell’economia mondiale e più della metà dei mercati finanziari liquidi. I Dsp offrirebbero poca protezione se il dollaro e l’euro perdessero valore nel tempo.
Un’idea migliore è cominciare da subito a creare un bene di riserva globale più allettante. Lo strumento ideale sarebbe un’obbligazione legata al Pil globale, i cui rendimenti varierebbero a seconda dei tassi di crescita dell’economia mondiale, come ad esempio i titoli emessi dai Governi di Costa Rica e Argentina, legati al tasso di crescita dell’economia nazionale. In questo modo le Banche centrali avrebbero la possibilità di detenere strumenti che si comportano come un portafoglio titoli globale largamente diversificato. Compenserebbero l’inflazione e il deprezzamento delle valute in America e in Europa perché i pagamenti sarebbero legati all’andamento del Pil nominale di queste economie, non del Pil reale. Il Fmi potrebbe usare il suo potere di emissione titoli per acquistare obbligazioni indicizzate al Pil emesse dai Governi nazionali, offrendo a questo nuovo bene di riserva mondiale copertura e capacità di produrre interessi, e creando al tempo stesso per i Governi un incentivo a emetterli. Robert Shiller, economista di Yale, sostiene da tempo che i Governi nazionali farebbero bene a emettere titoli di Stato indicizzati al Pil, perché è un modo meno pericoloso di indebitarsi, ma finora è stato difficile convincerli. Persuaderli ad appoggiare un bond indicizzato al Pil mondiale ed emesso dal Fmi sarebbe ancora più difficile. Ma se i Governi e le Banche centrali vogliono veramente individuare alternative al dollaro e all’euro, il momento per cominciare è adesso, e i bond legati all’andamento del Pil sono l’opzione migliore.
* Barry Eichengreen è professore di economia e scienze politiche all’Università della California (Berkeley).
© Copyright: Project Syndicate, 2011.
www.project-syndicate.org
(Traduzione di Fabio Galimberti)
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Perché Obama è nelle mani di Wall Street
di Mario Margiocco
Il mondo di ieri sta cambiando a grande velocità in questo agosto dell’incertezza e dell’angoscia. E le potenti oscillazioni di Borsa dicono quanto i mercati sono disorientati. Oggi al cuore del problema, prima ancora dell’incognita europea sulla tenuta della realtà dell’euro, c’è l’incognita americana: sapranno gli Stati Uniti rimettere ordine nei conti nazionali, assicurare anche per i prossimi anni il semisecolare ruolo centrale del dollaro, e ridare a Wall Street un ruolo credibile di capitale finanziaria del mondo? Washington è confusa quanto e più dei mercati, e più di varie capitale europee perché quanto accade intacca l’idea stessa di America, il potente collante della nazione.
Il Congresso è impantanato e miope. E dalla Casa Bianca non sta venendo, come in realtà non è mai venuta né con l’ultimo Bush né con Obama, una lettura credibile di che cosa è successo, perché, con quali responsabilità, dove si rischia di andare e dove si deve andare. Questa confusione dura da tre anni.
Il contributo europeo a questo caldissimo agosto finanziario è in parte della stessa matrice e in parte diverso, autoctono. Ma è americano il filo conduttore ed è americana la storia principale, che è la capacità degli Usa di continuare a svolgere, come fanno dai primi mesi del 1915 se si va a ben vedere, il ruolo di garante del sistema. Una storia tutta americano-europea allora e fino a circa 30 anni fa, e mondiale oggi. Da qui si parte, e il guaio di oggi, e i balzi dei mercati, sono legati al fatto che si capisce che abbiamo lasciato o stiamo lasciando questa sponda, ma non si sa per dove.
Banche, fondi di vario genere e tutta l’orchestra del moderno e instabile shadow banking temono per la tenuta dei titoli del Tesoro ma continuano a comperarli perché in fondo la fiducia nella capacità americana di onorare i debiti – assai più alti delle cifre ufficiali, come queste colonne ricordano da anni – rimane e non c’è molto altro da acquistare, adesso. I medesimi investitori vendono i titoli delle banche, tutte zombie banks secondo Meredith Whitney, di non grande valore reale, bisognose di un decennio per adattarsi alle nuove realtà (smagrendo), ma comunque legate da un cordone ombelicale a Washington, e al contribuente. Ma depositano i liquidi nelle stesse, perché è chiaro, e la legge di riforma Dodd-Frank lo ha messo nero su bianco, che garantisce il contribuente. È il banking on the State, come lo chiama Andrew Haldane della Banca d’Inghilterra.
Ma qui entrano in gioco la politica, che non si è coperta di gloria, e il contribuente, che è anche elettore. Tutta la classe dirigente americana ha grosse responsabilità nel disastro del 2007-2008, stagione in pieno svolgimento di cui stiamo vivendo la fase due con la fase tre, quella dell’assestamento e dell’effettivo smaltimento del debito, non ancora all’orizzonte. I repubblicani sono stati i teorici della deregulation e i democratici negli anni 90 l’hanno messa in pratica. Di suo, Bush figlio ha aggiunto nella deregulation l’ultima mossa sciagurata, chiesta a gran voce nel 2004 dalle banche d’affari, e lo sgoverno del debito, rincorrendo il mito dei tagli fiscali, come se fossimo ancora all’epoca di quelli di John F. Kennedy.
Obama ha aggiunto il rifiuto di raccontare come ci si è arrivati e come se ne esce. Non lo sta facendo neanche adesso. Varie analisi di questi giorni, sulla grande stampa e le principali reti americane debitamente riprese dall’informazione italiana, parlano di un presidente che non spiega, che rinuncia cioè al ruolo primo del capo della nazione. La stura alle critiche è lo shock fornito dai contabili di Standard & Poor’s, un pulpito malmesso ma non ignorabile, che hanno declassato il debito e, di conseguenza, la politica. Il dubbio che Obama fosse troppo gentile con Wall Street, che dopotutto aveva pagato buona parte delle sue spese elettorali, c’è stato subito, da quando Obama ha affidato le redini dell’economia agli uomini di Wall Street o convinti della bontà della visione del mondo che da Wall Street emana. Gli autori del disastro chiamati in soccorso. Accadeva nel novembre 2008, prima dell’insediamento, e non era difficile accorgersene (Il Sole 24 Ore lo ha fatto).
L’incertezza frena gli investimenti
di Giorgio Barba Navaretti
Quanto accade nei mercati in questi giorni non aiuta a capire l’interfaccia tra finanza ed economia reale. Certo, la crisi del debito sovrano implicitamente colpisce le banche e i loro portafogli dei titoli pubblici. Certo, la fragilità degli Stati ha radici nella poca crescita del Pil.
Ma queste non sono ragioni sufficienti per uno scenario da default generalizzato. E il rimbalzo degli ultimi due giorni dimostra che una parte del mercato non ritiene questo scenario possibile.
Il Bollettino della Bce di agosto evidenzia i fattori che nutrono l’apprensione dei mercati, ma nessuno di questi giustifica il panico. La crescita nell’area Euro è rallentata nel secondo trimestre dell’anno, ma in seguito ad una fase di dinamica particolarmente accelerata e le condizioni di fondo nell’area rimangono sostanzialmente positive.
Negli Stati Uniti il Pil nel secondo trimestre ha deluso le aspettative, ma i primi segnali di recupero dell’occupazione e la posizione della Fed su tassi di interesse stabili fino al 2013 sono segnali incoraggianti. Nei Paesi emergenti c’è un rischio di surriscaldamento, ma per ora, la dinamica della domanda rimane molto sostenuta. E infine, le esportazioni italiane crescono meno in giugno che nei mesi precedenti, ma sono sempre aumentate dell’8% in ragione annua (dati Istat di ieri).
Allora, perché i mercati sono crollati? Il vero nodo, il fattore che rende confuso il confine tra economia reale e finanza è l’incertezza, soprattutto per quanto riguarda il rapporto con la politica economica. E sta proprio all’azione politica disinnescare questa confusione.
La crisi nel 2008-2009 e le caratteristiche della ripresa nel 2010 hanno aperto nei mercati nuovi margini di opacità che continuano a confondere gli operatori. La prima ragione è il restringimento delle opzioni di investimento sicuro. Se i titoli del debito sovrano di Paesi ricchi e relativamente stabili non sono più un rifugio per i risparmiatori, le strategie di diversificazione degli impieghi diventano poco praticabili. Non avendo i portafogli un’ancora certa, anche le opportunità di investimento più rischiose, vedi azioni e obbligazioni corporate, diventano implicitamente meno appetibili e così si riducono le risorse per le attività produttive. Inoltre, il fatto che i mercati diventino riluttanti a finanziare Paesi con un rapporto debito/Pil elevato toglie al bilancio pubblico la propria tipica funzione di cuscinetto anticiclico, soprattutto in recessione. Ristrutturare la solidità dei conti dello Stato è dunque fondamentale a placare i mercati e provvedimenti di contenimento dei conti come quelli varati ieri sera dal Governo sono indispensabili.
Ma le ragioni per cui il denaro scappa dal debito pubblico non sono solo legate alla scarsa oculatezza dei governi, bensì anche all’incapacità di questi di indurre una crescita sufficiente a ripagare i debiti contratti durante la recessione. L’azione pubblica ha sostenuto la domanda durante la crisi, ma non ha saputo dare incentivi sufficienti a rilanciare gli investimenti privati. Nell’area dell’Euro gli investimenti si mantengono, in rapporto al Pil, ad un livello molto più basso di prima della crisi. E le imprese americane sono cariche di liquidità, ma non investono. L’incertezza è insita in mercati difficili, ma qui il nodo è soprattutto politico. La vaghezza dei policy maker crea anch’essa grande confusione per gli operatori. Ciò è molto grave. Governi senza soldi, oltre a migliorare la qualità della spesa, hanno un’unica vera arma per rilanciare la crescita: migliorare le condizioni per gli investimenti con regole chiare e certe.
E infine, arriviamo alla relazione opposta, all’effetto della caduta dei mercati sull’economia reale. Il calo dei corsi alimenta l’incertezza e rende ancor più riluttante chi può investire. Per spendere in macchine, ricerca e capannoni ci vuole più coraggio di prima. Come evidenziato in questo giornale ieri gli investimenti delle imprese italiane sono infatti in calo. E allo stesso modo, le inevitabili manovre di riduzione del bilancio pubblico saranno recessive. Dal punto di vista della crescita queste sono cattive notizie e rischiano di alimentare quelle profezie nefaste che generano il panico nei mercati.
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